martedì 30 novembre 2010

Esperienza in salita


di Riccardo Rodelli

Anche quest'anno ho potuto partecipare all’esperienza degli esercizi spirituali, secondo il metodo di S. Ignazio. Metodo che prevede una preghiera fondata  sull’utilizzo delle tre potenze dell’anima: memoria, intelletto e volontà. Queste forze vengono incanalate, dopo l’orazione preparatoria (breve preghiera con cui si chiede a Dio la grazia, perché tutte le nostre facoltà siano dirette a Lui) in quella che è la composizione di luogo,cioè l’immaginazione dei luoghi, dei posti, dei colori e rumori, dei profumi e delle voci in cui Gesù ha vissuto.

Ritornando alla vita di tutti i giorni, quella composizione di luogo che facevo facilmente durante gli esercizi e che mi permetteva di “vedere” con gli occhi del cuore Gesù nei momenti focali della sua venuta sulla terra, sembrava inefficace perché distratta da mille problemi, da mille persone, da mille immagini.

E così è stato finchè non sono tornato in Chiesa.

Ho l’onore di servire messa nella forma straordinaria del rito “antico”, come se la Chiesa fosse antica o moderna, passata o futura; la Chiesa è presente! Così come Cristo è quello di ieri, di oggi,di sempre.

La messa nel rito tridentino, facilita quella composizione di luogo e questa facilita la preghiera. Quello che ho notato, anche a mie spese,  è che serpeggia una presunzione nella preghiera,  come se di quest’arma potentissima potessimo disporne a nostro piacimento con semplici e poveri mezzi. La preghiera viene dall’alto (come tutto del resto). Gesù nel discorso della montagna (Matteo 5,1-7,28) insegnò ai discepoli a pregare, così con la Trasfigurazione sul monte Tabor (Luca 9,29-31.33.35) Gesù nel mostrarsi con Mosè ed Elia, mostra la continuazione tra il vecchio e il nuovo testamento. Si sale per pregare, si sale per contemplare, e nella strada del Golgota, si sale per soffrire…

Ed è proprio nella messa “in latino” che questo avviene, avviene in questa processione di anime all’altare di Cristo, dove il sacerdote/pastore  sul “monte” o il celebrante/Cristo sul “Golgota”, conduce il pascolo al punto più alto per il contatto con Dio per compiere il più alto dei sacrifici. Questo è il compito del Sacerdote, condurre le pecore al buon pastore e lo fa stando davanti a loro per mostrare meglio la via.

Tanto il monte, quanto il Golgota, quanto l’altare stesso non sono punti di rottura con l’assemblea, ma sono punti di unione con Dio. Se il sacerdote ci volge le spalle e si pone su qualche scalino più in alto, non è per staccarsi dall’assemblea, ma per avvicinarsi di più a Dio. Bisogna pensare che la Messa non è per noi, ma per la gloria di Cristo per due ordini di motivi. Per quanto riguarda il primo, la Santa Messa viene celebrata indipendentemente dalla presenza o meno dell’assemblea; per quanto riguarda il secondo, Cristo non ha bisogno di noi, così come non aveva bisogno di noi sulla croce, ma siamo noi che necessitiamo di Lui.

La messa per come spesso viene concepita  è una piramide rovesciata, dove al vertice si pone un’assemblea che per la maggior parte ritiene che la messa della domenica sia una rivisitazione della cena del giovedì santo, dove ci sono dei commensali un po’ scocciati di essere invitati sempre lo stesso giorno, allo stesso pranzo. E’ ovvio che dopo un po’ tutto perde  il più alto e sublime significato.
La messa tridentina, offre la facilità della preghiera attraverso la composizione di luogo, perché ci permette di comprendere quello che realmente è accaduto il Venerdì Santo e che realmente accade in modo incruento quella domenica, nel  momento in cui il Sacerdote pronuncia l’Hanc igitur.

Come i dieci comandamenti non devono essere considerati un fine, ma un mezzo, così la celebrazione deve essere concepita, come del resto tutti i sacramenti, il mezzo per il fine ultimo, Dio.

Immaginare che su quell’altare ci sia Cristo in croce, non è una piacevole suggestione dello spirito, un dolce sussulto del cuore, ma la reale presenza cui ci troviamo ad essere spettatori. Noi rimaniamo spettatori dell’unico sacrificio che ha salvato l’umanità. Come Renè Girard disse più volte e cioè che tutte le religioni esigevano per la salvezza dei popoli, sacrifici di vittime innocenti, così qui è Dio stesso che si fa sacrificio. La salvezza passa attraverso questo sentiero in salita, tortuoso, scivoloso  e impervio. Riflettiamo sul fatto che il dono che ricevettero gli apostoli, nello stare sotto la Croce con Maria spetta anche a noi, pensiamo che neanche gli angeli, possono godere del ricevere il corpo di Cristo, pensiamo che quel Dio che muore e che risorge, quel Dio che soffre e si umilia, è quell’Ostia che il sacerdote consacra e consegna nella vera comunione, vera non perché fatta da commensali, ma perché voluta e retta da Cristo.

la carità tra noi


Vogliamo agevolare l'incontro di domanda e offerta di lavoro in Puglia ed in Italia per i giovani che lo cercano, anche per poter formare una famiglia:


abbiamo motivo di ritenere che il mondo “tradizionale” sia sensibile verso chi ha un progetto di vita e non riesce a realizzarlo per mancanza di lavoro.

In questo spazio intendiamo pubblicare i profili di persone che cercano un lavoro:
chi fosse interessato all'inserimento o a prendere contatto con qualcuna delle persone di seguito indicate può scrivere a schola.ecclesiamater@gmail.com

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Renato Ramirez
Nato a Monopoli il 11/11/1970
  • Titolo di studio Ragioniere e Perito Commerciale
  • Esperienze lavorative: praticantato ragioneria; magazziniere presso concessionaria Opel; dipendente presso Porcellane di Monopoli.
  • Stato attuale: in mobilità, la quale prevede sgravi contributivi in caso di assunzione.
  • Aspirazioni: aperto e disponibile anche a mansioni non direttamente collegati al titolo di studio (come si evince dalle esperienze lavorative).
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lunedì 29 novembre 2010

Presentazione a Bari del nuovo libro di Nicola Bux

Fonte: "La Gazzetta del Mezzogiorno" di domenica, 28 novembre 2010

domenica 28 novembre 2010

note sulla liturgia

di Giovanni Schinaia

Lo sguardo del Sacerdote non incontra mai quello del popolo. Anche quando il celebrante si volta coram populo per il "Dominus vobiscum", spiritualmente continua a rimanere voltato coram Deo.

Anche il dettaglio - solo apparentemente - più insignificante, (perchè niente nella Liturgia vi è di insignificante) ci ricorda che assistere alla Santa Messa significa calarsi in un universo di simboli. Può capitare che il senso immediato di questo o di quel segno liturgico, ci sfugga.

L'immediata incomprensibilità, per molti dei fedeli, della lettera della lingua latina utilizzata per la Sacra Liturgia, ci ricorda proprio la nostra piccolezza di creature, rispetto all'ineffabilità del Mistero che si compie sull'Altare. Un Mistero che in nessun modo, con la sola forza della ragione, possiamo comprendere. E' necessaria la grazia di Dio, come ammonisce Sant'Agostino; è necessario, con quella grazia, compiere l'itinerarium mentis in Deo, come ancora ci insegnano San Bonaventura e il Beato Giovanni Duns Scoto.

E allora, proprio quell'incomprensibilità della lettera, proprio quel "non capire", proprio i lunghi minuti di silenzio, accompagnati o meno dal canto gregoriano, minuti in cui il Sacerdote dice qualcosa che non sentiamo, non capiamo, minuti in cui il Sacerdote, dandoci le spalle compie dei gesti che non vediamo, ecco, proprio tutto questo, che a un "profano" potrebbe apparire come un limite, diventa in realtà un mirabile strumento di grazia: è attraverso l'incomprensibilità che possiamo sperimentare l'abbandono totale, olistico in Dio; un abbandono che avviene non per necessità vincolante, ma per libera adesione della ragione che riconosce il proprio limite e si ferma: oltre non c'è più ragione umana, c'è solo la grazia di Dio che ancora una volta si rende fisicamente presente fra gli uomini, nel Santissimo Sacramento dell'Altare.

Allo stesso modo, e nello stesso momento, nell'incomprensibilità della lettera, il fedele rinnova - ancora una volta con libera adesione della ragione - la sua convinta appartenenza alla famiglia della Chiesa. "Una cum famulo tuo Benedicto", sono le parole che il Sacerdote rivolge a Dio, ricordando che il Santo Sacrificio si compie in tutte le chiese del mondo, per ordine di Gesù Cristo e sempre e comunque in comunione col suo Vicario, il sovrano regnante romano Pontefice. L'incomprensibilità diventa allora strumento di adesione alla Chiesa, spontaneo e naturale gesto di amore e di fiducia primaria, la stessa che il bambino neonato ripone nella madre, dalla quale sugge il latte ogni giorno, pur non capendo ancora le parole che lei, amorevolente, gli rivolge!

giovedì 25 novembre 2010

santa messa in EF a Monopoli


domenica, 28 novembre - ore 17,30
Santa Messa
in forma straordinaria

Chiesa di San Francesco d'Assisi 

Monopoli

sante messe in EF a Bari


ogni sabato e vigilia
di feste di precetto


SANTA MESSA
in forma straordinaria
ore 19,15

Chiesa di San Giuseppe
borgo antico di Bari

domenica 21 novembre 2010

Musica e riti

di Giannicola D'Amico

D. Prosper Gueranger, primo abate di Solesmes

Recentemente è venuto in luce su “Armonia di Voci” un editoriale del suo direttore don Massimo Palombella che ha attirato alcune critiche qua e là, poiché don Palombella, da circa un mese, è anche il Direttore della Cappella Sistina.
Leggendo con attenzione l’articolo si può ritenere che le critiche non sono del tutto ingiustificate, se consideriamo che l’Autore non è più soltanto il direttore di una rivista musicale di ispirazione salesiana, ma anche il maestro della Cappella musicale del Papa.
E di questo Papa, poi!
L’editoriale nasconde in effetti una aporia di fondo, forse ancora latente, con riguardo al pensiero chiaro e forte del S. Padre in materia di liturgia, arte e musica sacra.
Ma esaminiamo con calma lo scritto di don Palombella.
Egli usa sempre il termine Messa Tridentina e Rito Tridentino e ciò desta qualche perplessità per due ordini di motivi.
Anzitutto perché è ormai un dato scientificamente acclarato il poter parlare, per la celebrazione della Liturgia eucaristica secondo la forma straordinaria del rito romano, più propriamente di Messa gregoriana, o meglio ancora Messa damaso-gregoriana, risalendo l’impianto generale della Messa romana all’epoca dei due Santi Pontefici Damaso e Gregorio Magno, ovvero al lasso di tempo che va dalla metà del IV sec. alla metà del VI sec.
La perplessità nasce anche dal fatto che, qualche anno addietro, in ambito vaticano il termine veniva usato con una certa prevenzione dall’allora Maestro delle Cerimonie, mons. Piero Marini il quale, in un documento del 2004 (Liturgia e bellezza – Esperienze di rinnovamento in alcune celebrazioni pontificie) si poneva le stesse domande di don Palombella, con una punta gratuita di polemica contro “le tendenze tridentine”, associate al canto gregoriano, che era oggetto di una aperta idiosincrasia da parte del ex Maestro delle Cerimonie pontificie.
Ora, il Maestro della Cappella pontificia deve spiegare se si pone nell’alveo del pensiero (illuminato) di Benedetto XVI e del Magistero conciliare e post-conciliare, che va interpretato secondo quell’ermeneutica della continuità di cui il S. Padre si è fatto paladino, o se condivide le posizioni di Piero Marini e di quella parte della Chiesa che, più o meno apertamente, considera lo zelo del Papa per la liturgia un sovrappiù.
Che qualcosa sia cambiato con la riforma liturgica, questo è innegabile, ma il punctum dolens è che, sicuramente, è cambiato molto meno di quanto taluni hanno inteso ed intendono farci credere con le interpretazioni più disparate del dettato conciliare.
Se si seguono i documenti del Magistero e si applica una coerente interpretazione di essi quale lex liturgica promanante dal jus divinum, si comprende come le variazioni intervenute nella prassi liturgico-musicale siano state perlopiù gratuiti sviamenti, spesso giustificati da malintesi motivi di ordine pastorale, che hanno pure omesso di considerare la liturgia come luogo di educazione (naturale e soprannaturale) per declassarla a strumento di accontentamento (sociale ed artistico).
Sul punto del cambiamento da musica “ornamentale” a parte integrante e sostanziale dell’Azione Liturgica, nelle due forme del rito romano, riteniamo ci sia il più grande fraintendimento da parte di don Palombella il quale sostiene che solo nella forma recentiore “attraverso il canto” si celebra il Mistero, giungendo a dire che nella forma tridentina la liturgia possa esistere anche senza musica, evocando la c.d. Messa bassa (o letta).
Se la prima affermazione è viziata, la seconda è parzialmente errata.
Nel rito gregoriano la Messa propriamente detta è quella cantata e la Liturgia pubblica e solenne della Chiesa era quella espressa in tale forma sin dall’alto Medioevo, sicché la Messa letta era stata una versione pratica successiva (sebbene pure molto antica), diffusasi man mano che si era prevista la celebrazione quotidiana per tutti i sacerdoti (e soprattutto per quell’esercito di c.d. “beneficiati” e “celebranti” non in cura d’anime, che da circa cent’anni è pressoché scomparso).
La recita delle antifone, cui il M° Palombella si riferisce, (a meno che non si rifaccia alle epoche barocche e post-barocche – al pari di oggi alquanto opinabili in subiecta materia – oggetto di un certo strapotere musicale sulla liturgia) era prevista in quelle Messe lette cui era stato concesso, in tempi abbastanza recenti, un ornamento cum canticis, tale da rendere necessaria la lettura delle antifone proprie da parte del celebrante perché il diritto liturgico non sanciva certo la minorità del testo antifonale ove cantato, ma invece contemplava la stretta osservanza delle antifone, sostanzialmente inalterate ab antiquo quali parti indefettibilmente costitutive di ogni occasione rituale.
In entrambi i riti, tuttavia, la connessione fra musica e liturgia è talmente “osmotica” che se la musica è buona ne deriva una buona liturgia, se è cattiva anche la liturgia ne soffre: i problemi, oggi, sorgono con le prassi ingenerate da una errata interpretazione della riforma conciliare.
Sul punto non possiamo che dissentire con don Palombella quando afferma, con riguardo al Novus Ordo In sostanza ciò che canto è la celebrazione stessa, attraverso il canto "celebro"”.
Ma ci siamo chiesti quale servizio di canto è espletato con le antifone proprie che la liturgia tuttora contempla, ovvero con le preghiere cantate prescritte dalla Chiesa?
Quasi ovunque si sono introdotti canti alternativi, ma spesso essi non sono opportuni ed adatti.
La recita delle antifone, considerato che l’Istruzione Musicam sacram manteneva intatta la tradizionale distinzione fra messa solenne, cantata e letta, nei casi – ormai di maggioranza pressoché assoluta - di mancata pronunzia in cantu, perché non deve essere applicata da parte del celebrante anche per il rito nuovo?
Il Graduale post-conciliare è sostanzialmente uguale a quello precedente.
Nel rito antico correttamente inteso, poi, ognuno canta la parte che gli compete: il celebrante, il popolo, la schola, qualche eventuale solista.
Nel rito nuovo dovrebbe avvenire lo stesso, ché anzi il Messale di Paolo VI prevede parti in canto – soprattutto per il celebrante - prima non usate, ma quanti preti sanno cantare ciò che dovrebbero? Quante scholae sono ridotte a piccole particine per far cantare l’assemblea (non il popolo)? O, viceversa, quante volte la liturgia è un palcoscenico in cui gruppi e/o soli di alta o bassa estrazione si producono, con la stessa intenzione rituale che avevano molti musici prima delle riforme di S. Pio X?
La pertinenza o im-pertinenza, in entrambi i riti, passa attraverso il recupero di una sensibilità cattolica per la liturgia, spesso smarrita, anche mediante una ri-considerazione del tempo liturgico quale καιρός ovvero “tempo di Dio” e non solo strettamente quale χρόνος soggetto a quelle dinamiche oggigiorno sempre più (dis)umane.
Allora Palestrina e Perosi potranno ben servire anche il Novus Ordo senza apparire giustapposti: ma già sarebbe sufficiente riportare a casa sua il canto gregoriano …..
Su Mozart, citato da don Palombella assieme ai suddetti, ci sarebbe da aprire un capitolo a parte per questioni storiche, estetiche e liturgiche che è meglio qui tralasciare, perché la compatibilità di molta musica sei-ottocentesca con il rito cattolico, antico o nuovo, è francamente discutibile, e con essa molta produzione del salisburghese.
In sostanza, sia nel rito antico, sia nel nuovo, è la mens del musicista che si deve formare su postulati, oggi quasi ovunque abbandonati, derivanti Magistero della Chiesa, come il Papa ci ricorda costantemente, e deve operare di conseguenza.
Vorremmo chiudere con un auspicio che desideriamo sommessamente esprimere al M° Palombella, aldilà di ogni divergenza su quanto detto innanzi, dato che la Divina Provvidenza lo ha chiamato alla più alta responsabilità cui un musicista cattolico possa ambire: da buon salesiano segua l’esempio di Don Bosco, che era un uomo coltissimo, ma preferiva fare il prete d’azione.
Deponga il philosophari e, sulle orme dei suoi grandi predecessori alla guida della Cappella Sistina, insegni con proprietà, diriga con passione, componga con sapienza musica alta e degna per le Liturgie papali: sarà quello l’esempio più efficace per tutti noi.
Legati al nuovo o all’antico Rito, ma tutti – egualmente – cattolici, apostolici, romani, e fedeli di quel Vicario che egli ha avuto in magnifica sorte di poter servire così da vicino.



La vestizione dei paramenti liturgici e le relative preghiere

di don Mauro Gagliardi

1. Cenni storici
Le vesti usate dai ministri sacri nelle celebrazioni liturgiche sono derivate dalle antiche vesti civili greche e romane. Nei primi secoli, l’abito delle persone di un certo livello sociale (gli honestiores) è stato adottato anche per il culto cristiano e questa prassi si è mantenuta nella Chiesa anche dopo la pace di Costantino. Come emerge da alcuni scrittori ecclesiastici, i ministri sacri portavano le vesti migliori, con tutta probabilità riservate per tale occasione [1].
Mentre nell’antichità cristiana le vesti liturgiche si sono distinte da quelle civili non in ragione della loro forma particolare, ma per la qualità della stoffa e per il loro particolare decoro, nel corso delle invasioni barbariche i costumi e, con essi, gli abiti di nuovi popoli sono stati introdotti in Occidente e hanno apportato cambiamenti nella moda profana. Invece, la Chiesa ha mantenuto essenzialmente inalterate le vesti usate dal clero nel culto pubblico; così si è differenziato l’uso civile delle vesti da quello liturgico. In epoca carolingia, infine, i paramenti propri ai vari gradi del sacramento dell’ordine, tranne alcune eccezioni, sono stati definitivamente fissati ed hanno assunto la forma che hanno ancora oggi.

2. Funzione e significato spirituale
Al di là delle circostanze storiche, i paramenti sacri hanno una funzione importante nelle celebrazioni liturgiche: in primo luogo, il fatto che non sono portati nella vita ordinaria, e perciò possiedono un carattere cultuale, aiuta a staccarsi dalla quotidianità e dai suoi affanni, al momento di celebrare il culto divino. Inoltre, le forme ampie delle vesti, ad esempio del camice, della dalmatica e della casula o pianeta, pongono in secondo piano l’individualità di chi le porta, per far risaltare il suo ruolo liturgico. Si può dire che la “mimetizzazione” del corpo del ministro al di sotto delle ampie vesti, in un certo senso lo spersonalizza, di quella sana spersonalizzazione che toglie dal centro il ministro celebrante e riconosce il vero Protagonista dell’azione liturgica: Cristo. La forma delle vesti, dunque, dice che la liturgia viene celebrata in persona Christi e non a nome proprio. Colui che compie una funzione cultuale non attua in quanto persona privata, ma come ministro della Chiesa e come strumento nelle mani di Gesù Cristo. Il carattere sacro dei paramenti risulta anche dal fatto che vengono assunti secondo quanto descritto nel Rituale Romano. Nella forma straordinaria del Rito Romano (cosiddetta di San Pio V), la vestizione dei paramenti liturgici è accompagnata da preghiere relative ad ogni veste, preghiere il cui testo si trova ancora in molte sagrestie.
Anche se queste orazioni non sono più prescritte (ma neppure vietate) dal Messale della forma ordinaria emanato da Paolo VI, il loro uso è consigliabile, perché aiutano alla preparazione ed al raccoglimento del sacerdote prima della celebrazione del Sacrificio eucaristico. A conferma dell’utilità di queste preghiere, va notato che esse sono state incluse nel Compendium eucharisticum, pubblicato recentemente dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti [2]. Inoltre, può essere utile ricordare che
Pio XII, con decreto del 14 gennaio 1940, assegnò un’indulgenza di cento giorni per le singole orazioni.

3. Le singole vesti liturgiche e le preghiere che accompagnano la vestizione
1) All’inizio della vestizione, il sacerdote si lava le mani recitando un’apposita preghiera; oltre al fine pratico dell’igiene, questo atto ha anche un simbolismo profondo, in quanto significa il passaggio dal profano al sacro, dal mondo del peccato al puro santuario dell’Altissimo. Lavarsi le mani equivale in qualche modo al togliersi i sandali davanti al roveto ardente (cf. Esodo 3,5). La preghiera accenna a questa dimensione spirituale:
Da, Domine, virtutem manibus meis ad abstergendam omnem maculam; ut sine pollutione mentis et corporis valeam tibi servire.
(Da’, o Signore, alle mie mani la virtù che ne cancelli ogni macchia: perché io ti possa servire senza macchia dell’anima e del corpo) [3].
All’abluzione delle mani, segue la vestizione vera e propria.

2) Si comincia con l’amitto, un panno di lino rettangolare munito di due fettucce, che si appoggia sulle spalle e si fa poi aderire al collo; infine si lega attorno alla vita. L’amitto ha lo scopo di coprire l’abito quotidiano attorno al collo, anche se si tratta dell’abito del sacerdote. In questo senso, bisogna ricordare che l’amitto va indossato anche quando si utilizzano fogge di camici moderne, le quali spesso non prevedono un’apertura ampia nella parte superiore, e tendono piuttosto a stringersi attorno al collo. Nonostante ciò, l’abito quotidiano rimane ugualmente visibile e per questo è necessario coprirlo anche in questi casi con l’amitto [4].
Nel Rito Romano, l’amitto è indossato prima del camice. Nell’assumerlo, il sacerdote recita la seguente preghiera:
Impone, Domine, capiti meo galeam salutis, ad expugnandos diabolicos incursus.
(Imponi, Signore, sul mio capo l’elmo della salvezza, per sconfiggere gli assalti diabolici).
Con richiamo alla Lettera di san Paolo agli Efesini 6,17, l’amitto viene interpretato come «l’elmo della salvezza», che deve proteggere colui che lo porta dalle tentazioni del demonio, in particolare dai pensieri e desideri cattivi durante la celebrazione liturgica. Questo simbolismo è ancora più chiaro nel costume seguito a partire dal medioevo dai Benedettini, Francescani e Domenicani, presso i quali l’amitto si applicava prima sulla testa e poi si lasciava cadere sulla casula o sulla dalmatica.

3) Il camice o alba è la lunga veste bianca indossata da tutti i sacri ministri, che ricorda la nuova veste immacolata che ogni cristiano ha ricevuto mediante il battesimo. Il camice è dunque simbolo della grazia santificante ricevuta nel primo sacramento ed è considerato anche simbolo della purezza di cuore necessaria per entrare nella gioia eterna della visione di Dio in Cielo (cf. Matteo 5,8). Questo si esprime nella preghiera detta dal sacerdote, mentre indossa il camice, orazione che fa riferimento ad Apocalisse 7,14:
Dealba me, Domine, et munda cor meum; ut, in sanguine Agni dealbatus, gaudiis perfruar sempiternis. (Purificami, Signore, e monda il mio cuore, perché purificato nel Sangue dell’Agnello, io goda degli eterni gaudi).

4) Sopra il camice, all’altezza della vita, è indossato il cingolo, un cordone di lana o di altro materiale adatto che si utilizza a mo’ di cintura. Tutti gli officianti che indossano il camice dovrebbero portare anche il cingolo (questa consuetudine tradizionale è oggi disattesa molto di frequente) [5]. Per i diaconi, i sacerdoti e i vescovi, il cingolo può essere di diversi colori, secondo il tempo liturgico o la memoria del giorno. Nel simbolismo delle vesti liturgiche, il cingolo rappresenta la virtù del dominio di sé, che san Paolo enumera anche tra i frutti dello Spirito (cf. Galati 5,22). La corrispondente preghiera, prendendo spunto dalla Prima Lettera di Pietro 1,13, dice:
Praecinge me, Domine, cingulo puritatis, et exstingue in lumbis meis humorem libidinis; ut maneat in me virtus continentiae et castitatis.
(Cingimi, Signore, con il cingolo della purezza e prosciuga nel mio corpo la linfa della dissolutezza, affinché rimanga in me la virtù della continenza e della castità).

5) Il manipolo è un paramento liturgico adoperato nelle celebrazioni della Santa Messa secondo la forma straordinaria del Rito Romano; è caduto in disuso negli anni della riforma liturgica, anche se non è stato abolito. Il manipolo è simile alla stola, ma di lunghezza minore: è lungo meno di un metro e fissato a metà da un fermaglio o da fettucce simili a quelle che si trovano nella pianeta. Durante la Santa Messa nella forma straordinaria, il celebrante, il diacono e il suddiacono lo portano all’avambraccio sinistro. Questo paramento forse deriva da un fazzoletto (mappula) che era portato dai romani annodato al braccio sinistro. Siccome la mappula si utilizzava per detergere il viso da lacrime e sudore, gli scrittori ecclesiastici medievali hanno assegnato al manipolo il simbolismo delle fatiche del sacerdozio. Questa lettura è entrata anche nell’apposita preghiera di vestizione:
Merear, Domine, portare manipulum fletus et doloris; ut cum exsultatione recipiam mercedem laboris.
(O Signore, che io meriti di portare il manipolo del pianto e del dolore, affinché riceva con gioia il compenso del mio lavoro).
Come si vede, nella prima parte la preghiera cita il pianto ed il dolore che accompagnano il ministero sacerdotale, ma nella seconda parte si fa riferimento al frutto del proprio lavoro. Non sarà fuori luogo richiamare il passo di un salmo che può aver ispirato questa seconda simbologia del manipolo, visto che la Vulgata così rendeva il Salmo 125,5-6: «Qui seminant in lacrimis in exultatione metent; euntes ibant et flebant portantes semina sua, venientes autem venient in exultatione portantes manipulos suos» (corsivo nostro).

6) La stola è l’elemento distintivo del ministro ordinato e si indossa sempre nella celebrazione dei sacramenti e dei sacramentali. È una striscia di stoffa, di norma ricamata, il cui colore varia secondo il tempo liturgico o il giorno del santorale. Indossandola, il sacerdote recita la relativa preghiera:
Redde mihi, Domine, stolam immortalitatis, quam perdidi in praevaricatione primi parentis; et, quamvis indignus accedo ad tuum sacrum mysterium, merear tamen gaudium sempiternum.
(Restituiscimi, o Signore, la stola dell’immortalità, che persi a causa del peccato del primo padre; e per quanto accedo indegno al tuo sacro mistero, che io raggiunga ugualmente la gioia senza fine).
Siccome la stola è un paramento di enorme importanza, che indica più di ogni altro lo stato di ministro ordinato, non si può non lamentare l’abuso ormai diffuso in molti luoghi che i sacerdoti non portino più la stola quando indossano la casula [6].

7) Infine, ci si riveste della casula o della pianeta, la veste propria di colui che celebra la Santa Messa. I libri liturgici hanno usato in passato i due termini latini casula e planeta come sinonimi. Mentre il nome di planeta si usava particolarmente a Roma ed è rimasto in Italia, il nome di casula deriva dalla forma tipica della veste che all’origine circondava interamente il sacro ministro che la portava. L’uso della parola casula si trova anche in altre ligue: «casulla» in spagnolo, «chasuble» in francese e in inglese, «Kasel» in tedesco. La preghiera relativa alla casula fa riferimento all’esortazione della Lettera ai Colossesi 3,14: «Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo di perfezione»; e, infatti, l’orazione con cui si indossa la casula o pianeta cita le parole del Signore contenute in Matteo 11,30:
Domine, qui dixisti: Iugum meum suave est, et onus meum leve: fac, ut istud portare sic valeam, quod consequar tuam gratiam. Amen.
(O Signore, che hai detto: Il mio gioco è soave e il mio carico è leggero: fa’ che io possa portare questo [indumento sacerdotale] in modo da conseguire la tua grazia. Amen).

In conclusione, si può auspicare che la riscoperta del simbolismo proprio ai paramenti e delle rispettive preghiere possa incoraggiare i sacerdoti a riprendere la consuetudine di pregare durante la vestizione, in modo da prepararsi con il dovuto raccoglimento alla celebrazione liturgica. Se è vero che è possibile pregare con diverse orazioni, o anche semplicemente elevando la mente a Dio, nondimeno i testi delle preghiere per la vestizione hanno dalla loro parte la brevità, la precisione del linguaggio, l’afflato di spiritualità biblica, nonché il fatto di essere state pregate per secoli da un numero incalcolabile di sacri ministri. Queste orazioni si raccomandano dunque ancora oggi, per la preparazione alla celebrazione liturgica, anche svolta in accordo alla forma ordinaria del Rito Romano.

Note
[1] Cf. ad esempio san Girolamo, Adversus Pelagianos, I, 30.
[2] Edito dalla LEV, Città del Vaticano 2009, pp. 385-386.
[3] Riprendiamo il testo delle preghiere dall’edizione del Missale Romanum emanato nel 1962 dal beato Giovanni XXIII, Roman Catholics Books, Harrison (NY) 1996, p. lx. La traduzione in italiano delle preghiere è nostra.
[4] La Institutio Generalis Missalis Romani (2008) al n. 336 permette di non assumere l’amitto quando il camice è confezionato in maniera tale da coprire completamente il collo, nascondendo la vista dell’abito comune. Di fatto, però, avviene di rado che l’abito non sia visibile, anche solo parzialmente; di qui la raccomandazione ad utilizzare comunque l’amitto.
[5] Lo stesso n. 336 della Institutio del 2008 prevede la possibilità di omettere il cingolo, se il camice è confezionato in maniera tale da aderire al corpo senza di esso. Nonostante questa concessione, bisogna riconoscere: a) il valore tradizionale e simbolico dell’uso del cingolo; b) il fatto che difficilmente il camice – sia in foggia più tradizionale, che soprattutto nei tagli più moderni – aderisce da sé al corpo. Se la norma prevede la possibilità, essa dovrebbe però restare piuttosto ipotetica in via di fatto: in concreto, il cingolo risulta sempre necessario. A volte si trovano oggi dei camici che hanno il cingolo incorporato: una fettuccia di stoffa unita al camice per mezzo di una cucitura all’altezza della vita e che si annoda al momento della vestizione: in questi casi la preghiera sul cingolo può essere recitata mentre si annoda. Resta però di gran lunga preferibile la forma tradizionale.
[6] «Il Sacerdote che porta la casula secondo le rubriche non tralasci di indossare la stola. Tutti gli Ordinari provvedano che ogni uso contrario sia eliminato»: Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Redemptionis Sacramentum, 25 marzo 2004, n. 123.

pubblicato su ZENIT del 9.12.2009

mercoledì 17 novembre 2010

La ragionevole fede di Newman

di IAN KER

La beatificazione di John Henry Newman, da parte di Benedetto XVI a Birmingham il 19 settembre, non è stata solo la beatificazione di un sacerdote santo che ha vissuto e lavorato come pastore nell'Inghilterra del XIX° secolo, ma anche quella di una figura universale il cui culto è globale. Attraverso i suoi scritti, Newman continua a insegnare e a ispirare innumerevoli persone in tutto il mondo. Il suo motto cardinalizio Cor ad cor loquitur, il cuore parla al cuore, esprime bene la sua duratura influenza spirituale, personale, un'influenza che ha condotto molti dallo scetticismo alla fede, dalla comunione parziale alla piena comunione con la Chiesa cattolica, e che ha meravigliosamente rinnovato la fede di tanti cristiani. Quelle parole le prese in prestito da un altro grande umanista cristiano, san Francesco di Sales, alcune immagini della cui vita adornano le pareti della cappella privata del cardinale nell'Oratorio di Birmingham.

Spesso chiamato «il padre del concilio Vaticano II», Newman nella sua opera teologica classica Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana insegna che la Chiesa deve cambiare o svilupparsi non per essere diversa, ma per essere la stessa. Il concilio, quindi, deve essere interpretato autenticamente in continuità e non in rottura con la tradizione della Chiesa. La sua teologia della coscienza, che ha avuto un effetto tanto profondo su Benedetto XVI quando ancora era un giovane seminarista, dopo gli orrori del totalitarismo nazista, ricorda alla Chiesa la distinzione tra una coscienza autentica che sente l'eco della voce di Dio e una coscienza «contraffatta», che non è altro che «un egoismo previdente, un desiderio di essere coerenti con se stessi». Scrive Newman: «Quando gli uomini difendono i diritti della coscienza, in nessun modo intendono i diritti del Creatore né il dovere della creatura verso di Lui, nel pensiero e nei fatti; bensì il diritto di pensare, parlare, scrivere e agire secondo il loro giudizio o umore, senza neanche un pensiero a Dio».

Pertanto, osserva ironicamente, in una società secolarizzata «è diritto e libertà di coscienza fare a meno della coscienza, ignorare un Legislatore e Giudice, essere indipendenti da obblighi invisibili».

L'invito rivolto dal concilio Vaticano II a tutti i cristiani battezzati a vivere secondo una coscienza ben informata e ad aspirare alla santità è stato più che anticipato dai noti sermoni del beato John Henry, allora ancora anglicano, nella chiesa universitaria di Santa Maria Vergine a Oxford. In essi esortava incessantemente la congregazione a perseguire la perfezione. Queste omelie parlano ancora con forza ai cristiani e sono giustamente considerate classici della spiritualità cristiana.

Newman, il più influente tra i pensatori cattolici moderni, cercò di conciliare la ragione con la fede nei suoi Sermoni all'Università di Oxford — sermoni anglicani — con i quali sfidava la comprensione impoverita che l'Illuminismo aveva della ragione. Completò la sua giustificazione della fede religiosa come del tutto ragionevole nel suo opus magnum cattolico, Grammatica dell'assenso. Newman è considerato uno dei principali filosofi della religione, il cui pensiero riecheggia con forza nella sollecitudine di Benedetto XVI a favore della riconciliazione tra la fede e la ragione.

L'umanesimo cristiano di Newman ricorda il suo connazionale san Tommaso Moro, autore di Utopia, ma il beato John Henry è stato anche un figlio autentico del santo rinascimentale Filippo Neri, fondatore dell'Oratorio, che ha resistito allo «sforzo violento (...) di porre il genio umano, il filosofo e il poeta, l'artista e il musicista, in contrasto con la religione». Nel suo L'idea di università Newman ribadisce che «Conoscenza e Ragione sono ministri certi della Fede» e che la Chiesa «non teme la conoscenza» poiché «tutti i rami della conoscenza sono collegati tra loro, perché il soggetto-materia della conoscenza è intimamente unito in sé, essendo atti e opera del Creatore». Non può esistere vero conflitto tra religione e scienza poiché «la verità non può essere contraria alla verità».

San Tommaso Moro era uno statista e uno studioso, Lord Cancelliere d'Inghilterra e amico di Erasmo. Ma era anche un devoto uomo di famiglia. Chiamato misteriosamente a una vita di verginità quando aveva quindici anni, Newman si rallegrava però di avere una famiglia ristretta di amici e ci ricorda il concetto di amicizia che è andato quasi perso in una cultura secolare che riconosce praticamente solo le cosiddette «relazioni».

Sia nella sua parrocchia anglicana di Santa Maria Vergine a Oxford, sia nella parrocchia dell'Oratorio di Birmingham, Newman è sempre stato un sacerdote pastore. Tuttavia, come documentano le numerose lettere, la sua parrocchia si estendeva ben oltre i propri confini. Tutti coloro che gli scrivevano esprimendo domande e preoccupazioni ricevevano immancabilmente una risposta. La sua estrema cortesia e la sua umiltà verso tutti sono una testimonianza eloquente della sua santità, una santità che ora la Chiesa ha formalmente riconosciuto.

«Signore Gesù Cristo,
che quando stavi per soffrire, hai pregato
per i tuoi discepoli perché fino
alla fine fossero una cosa sola, come
sei Tu con il Padre, e il Padre con
Te, abbatti le barriere di separazione
che dividono tra loro i cristiani di diverse
denominazioni. Insegna a tutti
che la sede di Pietro, la Santa Chiesa
di Roma, è il fondamento, il centro e
lo strumento di questa unità. Apri i
loro cuori alla Verità, da lungo tempo
dimenticata, che il nostro Santo Padre,
il Papa, è il Tuo Vicario e Rappresentante.
E, come in cielo esiste
una sola compagnia santa, così su
questa terra vi sia una sola comunione
che professa e glorifica il Tuo Santo Nome».

(Beato John Henry Newman)

domenica 14 novembre 2010

Il Papa e le omelie «creative»: basta con i parroci superstar

di Andrea Tornielli


Roma. Basta con le omelie «generiche e astratte», che nascondano la semplicità della Parola di Dio, ma basta anche con le «inutili divagazioni» che rischiano di mettere al centro dell’attenzione il predicatore superstar, invece che ciò che dice. L’omelia deve lasciar parlare Dio e anche chi la pronuncia, deve farsi interrogare dalla Parola ascoltata, perché, come scrive sant’Agostino, «È indubbiamente senza frutto chi predica all’esterno la parola di Dio e non ascolta nel suo intimo».
Benedetto XVI ha reso nota ieri l’esortazione postsinodale Verbum Domini, che sintetizza e rilancia il lavoro del Sinodo dell’ottobre 2008 dedicato alla Parola di Dio. Un documento lungo e articolato, che in un passaggio richiama alla loro grande responsabilità i sacerdoti. Questi, scrive il Papa, «devono evitare omelie generiche ed astratte, che occultino la semplicità della Parola di Dio, come pure inutili divagazioni che rischiano di attirare l’attenzione sul predicatore piuttosto che al cuore del messaggio evangelico. Deve risultare chiaro ai fedeli che ciò che sta a cuore al predicatore è mostrare Cristo, che deve essere al centro di ogni omelia. Per questo occorre che i predicatori abbiano confidenza e contatto assiduo con il testo sacro; si preparino per l’omelia nella meditazione e nella preghiera, affinché predichino con convinzione e passione».
Chiunque frequenti le messe domenicali, sa bene come spesso e volentieri lo spazio dell’omelia diventi spunto per riflessioni sganciate dalle letture, in qualche caso per invettive, spesso interamente dedicate alle conseguenze morali o sociali dell’insegnamento evangelico, finendo per considerare sempre scontato il dato di fede. C’è bisogno di più cura e di più attenzione, si legge nel documento papale. Mentre in libreria un volume del teologo don Nicola Bux («Come andare a Messa e non perdere la fede», Piemme) pubblica tra l’altro anche i consigli ai predicatori di uno scrittore e di un giornalista che sa farsi ascoltare. Messori consiglia al prete di predicare secondo queste tre regole auree del giornalismo: semplificare, personalizzare, drammatizzare.
Benedetto XVI fa sue, come indicazione, le domande che il Sinodo ha suggerito stiano alla base di ogni omelia: «Che cosa dicono le letture proclamate? Che cosa dicono a me personalmente? Che cosa devo dire alla comunità, tenendo conto della sua situazione concreta?». E non manca un richiamo alla «testimonianza della propria vita», dato che «nel sacerdote di Cristo la mente e la parola si devono accordare». Una particolare attenzione Papa Ratzinger la chiede anche nei canti che accompagnano la celebrazione, «favorendo» quelli di «chiara ispirazione biblica» che esprimano «mediante l’accordo armonico delle parole e della musica, la bellezza della Parola divina». In questo senso, continua il Pontefice, «è bene valorizzare quei canti che la tradizione della Chiesa ci ha consegnato e che rispettano questo criterio. Penso in particolare all’importanza del canto gregoriano».
Benedetto XVI sottolinea l’importanza della mediazione della Chiesa nell’interpretazione della Bibbia, e chiede che questa non venga «secolarizzata» in chiave positivista, svuotandola dello sguardo che nasce dalla fede e spiegando in altro modo ogni elemento divino, riducendo così «tutto all’elemento umano».
Nell’esortazione, Ratzinger rinnova l’appello perché i governi delle nazioni garantiscano a tutti libertà di coscienza e di religione, anche di poter testimoniare la propria fede pubblicamente», ricordando i cristiani perseguitati. E ripete che «la religione non può mai giustificare intolleranza o guerre», perché «non si può usare la violenza in nome di Dio». Infine, il Papa chiede ai cattolici di essere coerenti se vogliono risultare credibili e rilancia la nuova evangelizzazione, nella consapevolezza «che quanto è rivelato in Cristo è realmente la salvezza di tutte le genti», e «ogni persona del nostro tempo, lo sappia oppure no, ha bisogno di questo annuncio».

pubblicato su "Il Giornale"

mercoledì 10 novembre 2010

Sul colore nero per i defunti

Il numero 346 dell'Ordinamento del Messale Romano di Paolo VI afferma: "Riguardo al colore delle sacre vesti, si mantenga l’uso tradizionale". 
L'uso tradizionale, in Italia, fino agli anni '70 era (e sarebbe ancora), per i funerali e la commemorazione dei defunti, il nero.
Quindi, secondo il capoverso e), il colore nero si può usare, dove è prassi consueta, nelle Messe per i defunti. Peccato che in tutto l'orbe latino sarebbe prassi consueta questo colore, a parte il Giappone che godeva già di un'eccezione, perchè il colore del lutto è laggiù il bianco e non nero. Purtroppo, prima, il paragrafo d) aveva introdotto già fatto scattare l'opzione: d) Il colore viola si usa nel tempo di Avvento e di Quaresima. Si può usare negli Uffici e nelle Messe per i defunti.
Si può fare così oppure colà. La regola sarebbe il nero, ma visto che lo vogliamo eliminare e non possiamo, si son detti gli estensori della riforma, facciamo una bella opzione, poi screditiamo quello che si è sempre fatto e ritenuto ovvio e così introduciamo dovunque la seconda scelta.
E con questo "oppure", anche a causa del neo-cristiano-falso-povero uso di risparmiare sulle casule e paramenti, il nero è andato scomparendo: tanto si può usare il viola.
La stessa fine ha fatto il rosaceo, che per sole due domeniche all'anno, non ha proprio la minima possibilità di sopravvivere ai tagli del budget in sacrestia!
Così è velocemente sparito un colore, il nero, che faceva parte integrante del linguaggio religioso della morte e del lutto. E' rimasto tenacemente fino ad oggi come colore socialmente atteso per il funerale (e vestito dai convenuti), ma è sparito dai presbiteri e dai presbitéri. E questo con oltraggiose motivazioni ideologiche del tipo: "è lugubre, fa pensare alla morte, ma noi celebriamo la risurrezione, mica la morte!". Allora - se proprio fosse vera questa la motivazione - si abbia il coraggio di passare direttamente al bianco, come fanno negli Stati Uniti, dove tutti i cattolici ormai sono sepolti con il colore dei Santi e dei Beati confessori. Il viola invece dice penitenza: ma la penitenza è per i vivi, che penitenza deve fare ormai il povero defunto? Il viola dice attesa (Avvento): oramai, per il caro trapassato, è tardi per attendere, non aspetta più nulla, l'incontro è già avvenuto.
Il viola - infine - nell'unione di blu e rosso parla dell'unione fra divino e umano: ma nel defunto noi vediamo invece la separazione dell'anima dal corpo, lo spirito torna al creatore e il corpo alla terra.
Il viola, dunque, non ha nessuna delle proprietà simboliche necessarie per significare la morte, nè la speranza della risurrezione.
Tuttavia, pur di eliminare il nero (come già presagiva Pio XII parlando di andare "fuori strada") è stato comunque introdotto il colore viola per le celebrazioni funebri…
Se invece si ha la fortuna di possedere nell'armadio della propria chiesa qualche pianeta o qualche casula funebre di un tempo, o si fa un giro sui cataloghi più recenti dei fornitori liturgici, si vedrà con sorpresa che i paramenti neri hanno una proprietà speciale. Sono sempre ricamati o intessuti di argento o d'oro.
Proprio per motivi simbolici. Stanno a dire, con il linguaggio del colore che si usa solo per le occasioni funebri: tutto sembra nero, come la morte, la fine, la mancanza di vita, ma si intravede - invece - sul nero la luce (oro e argento) che viene dalla speranza, anzi dalla certezza della fede nel Signore Risorto. E' lui la luce che illumina e anzi risalta meglio sullo sfondo oscuro della presente situazione di morte, lutto e distacco.
Antropologicamente rispettosi della serietà della morte e insieme teologicamente annuncianti l'irrompere della luce eterna che viene dal Risorto: questo sono i paramenti neri, mai aboliti da nessuno, ma semplicemente nascosti dall'ignoranza del clero e dal credere alle "leggende sacrestane" messe in giro dagli innovatori a tutti i costi.
Quindi: consiglio per chi vuole fare un bel regalo alla sua Chiesa, magari in memoria di un familiare defunto. Andate su E-bay e ordinate una (o più) delle casule e delle stole ivi segnalate. Costano poco, sono belle, e saranno certamente accolte e apprezzate dalla vostra parrocchia.
Se poi potete spendere di più potete salvare qualcuna delle pianete antiche e ricamate che si trovano in giro, cacciate dalle sacrestie e vendute per due soldi trenta-quarant'anni fa, e adesso ricercate e rivendute (agli unici che possono usarle, i preti) a caro prezzo!

martedì 9 novembre 2010

La preghiera per glorificare Pio XII


di Vittorio Messori

E’ già pronta la preghiera per la beatificazione di papa Pio XII. Il testo è stato scritto da don Nicola Bux, stimato docente di liturgia e di teologia, Consultore della Congregazione per il Culto divino e dell’Ufficio per le celebrazioni pontificie. Autore di vari libri, tradotti in molte lingue, in appoggio alla «riforma della riforma liturgica» auspicata da Joseph Ratzinger quando ancora era cardinale, don Bux è particolarmente vicino a Benedetto XVI.
Un testo autorevole, dunque, il suo. Ma autorevolissimo è l’imprimatur ufficiale, concesso dal cardinal Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza Episcopale Italiana. Monsignor Bagnasco ha voluto sottolineare la sua adesione con una autorizzazione manoscritta sotto l’originale del testo.
Il quale altro non è che la preghiera — qui pubblicata — per ottenere da Dio la glorificazione, con l’ascesa agli altari, di colui che per ora è «venerabile»: Eugenio Pacelli, Papa con il nome di Pio XII. La diffusione del cartoncino è già iniziata ed è curata dal «Comitato Papa Pacelli», libera associazione di laici che si è proposta una circolazione di massa.
Dalla Postulazione per la beatificazione è stato ottenuto un lembo della bianca veste talare del Pontefice: su alcune migliaia di copie è così applicata una minuscola reliquia.
Il rabbino capo di Roma l’altro giorno ha usato parole pesanti o «ingenerose», per dirla con il direttore dell’Osservatore Romano («patacca», «propaganda», «falsità») a proposito del film su Pio XII trasmesso dalla Rai.
La verità impone di dirlo con ovvio disagio: chi conosce dall’interno il mondo cattolico sa che tra il «popolo delle parrocchie», ma anche nella Gerarchia, cresce l’insofferenza per l’ostinazione con cui alcuni settori del mondo ebraico alimentano la leggenda nera su Pacelli, nonostante la miriade di documenti e di testimonianze che la smentiscono.
A nulla serve, sembra, ricordare i messaggi di riconoscenza giunti a quel Papa da tutte le comunità israelitiche subito dopo la guerra e l’omaggio universale, a cominciare dai leader di Israele, alla sua morte, nel 1958. Ed è sceso il silenzio sul rabbino capo della Comunità di Roma, Israel Zolli, che nel 1945 chiese il battesimo e volle prendere il nome di Eugenio in segno di riconoscenza per quanto aveva fatto per gli ebrei colui che una sconcertante campagna, iniziata solo negli anni Sessanta, volle presentare come «il Papa di Hitler». Ma non a caso parlavamo di «alcuni settori ebraici» soltanto.
In effetti nel 2007 la riunione plenaria della Congregazione per i Santi approvò all’unanimità il decreto sulla «eroicità delle virtù» di Pacelli, che poteva quindi essere chiamato «venerabile», l’ultima tappa prima della beatificazione.
Ma quel decreto doveva essere approvato e promulgato dal Papa. Benedetto XVI ha, nei riguardi di Pacelli, non solo venerazione per l’uomo ma anche grandissima stima per il teologo: più volte ha ricordato che, dopo la Bibbia, le encicliche di Pio XII sono i testi più citati dal Vaticano II. Dunque, la sua intenzione era quella di firmare subito il decreto, ma fu avvertito che se lo avesse fatto si sarebbe interrotto il dialogo con Israele. Così, Benedetto XVI ordinò un supplemento di indagine negli archivi, anche se più volte già esplorati: la conclusione fu quella già ben nota.
E che, cioè, sul piano storico non era possibile al Papa fare più di quanto avesse fatto (che non era poco: la maggioranza degli ebrei salvatisi in Italia, ma anche in altri Paesi, lo devono alla Chiesa) e qualunque altro atteggiamento avrebbe provocato una catastrofe ancor peggiore.
Come avvenne in Olanda, dopo la protesta pubblica dell’episcopato per le deportazioni. Dunque, Benedetto XVI, nel dicembre scorso, ha rotto ogni ulteriore indugio e ha dichiarato «venerabile» il suo amato predecessore. Ma la decisione è stata presa anche perché decine di rabbini americani, riuniti a convegno, gli inviarono un messaggio con il quale si dissociavano nettamente dalla campagna di diffamazioni condotta da certi confratelli europei.
Quei rabbini ricordavano come Pio XII fosse giunto a far rompere il sigillo della clausura dei monasteri per ospitare ebrei, travestiti poi da suore o da frati e muniti di documenti falsi forniti da stamperie ecclesiali.
La preghiera per ottenere la beatificazione del Papa, approvata dal Presidente della Cei, è esplicita
al proposito: «Ha aperto le braccia di Pietro, senza distinzione, a tutte le vittime dell’immane tragedia della II guerra mondiale». E «con dottrina sicura e mite fermezza, ha guidato la Chiesa attraverso il mare agitato delle ideologie totalitarie».
Ora, però, la parola è a Dio e a nulla serviranno più proteste, sdegni, invettive. La causa di papa Pacelli per la Chiesa è finita: non resta che attendere la conferma divina, l’imprimatur del Cielo sulla convinzione degli uomini che Eugenio Pacelli ha vissuto sino in fondo «in modo eroico» le virtù evangeliche.
Si attende, cioè, che siano vagliati i casi (uno soprattutto, nella diocesi di Sorrento: una donna incinta guarita da un linfoma maligno), inesplicabili per la scienza e per la Chiesa, miracoli. Segni, cioè, della potenza di intercessione presso Cristo del candidato a essere venerato sugli altari come «Beato Pio XII».

PREGHIERA
Signore Gesù Cristo,
Ti ringraziamo per aver donato alla Chiesa il Papa Pio XII,
maestro fedele della Tua verità e pastore angelico.
Egli, con dottrina sicura e mite fermezza,
ha esercitato il supremo ministero apostolico
guidando la Tua Chiesa attraverso il mare agitato delle ideologie totalitarie;
ha aperto le braccia di Pietro, senza distinzione,
a tutte le vittime dell’immane tragedia della II guerra mondiale
ammonendo che nulla è perduto con la pace, opera della giustizia;
con umiltà e prudenza ha dato rinnovato splendore alla Sacra Liturgia:
e ha manifestato la gloria di Maria Santissima proclamandone l’Assunzione al Cielo.
Fa’, o Signore, che sul suo esempio
impariamo anche noi a difendere la verità,
a obbedire con gioia al magistero cattolico
e a dilatare gli spazi della nostra carità.
Per questo ti supplichiamo,
se è per Tua maggior gloria e per il bene delle nostre anime,
di glorificare il Tuo servo, il Papa Pio XII.
Amen

Imprimatur
Angelus Card. Bagnasco

© Corriere della Sera – 4 Novembre 2010


domenica 7 novembre 2010

Benedetto XVI su Erik Peterson

Nel discorso tenuto lunedì 25 ottobre, ricevendo i partecipanti a un simposio internazionale su Erik Peterson (1890-1960), S.S. Benedetto XVI ha spiegato “l’avvicinarsi alla liturgia celeste” insito in una teologia come quella di Peterson e sua.

“Il punto di partenza di questo cammino è il carattere vincolante della Sacra Scrittura. Secondo Peterson, la Sacra Scrittura diventa ed è vincolante non in quanto tale; essa non sta solo in se stessa, ma nell’ermeneutica della Tradizione apostolica, che, a sua volta, si concretizza nella successione apostolica e così la Chiesa mantiene la Scrittura in un’attualità viva e contemporaneamente la interpreta. Attraverso i vescovi, che si trovano nella successione apostolica, la testimonianza della Scrittura rimane viva nella Chiesa e costituisce il fondamento per le convinzioni di fede permanentemente valide della Chiesa, che incontriamo innanzitutto nel credo e nel dogma. Tali convinzioni si dispiegano continuamente nella liturgia quale spazio vissuto della Chiesa per la lode di Dio. L’ufficio divino celebrato sulla terra si trova, quindi, in una relazione indissolubile con la Gerusalemme celeste: là è offerto a Dio e all’Agnello il vero ed eterno sacrifico di lode, di cui la celebrazione terrena è solamente immagine. Chi partecipa alla santa messa si ferma quasi alla soglia della sfera celeste, dalla quale contempla il culto che si compie tra gli angeli e i santi. In qualsiasi luogo in cui la Chiesa terrestre intona la sua lode eucaristica, essa si unisce a questa festosa assemblea celeste, nella quale, nei santi, è già arrivata una parte di se stessa, e dà speranza a quanti sono ancora in cammino su questa terra verso il compimento eterno.”