Sante Messe in rito antico in Puglia

martedì 25 gennaio 2011

La liturgia quale luogo educativo e rivelativo



di Vito Abbruzzi

Una cosa che immediatamente colpisce leggendo i nuovi “Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020” (dati il 4 ottobre 2010 col titolo Educare alla vita buona del Vangelo) in materia liturgica è costatare la ripresa e il rilancio della “urgenza di esplicitare la rilevanza della liturgia quale luogo educativo e rivelativo”, affermata al n. 49 di Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia: documento col quale la CEI dettava i precedenti “Orientamenti pastorali” per il decennio 2000-2010.
Al n. 39 dell’Educare alla vita buona del Vangelo leggiamo che “la liturgia è scuola permanente di formazione attorno al Signore risorto, ‘luogo educativo e rivelativo’ in cui la fede prende forma e viene trasmessa”; che “tra le numerose azioni svolte dalla parrocchia, nessuna è tanto vitale o formativa della comunità quanto la celebrazione domenicale del giorno del Signore e della sua Eucaristia”.
È proprio sulla base di questi ultimi orientamenti della CEI, che la “Ecclesia Mater” può fare scuola, ribadendo la peculiarità della Liturgia come vero luogo educativo e rivelativo in cui la fede prende forma e viene trasmessa. E ciò non senza una critica doverosa e costruttiva alla luce di quanto leggiamo al n. 6 della “Lettera Apostolica Spiritus et Sponsa del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II nel XL anniversario della Costituzione Sacrosanctum Concilium sulla Sacra Liturgia” del 4 dicembre 2003: « A distanza di quarant’anni, è opportuno verificare il cammino compiuto. Già in altre occasioni ho suggerito una sorta di esame di coscienza a proposito della ricezione del Concilio Vaticano II. Tale esame non può non riguardare anche la vita liturgico-sacramentale. “È vissuta la Liturgia come ‘fonte e culmine’ della vita ecclesiale, secondo l’insegnamento della Sacrosanctum Concilium?”. La riscoperta del valore della Parola di Dio, che la riforma liturgica ha operato, ha trovato un riscontro positivo all’interno delle nostre celebrazioni? Fino a che punto la Liturgia è entrata nel concreto vissuto dei fedeli e scandisce il ritmo delle singole comunità? È compresa come via di santità, forza interiore del dinamismo apostolico e della missionarietà ecclesiale? ».
Orbene, facendo riferimento anche all’editoriale di Impegno di dicembre 2010, firmato da don Peppino Cito e don Gaetano Luca (rispettivamente direttori degli uffici catechistico e liturgico della diocesi di Conversano-Monopoli) con l’azzeccato titolo “Perché non educhiamo celebrando?”, ritengo che proprio questa serie di domande rappresentino, invero, un “interrogativo di provocazione; provocazione a riflettere serenamente, ma pure molto seriamente sul perché del “rammarico” espresso dai due stimati preti quando affermano: « Peccato che non approfittiamo abbastanza del tempo celebrativo per fare educazione del popolo di Dio! ».
Un loro confratello nel sacerdozio, in tempi ancora non sospetti, così scriveva: « Oggi, anche a partire da delusioni sempre più frequenti e dichiarate circa certi esiti della riforma liturgica, qualcuno sta accorgendosi che nella foga e nell’entusiasmo della purificazione post-conciliare forse abbiamo buttato via il bambino con l’acqua sporca. La liturgia, infatti, è da sempre una sintesi non scontata di parole e di segni. Venendo noi da una cultura che privilegia la parola, nell’illuministica convinzione che essa sia il migliore (a volte sembra di capire l’unico) strumento di comunicazione, si è arrivati a pensare che l’ostacolo maggiore alla comprensione del linguaggio fosse il latino. Così, con la traduzione della liturgia in lingua volgare, si è forse stati indotti a ritenere che il problema della partecipazione attiva dei fedeli era, se non del tutto, almeno in gran parte, risolto. Ma è proprio così? Quando la liturgia era in latino, la gente vi partecipava fruttuosamente perché il muro costituito dalla incomprensibilità della lingua aveva di fatto stimolato la creazione di segni che fossero comprensibili di per sé, che trasmettessero un messaggio senza che ci fosse bisogno di passare per la mediazione della parola; segni che non avevano certo la finezza e l’articolazione delle spiegazioni verbali, ma che non erano meno importanti, in quanto erano dei metamessaggi che trasmettevano in modo globale e visibile un’idea e suggerivano la risposta emotiva corrispondente. Oggi, invece, si ha fortemente l’impressione che una delle ricadute non felici della riforma liturgica sia stata l’alluvione di parole e il prosciugamento dei segni » (D. Pezzini, Il tempo redento. Incursioni nell’anno liturgico, ed. Àncora, Milano 2002, pp. 31-32).
È in quest’ottica che possiamo, adunque, interpretare la domanda che molto pertinentemente si fanno i due summenzionati sacerdoti quando nel loro editoriale sull’“educare celebrando” scrivono: « Sarebbe poi così strano che, proprio nel decennio dedicato all’educare, pensiamo ad abilitarci, preti e fedeli laici, nell’arte del celebrare? ». No, non è strano affatto, ma dobbiamo prima di tutto e sopra a tutto educare le nostre menti e, quel che più conta, le nostre coscienze a considerare che “la liturgia fa parte della tradizione e non si comprende fuori di essa: è tra le fonti della rivelazione descritte dalla Dei Verbum, la costituzione conciliare sulla divina rivelazione. Il culto divino evoca la sovranità del Signore su tutto, la sua maestà infinita, la sua grandezza, il suo mistero, il suo diritto all’adorazione” (N. Bux, Come andare a messa e non perdere la fede, ed. Piemme, Milano 2010, p. 52).
Di qui la necessità di riconsiderare e rivalutare all’interno delle nostre liturgie l’importanza del “religioso ascolto” – di cui parla proprio la Dei Verbum al n. 1 – attraverso l’osservanza del “sacro silenzio”, raccomandata nella Sacrosanctum Concilium al n. 30 e richiamata nella Spiritus et Sponsa al n. 13 quale “aspetto che occorre coltivare con maggiore attenzione all’interno delle nostre comunità”. L’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice a questo proposito precisa che “il silenzio liturgico è un silenzio sacro, sacrum silentium”; esso è “parte integrante tanto dell’ars celebrandi dei ministri, quanto della actuosa participatio dei fedeli”. Quest’ultima affermazione mette finalmente a tacere i troppi pseudo liturgisti – compresi i nostrani “animatori liturgici” – i quali, mal interpretando quell’“actuosa participatio”, hanno diseducato i fedeli a “celebrare degnamente i santi misteri” (come si dice all’inizio della Messa).
Ma cosa significa “celebrare degnamente i santi misteri”? Ce lo dicono i due benemeriti abati benedettini, portavoci e diffusori in Italia di quel felice “rinnovamento liturgico” promosso a Solesmes, agli inizi del secolo scorso, da dom Guèranger: il beato Ildefonso Schuster ed Emanuele Caronti. Il primo, parlando di “funzioni celebrate con ordine, con maestà, con devota pompa” (Bux, Come andare a messa, cit., p. 70); il secondo, mettendo in guardia dagli arbìtri nelle celebrazioni liturgiche: « L’azione liturgica sia celebrata con solennità, con ordine, e con decoro, ma si eviti nel modo più assoluto qualsiasi novità – e, io aggiungo, trasgressione –, attenendosi fedelmente ai decreti della Chiesa » (ivi, p. 46).
È quanto mai opportuno rimarcare il concetto che “senza tradizione sarebbe impossibile sia la trasgressione sia l’innovazione” (per usare un’espressione attribuita a Salvatore Natòli, un filosofo contemporaneo di ispirazione laica, citata in L. Solinas, Tutti i colori della vita, ed. SEI, Torino 2009, p. 278). Ma su questo punto avrò modo di tornare un altro momento, in maniera più approfondita.
Ciò che adesso ci preme sottolineare è che lo stesso “Benedetto XVI non è stato a guardare: bisogna ritornare alla tradizione per innovare; di qui l’esigenza di una rinnovata catechesi della celebrazione eucaristica” (Bux, Come andare a messa, cit., p. 51), grazie alla quale la Chiesa può in pienezza “proporre la genuina dottrina sulla divina rivelazione e la sua trasmissione, affinché per l’annunzio della salvezza il mondo intero ascoltando creda, credendo speri, sperando ami” (Dei Verbum, 1).