di Giuseppe Capoccia
Ma come puoi pensare che Dio faccia caso a queste cose!
Figurati se Dio sta a guardare queste cose!
Quante volte abbiamo ascoltato frasi del genere in replica al richiamo ad osservare un precetto, un principio, una regola della nostra Liturgia.
Non entrate in chiesa come si scende in spiaggia...
Non impiegate la chiesa come una sala multiuso…
Fate la genuflessione davanti al Santissimo Sacramento…
Non applaudiamo all’ingresso della salma in chiesa...
Ad ognuna di queste affermazioni si replica, in genere, con espressioni come sopra ricordate: ma vedi tu se Dio sta a preoccuparsi di questi formalismi; chi poi si vuol distinguere come cattolico adulto - di quelli che hanno capito tutto, mentre Roma è indietro - aggiunge “Dio bada al cuore, alla buona intenzione, non certo alle forme.”
Dietro questa frase c'è un credo contrabbandato per fede cattolica, ma che non lo è affatto; l'idea che aleggia è che vi è nella storia un percorso evolutivo verso una religione sempre più spirituale, che progressivamente si depura degli aspetti rituali, delle credenze devozionali, delle osservanze cultuali, per sfociare in pura spiritualità, dove il culto è tutto celebrato nel foro interno di ciascuno o - se proprio deve assumere forme visibili - dev'essere conferma comunitaria di un comune sentire.
Ma questa non è la fede cattolica: noi crediamo in Dio che per salvarci ha prescelto la via dell'incarnazione; in Dio che non ha odiato il mondo da Lui creato, ma addirittura si è fatto carne per portarci la salvezza e condurre la Sua creatura alla gloria; l'Ascensione, oltre la Resurrezione, indica l'elevazione del creato al piano del suo Creatore.
Ma se Dio ha tanto amato il mondo da mandare il Suo unico Figlio perché il mondo avesse la vita, è bestemmia ritenere che il culto dovuto a Dio per essere puro dovrebbe disdegnare la materialità del nostro essere creato che si esprime anche nei gesti, negli atteggiamenti, nelle posture.
La Santa Messa è la rinnovazione sempre attuale del sacrificio della Croce e dell'offerta di Sé che Gesù prefigurò la sera del giovedì santo: è il supremo atto d'amore di Dio che si dona a noi per ricondurci nella patria celeste, dalla quale, per il peccato d'orgoglio, fummo scacciati; la liturgia è la risposta dell'uomo a questa offerta che Dio continuamente rinnova.
Ma quale amante regalerebbe mai all'amato calcinacci raccolti per strada?
Quale amato, ricolmato d'affetto e dedizione dall'amante, gli darebbe in contraccambio un mozzicone di sigaretta accompagnato dalla frase: “per darti prova del mio amore, basta il pensiero!”
Banali paradossi che mostrano come l'uomo ci bada (eccome!) alla materialità delle proprie condotte e se deve manifestare amore, promessa di fedeltà, si adopera per procurare doni preziosi, doni graditi, emblemi di un pegno forte e duraturo.
Perché, dunque, una tale basilare regola di comportamento dovrebbe essere disattesa quando trattiamo del culto dovuto a Dio che si immolato per noi: la liturgia deve risplendere non già perché Dio ne ha bisogno o perché ciò aggiunga qualcosa alla Sua perfettissima pienezza; la liturgia è il culto dovuto a Dio perché noi manifestiamo la nostra risposta alla donazione di Dio, utilizzando tutto noi stessi, le parole, il pensiero, i gesti e le forme; non è Dio che necessita delle cerimonie di culto; siamo noi che attraverso lo zelo del culto proviamo (quasi balbettando) a manifestare a Dio il nostro grazie per la Sua mirabile opera di salvezza compiuta nostro beneficio.
Così diviene facile svelare il pericoloso inganno che si cela dietro la frase “Dio a queste cose non ci bada”; in realtà, sto dicendo: “io non bado o non voglio badare a queste cose, perché in realtà mi sono fabbricato un dio a mia misura.”
L’eccesso di intimismo spacciato come rinascita di una sensibilità religiosa è quanto di più deleterio si possa proporre e fomentare; questo sentimentalismo d’accatto, non ha nulla a che spartire con la Fede della Chiesa fondata da Gesù Cristo. Dilaga la New Age, proliferano le meditazioni d'ispirazione buddista, tanti “recitano”; ed anche qui, al fondo, potremmo vederci opporre la frase: “Ma Dio a questo non ci bada”, in una melliflua equivalenza delle forme.
Ma se a questo non ci bada, a cosa poi baderà Dio; e addirittura: ma che ci sta fare Dio? è un dio che non si importa di nulla, il dio di Aristotele, motore immobile, pensiero di se stesso, immenso Narciso che contempla se stesso.
Se Dio di questo non se ne importa, occorre concludere che bada solo a se stesso.
Ma, dite, che senso ha un Dio che non si cura della Sua creazione; tamquam non esset; che ci sia o non ci sia, nulla cambia per noi; ed infatti è questa la tragica conclusione dell’agnosticismo: l’esistenza o meno di dio nulla cambia nella mia vita, nel mio orizzonte, nelle mie determinazioni.
E’ quindi un germe demoniaco quello che si cela dietro la frase banale e ricorrente: “Ma Dio a questo non ci bada”. Dio bada a noi, eccome; Dio ci ama tanto da aver donato se stesso per la nostra redenzione, scegliendo, tra le infinite possibilità, quella del sacrificio personale, della donazione totale di Sé, “fino alla morte ed alla morte di croce”. Ma se, certo, Dio non ha bisogno di badare a quelle cose… siamo noi che abbiamo disperato bisogno di badare a tutto questo, di cercare i modi più adeguati per adorare, lodare e servire Dio e per tal via salvare l’anima nostra. Il sentimento religioso soggettivo, che proditoriamente si spaccia per coscienza
Dio a queste cose non ci bada!
Ma Dio non è un anziano signore che guarda le nostre condotte con paciosa benevolenza, come un nonno guarda il nipotino disubbidiente. Dio ci bada e ci ha sempre badato da dare il Suo unico Figlio per noi.
E davanti all’infinita misericordia di Dio che a tutto bada e tutto dispone, noi dovremmo rispondere con amore e zelo fervente.
Ecco, sì, dovremmo poter dire “io a Dio ci bado!”
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