di Paolo Portoghesi
La chiesa di Gesù Redentore a Modena merita l'apertura di un dibattito approfondito sia per le indubbie qualità architettoniche dell'opera, sia per l'impostazione liturgica, decisamente innovativa.
Il progetto della chiesa è uno dei progetti-pilota varati dalla Conferenza episcopale italiana, nel 2000, per le nuove chiese di Modena, Foligno e Catanzaro-Squillace, vinti rispettivamente da Mauro Galantino, Massimiliano Fuksas e Alessandro Pizzolato.
Il progetto di Galantino dimostrava chiaramente la volontà di vedere la chiesa come parte di un sistema di spazi funzionali alla vita parrocchiale, rinunciando in partenza alla «riconoscibilità» della chiesa come tale. L'impostazione liturgica, elaborata insieme a monsignor Giuseppe Arosio, come liturgista, non conteneva però quegli elementi di novità che contraddistinguono invece l'opera realizzata che vede la comunità dei fedeli divisa in due schiere contrapposte con al centro un grande vuoto ai cui estremi si collocano l'altare e l'ambone.
In questa collocazione innovativa, che potrebbe rievocare, prescindendo dalla bipolarità, il coro delle chiese monastiche, si realizzano una serie di aspirazioni spesso evidenziate nel dibattito degli ultimi decenni: quella di riconoscere all'ambone pari o maggiore dignità rispetto all'altare, in quanto centro della liturgia della parola, quella di circondare la zona presbiteriale, secondo le istanze del movimento tedesco di innovazione liturgica e quella di dare maggior dinamismo all'evento liturgico.
L'impressione che si prova, assistendo alla santa messa, è però profondamente deludente. Le due schiere contrapposte e il vagare dei celebranti tra due poli mettono in crisi non solo la tradizionale unità della comunità orante ma anche quella che è stata la grande conquista del concilio Vaticano II, l'immagine assembleare del popolo di Dio in cammino. Perché ci si guarda in faccia? Perché non si guarda
insieme verso i luoghi fondamentali della liturgia e l'immagine del Cristo?
Perché i luoghi della liturgia sono contrapposti anziché affiancati? Imprigionati nei banchi, divisi in settori come le coorti di un esercito, i fedeli sono costretti, rimanendo immobili, a cambiare la direzione dello sguardo ora a destra ora a sinistra. La figura del Crocifisso per evitare la banalità (santa banalità viene voglia di dire!) della collocazione centrale è collocata dalla parte dell'altare e in corrispondenza della schiera di sinistra, con l'inevitabile conseguenza di non essere raggiungibile dallo sguardo di molti dei fedeli se non a rischio di torcicollo.
Benedetto XVI, in un passo del suo libro: Introduzione allo spirito della Liturgia (ora compreso nell'XI volume dell'opera omnia, appena uscito), citando Josef A. Jungmann, uno dei padri della costituzione liturgica del concilio Vaticano II, ha scritto a proposito della originaria conformazione della assemblea liturgica: «Essi non si chiudono in cerchio, non si guardano reciprocamente, ma, come popolo di Dio in cammino,sono in partenza verso l'oriente, verso il Cristo che avanza e ci viene incontro ». La forma originaria della preghiera cristiana non può dirci ancora oggi qualcosa o dobbiamo semplicemente cercare la nostra forma, la forma per il nostro tempo? Ovviamente non vi è solo il desiderio di imitare il passato. Ogni età deve ritrovare ed esprimere l'essenziale. Quel che importa è quindi continuare a scoprire quello che è essenziale attraverso i cambiamenti epocali. Sarebbe certamente errato rifiutare in blocco le nuove forme del nostro secolo. Era giusto avvicinare al popolo l'altare, spesso troppo lontano dai fedeli (...) era anche importante tornare a distinguere con chiarezza il luogo della liturgia della parola rispetto alla liturgia eucaristica vera e propria (...) resta invece essenziale il comune orientamento verso est durante la preghiera eucaristica. Qui non si tratta di qualcosa di casuale, ma dell'essenziale».
Anche nelle recenti esortazioni apostoliche postsinodali Sacramentum caritatis e Verbum Domini, Benedetto XVI ha offerto materia di riflessione e indicazioni preziose per l'architettura religiosa che mostrano l'inutilità di sperimentazioni che vadano aldilà di quanto il concilio Vaticano II consigliava affermando la piena compatibilità tra tradizione e progresso, esortando a non introdurre «innovazioni se non lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l'avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente,in qualche maniera, da quelle esistenti » (Sacrosanctum concilium, III, 23).
Nella Sacramentum caritatis si dichiara che: «Una componente importante dell'arte sacra è certamente l'architettura delle chiese nelle quali deve risultare l'unità tra gli elementi propri del presbiterio: altare, crocefisso, tabernacolo, ambone, sede». Nella Verbum Domini viene affrontato anche il problema del rapporto ambone altare: «Una attenzione speciale va data all'ambone, come luogo liturgico da cui viene proclamata la Parola di Dio. Esso deve essere collocato in un posto ben visibile, cui spontaneamente si rivolga l'attenzione dei fedeli durante la liturgia della Parola.
È bene che esso sia fisso, costituito come elemento scultoreo in armonia estetica con l'altare, così da rappresentare, anche visivamente, il senso teologico della duplice mensa della Parola e della Eucarestia».
È da augurarsi che questi puntuali interventi dalla Cattedra di San Pietro facciano capire a liturgisti e architetti che la ri-evangelizzazione passa anche attraverso la chiesa con la «c» minuscola e richiede sì lo sforzo creativo della innovazione, ma anche una attenta considerazione della tradizione che è sempre stata non pura conservazione, ma consegna di una eredità da mettere a frutto.
Che nella vita della chiesa esistano tendenze che sostengono tesi che coinvolgono la prassi liturgica è certamente un segno di vitalità, ma una chiesa parrocchiale dovrebbe essere aperta a tutti e, aldilà delle tendenze, protesa a ritrovare ed esprimere l'essenziale.
Sul piano della architettura la chiesa di Modena si mantiene fedele allo spirito del razionalismo, ma il suo linguaggio, programmaticamente indifferente rispetto al luogo, evoca invece, nella sua ostentata orizzontalità, la pianura olandese che ha visto sorgere, per opera di Mondrian e van Doesburg quel processo di astrazione e di scomposizione volumetrica che informa il movimento De stijl. Galantino in particolare evoca le raffinate composizioni volumetriche di Dudok che mediano tra astrazione e accuratezza esecutiva.
Nella armoniosa volumetria l'insieme dei volumi analizza e prospetta le funzioni degli ambienti che compongono l'organismo parrocchiale. Dove sono però i santi segni che rendono riconoscibile la chiesa? Unico segno, la presenza delle campane — che potrebbero trovarsi anche in un municipio.
Nessuna attenzione alle valenze simboliche dell'ingresso e all'interno il bel crocifisso di Bert van Zelm è posto — come abbiamo visto — in posizione defilata.
Il ruolo iconologico è affidato a due immagini che definirei consumistiche: un «orto degli olivi» sistemato dietro l'altare in un esiguo cortiletto dove i poveri alberelli soffriranno, e le «acque del Giordano» ridotte a un canaletto di acqua stagnante stretto tra due muri che termina nel battistero.
All'interno, la copertura si incurva verso il basso, proprio dove sono collocati il presbiterio e l'assemblea e la luce, perduta ogni carica simbolica, scende alle spalle dei fedeli dove il soffitto si rialza. Nonostante l'aspetto piacevole ed equilibrato, la nitidezza del disegno, lo spazio rimane quello di una bella sala di riunione in cui nulla richiamala trascendenza e il cammino del popolo peregrinante verso la salvezza.
La chiesa di Modena è la dimostrazione lampante del fatto che la qualità estetica dell'architettura non basta per fare di uno spazio una vera chiesa, un luogo in cui i fedeli siano aiutati a sentirsi pietre viventi di un tempio di cui Cristo è la pietra angolare.
da L'Osservatore Romano del 20 gennaio 2011