di Giannicola D'Amico
D. Prosper Gueranger, primo abate di Solesmes |
Recentemente è venuto in luce su “Armonia di Voci” un editoriale del suo direttore don Massimo Palombella che ha attirato alcune critiche qua e là, poiché don Palombella, da circa un mese, è anche il Direttore della Cappella Sistina.
Leggendo con attenzione l’articolo si può ritenere che le critiche non sono del tutto ingiustificate, se consideriamo che l’Autore non è più soltanto il direttore di una rivista musicale di ispirazione salesiana, ma anche il maestro della Cappella musicale del Papa.
E di questo Papa, poi!
L’editoriale nasconde in effetti una aporia di fondo, forse ancora latente, con riguardo al pensiero chiaro e forte del S. Padre in materia di liturgia, arte e musica sacra.
Ma esaminiamo con calma lo scritto di don Palombella.
Egli usa sempre il termine Messa Tridentina e Rito Tridentino e ciò desta qualche perplessità per due ordini di motivi.
Anzitutto perché è ormai un dato scientificamente acclarato il poter parlare, per la celebrazione della Liturgia eucaristica secondo la forma straordinaria del rito romano, più propriamente di Messa gregoriana, o meglio ancora Messa damaso-gregoriana, risalendo l’impianto generale della Messa romana all’epoca dei due Santi Pontefici Damaso e Gregorio Magno, ovvero al lasso di tempo che va dalla metà del IV sec. alla metà del VI sec.
La perplessità nasce anche dal fatto che, qualche anno addietro, in ambito vaticano il termine veniva usato con una certa prevenzione dall’allora Maestro delle Cerimonie, mons. Piero Marini il quale, in un documento del 2004 (Liturgia e bellezza – Esperienze di rinnovamento in alcune celebrazioni pontificie) si poneva le stesse domande di don Palombella, con una punta gratuita di polemica contro “le tendenze tridentine”, associate al canto gregoriano, che era oggetto di una aperta idiosincrasia da parte del ex Maestro delle Cerimonie pontificie.
Ora, il Maestro della Cappella pontificia deve spiegare se si pone nell’alveo del pensiero (illuminato) di Benedetto XVI e del Magistero conciliare e post-conciliare, che va interpretato secondo quell’ermeneutica della continuità di cui il S. Padre si è fatto paladino, o se condivide le posizioni di Piero Marini e di quella parte della Chiesa che, più o meno apertamente, considera lo zelo del Papa per la liturgia un sovrappiù.
Che qualcosa sia cambiato con la riforma liturgica, questo è innegabile, ma il punctum dolens è che, sicuramente, è cambiato molto meno di quanto taluni hanno inteso ed intendono farci credere con le interpretazioni più disparate del dettato conciliare.
Se si seguono i documenti del Magistero e si applica una coerente interpretazione di essi quale lex liturgica promanante dal jus divinum, si comprende come le variazioni intervenute nella prassi liturgico-musicale siano state perlopiù gratuiti sviamenti, spesso giustificati da malintesi motivi di ordine pastorale, che hanno pure omesso di considerare la liturgia come luogo di educazione (naturale e soprannaturale) per declassarla a strumento di accontentamento (sociale ed artistico).
Sul punto del cambiamento da musica “ornamentale” a parte integrante e sostanziale dell’Azione Liturgica, nelle due forme del rito romano, riteniamo ci sia il più grande fraintendimento da parte di don Palombella il quale sostiene che solo nella forma recentiore “attraverso il canto” si celebra il Mistero, giungendo a dire che nella forma tridentina la liturgia possa esistere anche senza musica, evocando la c.d. Messa bassa (o letta).
Se la prima affermazione è viziata, la seconda è parzialmente errata.
Nel rito gregoriano la Messa propriamente detta è quella cantata e la Liturgia pubblica e solenne della Chiesa era quella espressa in tale forma sin dall’alto Medioevo, sicché la Messa letta era stata una versione pratica successiva (sebbene pure molto antica), diffusasi man mano che si era prevista la celebrazione quotidiana per tutti i sacerdoti (e soprattutto per quell’esercito di c.d. “beneficiati” e “celebranti” non in cura d’anime, che da circa cent’anni è pressoché scomparso).
La recita delle antifone, cui il M° Palombella si riferisce, (a meno che non si rifaccia alle epoche barocche e post-barocche – al pari di oggi alquanto opinabili in subiecta materia – oggetto di un certo strapotere musicale sulla liturgia) era prevista in quelle Messe lette cui era stato concesso, in tempi abbastanza recenti, un ornamento cum canticis, tale da rendere necessaria la lettura delle antifone proprie da parte del celebrante perché il diritto liturgico non sanciva certo la minorità del testo antifonale ove cantato, ma invece contemplava la stretta osservanza delle antifone, sostanzialmente inalterate ab antiquo quali parti indefettibilmente costitutive di ogni occasione rituale.
In entrambi i riti, tuttavia, la connessione fra musica e liturgia è talmente “osmotica” che se la musica è buona ne deriva una buona liturgia, se è cattiva anche la liturgia ne soffre: i problemi, oggi, sorgono con le prassi ingenerate da una errata interpretazione della riforma conciliare.
Sul punto non possiamo che dissentire con don Palombella quando afferma, con riguardo al Novus Ordo “In sostanza ciò che canto è la celebrazione stessa, attraverso il canto "celebro"”.
Ma ci siamo chiesti quale servizio di canto è espletato con le antifone proprie che la liturgia tuttora contempla, ovvero con le preghiere cantate prescritte dalla Chiesa?
Quasi ovunque si sono introdotti canti alternativi, ma spesso essi non sono opportuni ed adatti.
La recita delle antifone, considerato che l’Istruzione Musicam sacram manteneva intatta la tradizionale distinzione fra messa solenne, cantata e letta, nei casi – ormai di maggioranza pressoché assoluta - di mancata pronunzia in cantu, perché non deve essere applicata da parte del celebrante anche per il rito nuovo?
Il Graduale post-conciliare è sostanzialmente uguale a quello precedente.
Nel rito antico correttamente inteso, poi, ognuno canta la parte che gli compete: il celebrante, il popolo, la schola, qualche eventuale solista.
Nel rito nuovo dovrebbe avvenire lo stesso, ché anzi il Messale di Paolo VI prevede parti in canto – soprattutto per il celebrante - prima non usate, ma quanti preti sanno cantare ciò che dovrebbero? Quante scholae sono ridotte a piccole particine per far cantare l’assemblea (non il popolo)? O, viceversa, quante volte la liturgia è un palcoscenico in cui gruppi e/o soli di alta o bassa estrazione si producono, con la stessa intenzione rituale che avevano molti musici prima delle riforme di S. Pio X?
La pertinenza o im-pertinenza, in entrambi i riti, passa attraverso il recupero di una sensibilità cattolica per la liturgia, spesso smarrita, anche mediante una ri-considerazione del tempo liturgico quale καιρός ovvero “tempo di Dio” e non solo strettamente quale χρόνος soggetto a quelle dinamiche oggigiorno sempre più (dis)umane.
Allora Palestrina e Perosi potranno ben servire anche il Novus Ordo senza apparire giustapposti: ma già sarebbe sufficiente riportare a casa sua il canto gregoriano …..
Su Mozart, citato da don Palombella assieme ai suddetti, ci sarebbe da aprire un capitolo a parte per questioni storiche, estetiche e liturgiche che è meglio qui tralasciare, perché la compatibilità di molta musica sei-ottocentesca con il rito cattolico, antico o nuovo, è francamente discutibile, e con essa molta produzione del salisburghese.
In sostanza, sia nel rito antico, sia nel nuovo, è la mens del musicista che si deve formare su postulati, oggi quasi ovunque abbandonati, derivanti Magistero della Chiesa, come il Papa ci ricorda costantemente, e deve operare di conseguenza.
Vorremmo chiudere con un auspicio che desideriamo sommessamente esprimere al M° Palombella, aldilà di ogni divergenza su quanto detto innanzi, dato che la Divina Provvidenza lo ha chiamato alla più alta responsabilità cui un musicista cattolico possa ambire: da buon salesiano segua l’esempio di Don Bosco, che era un uomo coltissimo, ma preferiva fare il prete d’azione.
Deponga il philosophari e, sulle orme dei suoi grandi predecessori alla guida della Cappella Sistina, insegni con proprietà, diriga con passione, componga con sapienza musica alta e degna per le Liturgie papali: sarà quello l’esempio più efficace per tutti noi.
Legati al nuovo o all’antico Rito, ma tutti – egualmente – cattolici, apostolici, romani, e fedeli di quel Vicario che egli ha avuto in magnifica sorte di poter servire così da vicino.
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