lunedì 28 febbraio 2011
domenica 27 febbraio 2011
lunedì 21 febbraio 2011
Le chiese moderne che sembrano di un dio ignoto
di Ebe Gianotti
Che le chiese moderne siano brutte non è un luogo comune qualunquista. Il giudizio unisce per una volta semplici fedeli, critici d’arte, intellettuali laici fino ad arrivare a monsignor Gianfranco Ravasi, in pratica il ministro della cultura e dei beni culturali del Vaticano, che su questo argomento ha voluto citare padre Turoldo, «oggi le chiese sono come un garage dove Dio viene parcheggiato e i fedeli sono tutti allineati davanti a lui».
Eppure parecchie delle chiese nuove sono affidate agli architetti contemporanei più quotati, e il problema non può neanche risiedere nella convinzione religiosa o meno dei progettisti se uno degli ultimi esempi negativi è la chiesa di S. Paolo a Foligno, opera di un Massimiliano Fuksas neoconvertito per merito di Benedetto XVI, come ha dichiarato in un’intervista. In questo caso specifico, ci troviamo di fronte a un oggetto che in nessun modo rivela qualche parentela con la lunga tradizione delle chiese cristiane. Un enorme monolite in cemento, costituito da due parallelepipedi inseriti uno nell’altro e collegati da elementi a forma di tronco di piramide, muto, al contrario delle vere architetture che cantano, come diceva Enzo Paci.
Proprio questi elementi - il tipo di composizione astratta, la semplicità frutto della trasposizione schematica di moduli geometrici e non del difficile processo che, nell’apparente semplicità formale, condensa complessità e articolazione - rivelano la loro discendenza dagli indifferenziati templi di una metafisica come era pensata dagli architetti rivoluzionari illuministi, nella Francia del 1700.
Si comincia con Blondel e la facciata di chiesa conventuale simile a un monumento funebre, in cui è un obelisco a sostenere la croce, si prosegue con il suo allievo più celebre, Boullèe i cui cenotafi sono il riferimento obbligato per ogni architetto che si accinga a costruire nuove chiese e i cui disegni di chiese metropolitane (nessuna dedica ai santi, alla Madonna, a Cristo, sono scomparsi tutti) paiono il modello del campidoglio di Washington o dell’Opèra di Parigi. Si arriva poi a Lequeu che conclude la parabola, dopo templi del Silenzio e di Iside o santuari persiani, con il Tempio al Dio ignoto.
E a un dio ignoto sembrano di fatto appartenere le chiese moderne. Architetture algide, fredde e spoglie quelle proposte dagli architetti francesi, così come le contemporanee, nate dal gesto del progettista, fortemente demiurgico allora e un po’ più glamour oggi, che interrompe il legame storico con il popolo che sta dietro alla costruzione di ogni chiesa.
Gli ambienti nudi, la scarsa varietà dei materiali impiegati, l’intervento minimo dell’iconografia e, come conseguenza, l’assenza quasi totale di artisti e artigiani qualificati, ci ricordano come, al contrario, il legame del popolo nell’edificazione della Casa di Dio per secoli si fosse manifestato in modo molto concreto. Nel lavoro di artigiani, muratori, scalpellini, decoratori, stuccatori che si davano il cambio generazione dopo generazione in quei cantieri infiniti che erano le cattedrali e nelle quali si racchiudeva il meglio della capacità di “fare” tipica dell’uomo.
Quella particolare modalità che Pavel A. Florenskij definiva con queste parole: una costituzione di spirito del tutto particolare: abitudini ed esperienza ricevute in eredità e formate nel corso dei secoli… Probabilmente il tipo più sano di processo creativo, che scorre sempre entro argini ben precisi, senza sofferenze, senza ansie, senza romanticismo, senza lacrime e senza estasi, con una tranquilla sicurezza nella propria mano, che sa già da sé cosa deve fare…questa maestria è lontanissima dallo spirito del nostro tempo, dove tutto è basato sulla sincerità lancinante e sullo sconcerto, oppure sul desiderio di produrre qualcosa di diverso da ciò che è già stato fatto da altri, di vedere, stupire, colpire, e sul terrore di poter andare a finire casualmente su una strada già percorsa da qualche altro.
Oggi nessuno entra in una chiesa moderna per ammirare un affresco, un altare, un bassorilievo, per vivere la bellezza dello spazio interno e della luce che filtra attraverso le vetrate, eppure l’esperienza del bello è una di quelle che con più forza avvicina l’uomo a Dio, come la Chiesa ha sempre saputo.
Ma a scorrere le pagine del catalogo della mostra internazionale di Architettura per lo spazio sacro, tenuta a Bologna nel 1996 con il patrocinio della Cei, viene il dubbio che forse non lo sappia più e che le colpe non siano da addebitare solo agli architetti per i loro progetti, ma anche alla committenza religiosa che li approva.
È difficile dalle piante capire che si tratta di edifici per il culto, scordiamoci navate, transetti, absidi, cappelle laterali, cripte, prevale la pianta centrale, modificata e deformata in tutte le possibili accezioni:ellissi, prismi, triangoli, cerchi, quadrati.
E quando il modello è la pianta rettangolare, non è assimilabile a nient’altro altro che a un’aula (di tribunale, di mensa aziendale, per conferenze, per rappresentazioni teatrali?). Quasi assenti i campanili, la verticalità è modesta o nulla e se proprio la si vuole sottolineare spesso non si trova altra soluzione che la forma stilizzata del pino natalizio, con falde inclinate fino a terra, alla maniera di un’ipotetica baita che non esiste neppure in montagna.
Anche le recenti pubblicazioni degli esiti dei concorsi promossi dalla Cei per le nuove chiese italiane, parlo del 2010, non propongono esempi incoraggianti.
Eppure ogni progettista era supportato da un sacerdote liturgista, proprio per evitare ridicole invenzioni soggettive da parte dell’architetto. E a leggere le relazioni di presentazione dei progetti vincitori, o comunque dei secondi e terzi classificati, prima ancora di esaminare le tavole e i rendering, spesso non si può che essere d’accordo con le intenzioni. Ma è come se poi alle parole non corrispondessero le azioni e si producesse uno scollamento insanabile tra i due termini.
Per cui ci ritroviamo di nuovo con chiese che sembrano crematori (S. Giorgio Martire, Dresano), chiese afasiche, dove l’esposizione del crocifisso è l’unica concessione all’iconografia cristiana. Scomparsa ogni traccia di racconto biblico, vuoi pittorico, vuoi scultoreo, rimangono spazi minimalisti e mortiferi, oppure forme “organiche”, che siccome siamo vicini al mare (S. Giovanni Battista, Porto Recanati) si ispirano alle onde, oppure addirittura chiese attente a ridurre al minimo il fabbisogno energetico in modo da poter classificare l’edificio in Classe energetica A (!).
O ancora progetti di chiese “accartocciate” (Madonna del Carmelo, Racalmuto), ispirate ai lavori di Frank Gehry, che se arriva un terremoto a distruggerle nessuno se ne accorge.
Insomma, anche con il liturgista che fiata sul collo, sembra che non si sappia dove sbattere la testa.
(da Rinascimento Sacro)
martedì 15 febbraio 2011
Riflessioni sulla transustanziazione
di P. Giovanni Cavalcoli, OP
Gli abusi liturgici, soprattutto nella celebrazione della S. Messa, oggi spesso lamentati da molti cattolici zelanti fino a giungere allo stesso Sommo Pontefice, sono di varia entità e presentano molti aspetti: si va da atteggiamenti arbitrari che toccano piccoli particolari o norme secondarie del rito liturgico sino ad interventi che alterano, sopprimono o deformano parti più importanti per non dire essenziali della Messa, mettendo a rischio o addirittura invalidando la stessa celebrazione eucaristica.
Per cui, in tal caso, resta in qualche modo una certa configurazione esterna della Messa – gesti, vesti sacre, luogo, altare, oggetti, parole, ministri – ma la Messa viene come svuotata dall’interno trasformandosi in una cerimonia ingannevole o in un atto superstizioso.
La celebrazione della Messa è un atto di culto divino che viene compiuto, come è noto, innanzitutto dal sacerdote col concorso dei fedeli, sulla base di una convinzione di fede relativa a quanto Cristo stesso istituì nell’Ultima Cena in preparazione al Sacrificio della Croce che egli avrebbe compiuto il giorno seguente.
Nella Messa il celebrante compie in persona di Cristo sommo Sacerdote della Nuova Alleanza, ciò che Cristo stesso compì in quella circostanza obbedendo al suo comando: “Fate questo in memoria di me”.
La Chiesa, nel corso dei secoli, oltre ad eseguire fedelmente il comando del Signore con la celebrazione della Messa, in forme liturgiche che, senza tradire l’essenziale, sono andate soggette ad una certa evoluzione e ad una pluralità di diversi riti, è venuta poi a spiegare ai fedeli che cosa avviene nel momento centrale della Messa, ossia nel momento in cui il sacerdote pronuncia le parole che Cristo stesso pronunciò nella suddetta circostanza: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”.
La Chiesa ha fissato come dogma o verità di fede quanto avviene in questo momento solenne: la cosiddetta “transustanziazione”, ossia la conversione di tutta la sostanza del pane e del vino nel corpo e nel sangue del Signore, rimanendo gli accidenti o “specie” del pane e del vino. Tuttavia, dopo le parole della consacrazione delle offerte (pane e vino), il pane non è più pane, ma corpo del Signore, il vino non è più vino ma sangue del Signore.
Da notare la differenza tra la transustanziazione e la trasformazione sostanziale. In quest’ultima cambia la forma e resta la materia. Per esempio la materia di un legno che si brucia, perde la forma del legno ed acquista la forma della cenere, ma rimane la stessa medesima materia. Invece nella transustanziazione c’è la conversione non soltanto della forma, ma anche della materia.
La parola “questo” (è il mio corpo) (lat. hoc, gr. tuto) non vuol dire “questo pane”, ma è un nome neutro, che rappresenta il passaggio dal pane al corpo: appunto la transustanziazione. Se infatti si intendesse “questo pane”, si avrebbe l’assurdità che il pane fosse nel contempo il corpo, il che non ha senso.
Si ha allora quella che la Chiesa chiama “presenza reale e sostanziale” di Cristo, corpo, sangue, anima e divinità, nel mistero eucaristico, ossia sotto le specie del pane e del vino. Gesù, come dice S. Tommaso d’Aquino in un suo splendido e famoso inno, è come “velato” sotto le specie eucaristiche. L’anima cristiana, per riprendere le parole dell’Aquinate, nell’Ostia consacrata “adora devotamente la divinità e la umanità che si nascondono sotto queste figure”, s’intende le specie eucaristiche.
Cristo glorioso certamente ora è in cielo; eppure, a modo di sostanza, è presente in tutti gli altari del mondo al momento della consacrazione per essere offerto dal sacerdote al Padre come vittima di espiazione per i nostri peccati e in tutti i tabernacoli del mondo offrendosi alla nostra adorazione e contemplazione, Destinatario e Termine dei nostri sguardi, delle nostre preghiere, dei nostri affetti, delle nostre effusioni d’amore e di somma confidenza.
Possiamo dunque dire che Gesù eucaristico è sull’altare, è nel tabernacolo. Ma dobbiamo ricordarci che si tratta di questa presenza, sì reale, ma mistica ed ineffabile, che non comporta luogo se non in riferimento alle specie eucaristiche e non certo alla sostanza del corpo e del sangue del Signore, la quale sostanza di per sé non è nel luogo se non mediante gli accidenti eucaristici (dal latino accidentes: ciò che cade sotto i nostri occhi, cioè le specie del pane e del vino). Ma gli accidenti del corpo e del sangue di Cristo sono solo in cielo. E quindi sotto questo punto di vista possiamo dire che Cristo non è presente nell’eucaristia così come Egli è ora in cielo. Infatti sempre l’Aquinate nel suo inno esprime il desiderio di vedere un giorno in cielo apertamente quel Gesù che ora in terra egli contempla nascosto sotto i veli eucaristici e presente nel tabernacolo.
Quindi non vale l'osservazione di alcuni che Dio è presente dovunque e che quindi non ha importanza la presenza nel tabernacolo. Non è così: nel tabernacolo c'è una reale presenza, nei termini che ho detto, del Dio incarnato e sacramentato, che è più importante e significativa per noi che non la presenza metafisica, detta ubiquità, della natura divina in ogni luogo, presenza per percepire la quale basta la ragione, mentre la presenza eucaristica è conoscibile solo nella luce della fede. Senza contare la presenza ancora più importante di Gesù eucaristico nel nostro cuore dopo la S. Comunione.
Secondo una dottrina teologica certa, dopo la consacrazione gli accidenti eucaristici non aderiscono alla sostanza del corpo e del sangue del Signore, i cui accidenti sono solo quelli che Cristo possiede in cielo, ma sono miracolosamente sostenuti dall'onnipotenza divina, essendo venuta meno la sostanza del pane e del vino.
Questa separazione degli accidenti dalla loro sostanza è qualcosa che oltrepassa i limiti della nostra ragione e della nostra esperienza è ci è nota solo dalla fede. Dopo la consacrazione i nostri occhi continuano a vedere il colore del pane, il gusto continua a sentire il sapore del pane, il tatto avverte la tangibilità del pane, per cui saremmo portati a credere che tali accidenti nascondano ed indichino ancora la sostanza del pane; e invece la fede ci dice che dietro a quegli accidenti ben reali si cela la sostanza ben reale del corpo e del sangue di Cristo.
E su questo punto purtroppo nella storia della teologia molti sono stati gli errori. Ne accenno solo a qualcuno, perché il rischio di cadervi anche oggi non è affatto aleatorio. Famosa al riguardo è stata la concezione di Lutero in polemica con quella di Ulrico Zwingli, il famoso riformatore svizzero. Lutero credeva nella presenza reale, ma la intendeva non come transustanziazione, ossia come presenza sostanziale sotto gli accidenti del pane, ma insieme col pane. Ossia per Lutero, anche dopo le parole della consacrazione, il pane resta pane, ma Cristo è presente nel pane o, come alcuni ancor oggi dicono, “sotto il segno del pane”. Per questo la concezione protestante non comporta la transustanziazione, ma la cosiddetta “impanazione”. Inoltre Lutero concepiva l'eucaristia solo in funzione alla comunione, ossia come nutrimento, ma rifiutava l'adorazione, per cui non esiste nella tradizione protestante l'uso di conservare il SS.mo Sacramento nel tabernacolo o di presentarlo nell'ostensorio per l'adorazione. Quanto a Zwingli, egli negava qualunque presenza reale sostenendo che le parole della consacrazione “questo è il mio corpo”, significano “questo significa o simboleggia il mio corpo”. Per questo Zwingli parlava di una presenza puramente spirituale.
Analoga concezione ai nostri giorni è stata quella di Edward Schillebeeckx, il quale ha proposto di sostituire la transustanziazione con la “transignificazione” o “transfinalizzazione” sostenendo che pane e vino restano tali, solo che cambia il loro significato o finalità: mentre prima essi facevano riferimento semplicemente al nutrimento fisico, dopo diventano alimento spirituale dell'anima.
Queste concezioni hanno una parte di verità, ma in quanto negano la transustanziazione, presentano un carattere ereticale, condannato dalla Chiesa. Ed oggi purtroppo non sono rari i segni di questa dimenticanza circa la verità della SS. Eucaristia. Essi non sono dati solo dalla diffusione della suddetta eresia, ma – conseguenza logica – da una certa pratica liturgica che per esempio tende a dimenticare l'adorazione eucaristica, il ringraziamento dopo la S. Messa o dopo la Comunione, mentre non è raro vedere ministri della Comunione che la distribuiscono come un barista porta un caffè a un cliente, mentre invece quanto sarebbe opportuno che il ministro, prima di offrire l'Ostia santa, la presentasse almeno per un istante alla adorazione del fedele! E così pure quanta poca devozione si esprime nel sacerdote che fa l'elevazione con un movimento a scatto – su è giù – come se si trattasse di tirare la corda di una campana, anziché, come dovrebbe, fermarsi almeno un attimo a presentare il SS.mo Sacramento all'adorazione sua e dei fedeli!
Infatti il SS. Sacramento non è solo cibo, ma è anche Ostia offerta al Padre per la remissione dei peccati e presenza stessa della SS. Trinità sotto l'umile aspetto del pane e del vino, per cui il fedele nel contemplare questo augustissimo Mistero, dovrebbe poter pregustare la gioia della visione beatifica.
Per concludere voglio fare un'ultima osservazione. E' noto come questa diffusione dell'eresia circa il sacramento dell'Eucaristia (e quindi circa la Messa e il potere del sacerdote) si è verificata dopo il Concilio Vaticano II, mentre prima non esisteva questo problema. Sia ben chiaro che in ciò il Concilio non c'entra per nulla, ma siamo davanti a una delle tante sfacciate falsificazioni del rinnovamento conciliare, che hanno finito per gettare in tante anime buone, ma non sufficientemente illuminate il discredito sullo stesso Concilio. Dovrebbe esser evidente per tutti che per rimediare a questa eresia non c'è bisogno di tornare alla Messa di S. Pio V - per quanto rispettabile essa sia - , ma è sufficiente celebrare dignitosamente e con vera fede la Messa di Paolo VI. Infatti, si tratta semplicemente di due modalità diverse di celebrare l'unica e medesima Santa Messa della Chiesa Cattolica.
La nostra speranza e il nostro voto è che i nostri Pastori, con spirituale discernimento, evangelica parresia e paterna energia, assistiti dallo Spirito di sapienza e di fortezza, non si limitino a generiche condanne degli abusi cerimoniali o ritualistici, ma vadano al fondo del male per estirparlo alla radice, correggendo e disciplinando quei teologi e quei liturgisti che in questo campo importantissimo dell'Eucaristia, della Messa (si tratti del rito antico o del rito nuovo) e del Sacerdozio, si scostano dal vero insegnamento di Nostro Signore Gesù Cristo.
venerdì 11 febbraio 2011
Intervista al card. Mauro Piacenza, Prefetto della Congregazione per il Clero
di Armin Schwibach
Roma (kath.net/as) Il sacerdozio non deve essere “normalizzato” secondo le rivendicazioni di una “demitizzazione”, ma deve essere riscoperto nella sua origine divina. Così afferma il Prefetto della Congregazione per il Clero, S. Em. R. Mauro Cardinale Piacenza, sottolineando al contempo l’importanza di una liturgia “cristocentrica” per una nuova evangelizzazione dei paesi d’occidente. Dopo la notte del calo delle vocazioni sacerdotali, il cardinale vede l’alba di un nuovo tempo, che però necessita principalmente della preghiera – e in particolare dell’adorazione eucaristica – per giungere alla piena luce del giorno. Nell’intervista esclusiva, generosamente concessa a Kath.net, il Cardinale Piacenza si occupa del sacerdote come “segno di contraddizione” e mette in risalto il particolare mandato dell’arte sacra come via di preghiera verso Dio. Kath.net: Con il Suo libro “Il sigillo - Cristo fonte dell'identità del prete”, pubblicato nel 2010, Lei ha richiamato alla memoria l’identità del sacerdozio, dichiarando che qualunque discorso su una “nuova evangelizzazione”, traguardo principale della Chiesa, resta vano se non si fonda sul rinnovamento spirituale del sacerdote. Concretamente, come potrebbe configurarsi il rinnovamento del sacerdozio? Che cosa significa che il sacerdote è “segno di contraddizione” nella società odierna, come Lei disse una volta? Da cosa deve partire la Chiesa e, in particolare, come dovrebbero intervenire i responsabili dei seminari? Cardinale Piacenza: Chi rinnova continuamente la Chiesa e, in essa, il Sacerdozio, è lo Spirito Santo! Al di là di una visione chiaramente pneumatica e, perciò, soprannaturale, è impossibile anche solo pensare ad un rinnovamento. Ritengo che sia proprio questa una delle principali vie da percorrere: quella del recupero chiaro della dimensione verticale, spirituale del Ministero. Nei decenni passati, troppi “riduzionismi”, animati dalla cosiddetta teologia della demitizzazione, hanno avuto come esito quello di trasformare il Sacerdozio semplicemente in un “super-ministero” di animazione e coordinamento ecclesiale. Il Sacerdote è anche colui che anima la vita pastorale di una comunità, ma esercita tale Ministero in forza di una Vocazione soprannaturale e della configurazione a Cristo, determinata dal Sacramento dell’Ordine. Prima di ogni “servizio ministeriale”, egli rappresenta Gesù Buon Pastore nel cuore della Chiesa e, concretamente, nella comunità alla quale è mandato. Conseguenza di ciò è che il rinnovamento dovrà necessariamente passare attraverso il primato della preghiera, del rapporto intimo e prolungato con Cristo Risorto, Presente spiritualmente nelle sacre Scritture, realmente nell’Eucaristia, e con il Quale il Sacerdote è perennemente in relazione nel concreto esercizio di ogni gesto ministeriale. Primato della preghiera significa anche primato della fede: la fede schietta e sincera dei santi, quella capace di destrutturare, proprio per la sua semplicità, ogni umano calcolo o ragionamento. Un sacerdote così, in un contesto culturale fondato sull’efficientismo e sull’attivismo, diviene necessariamente segno di contraddizione; come il Signore Gesù è stato ed è ancora oggi “segno di contraddizione”, così, a Sua immagine, ogni sacerdote è chiamato ad esserlo, proprio in forza dell’appartenenza a Cristo e alla Chiesa, e della “novità perenne” che la apostolica vivendi forma è per il mondo. Nell’attuale contesto secolarizzato, segno di contraddizione sono i sacerdoti santi, fedeli, dediti al proprio Ministero, perché dediti a Dio e capaci, perciò, di condurre le anime ad un autentico incontro con il Signore. Solo chi è tutto di Dio può essere tutto della gente. A tutto ciò devono essenzialmente essere formate le nuove generazioni di sacerdoti, evitando accuratamente di cadere nella tentazione di chi volesse “normalizzare” il Sacerdozio, pensando, in tal modo, di renderlo più accettabile ai giovani e agli uomini del nostro tempo. Ciò, al contrario, porterebbe alla “desertificazione” delle vocazioni. Il futuro del Sacerdozio, che è garantito, a livello soprannaturale, dalla fedeltà di Dio alla Sua Chiesa, sta anche, per quanto ci riguarda, nella motivata promozione della sua reale natura, che è – le Scritture lo testimoniano e la grande Tradizione ecclesiale e magisteriale lo conferma – di origine squisitamente divina. Kath.net: Il Santo Padre Benedetto XVI nel suo libro-intervista con Peter Seewald, “Luce del mondo” dice: «E’ immaginabile che il diavolo non riuscisse a sopportare l’anno sacerdotale e allora ci ha scaraventato in faccia il sudiciume. Ha voluto mostrare al mondo quanta sporcizia c’è anche proprio tra i sacerdoti». Lei ritiene sia un caso che proprio durante l’anno sacerdotale in non pochi paesi del mondo sia scoppiato lo scandalo degli abusi sessuali? E alla fine il diavolo ha perso davvero? Cardinale Piacenza: Lei sa bene che il caso non esiste! Esistono invece le coincidenze e, più spesso, le strategie umane, che si espongono alle strumentalizzazioni del maligno. È doveroso ricordare, innanzitutto, che il demonio non ha vinto durante l’Anno Sacerdotale, quando, come affermato dal Santo Padre: «Ci ha scaraventato in faccia il sudiciume», ma piuttosto quando alcuni Ministri di Dio, chiamati per Vocazione ad annunciare il Vangelo e ad amministrare i Sacramenti, abusando del proprio compito, hanno ferito in modo mortale giovani vite innocenti. È in questa perversione assoluta la vera vittoria del maligno, ed il fatto che tali terribili ed inqualificabili comportamenti siano emersi durante l’Anno Sacerdotale, non ha diminuito la verità del Sacerdozio, ma, permettendo la doverosa penitenza e riparazione per quanto accaduto, ha favorito una più profonda consapevolezza di quanto lo straordinario Tesoro, donato da Cristo alla Sua Chiesa, sia contenuto in vasi di creta. Tale situazione, che è drammaticamente inquietante, potrebbe divenire addirittura disperante, se non fossimo certi che il diavolo, il quale vince purtroppo molte battaglie, ha già perso definitivamente la sua guerra, poiché è stato sconfitto dalla Morte redentrice di Nostro Signore Gesù Cristo e dalla sua gloriosa risurrezione. Spesso, in particolare in paesi di lingua tedesca, molti sacerdoti sono esposti a pressioni da parte di laici e consigli pastorali. Quasi si ha la sensazione che certi laici vogliano farsi largo nello spazio dell’altare per assumere funzioni ministeriali. In non poche diocesi di lingua tedesca, sacerdoti che vogliono essere fedeli alla chiesa, si ritrovano spesso soli. Talvolta neppure i vescovi diocesani offrono ai loro sacerdoti il necessario sostegno. Come è visto questo problema a Roma? Come dovrebbero e potrebbero difendersi i sacerdoti in una tale situazione? Cardinale Piacenza: Anzitutto intendo affermare con assoluta chiarezza e motivato convincimento che la collaborazione tra sacerdoti e laici è tanto necessaria, quanto sacramentalmente fondata. È necessario viverla all’interno di alcuni parametri irrinunciabili sia dal punto di vista teologico, sia sotto il profilo pastorale. È doveroso ricordare che al ministero della testimonianza sono chiamati tutti i battezzati, e non semplicemente coloro che hanno ricevuto un qualche ministero ecclesiale. I fedeli laici devono essere educati a tale senso permanente dall’apostolato, da vivere soprattutto nel mondo, nelle loro concrete circostanze esistenziali, familiari, affettive, lavorative, professionali, educative e pubbliche. I laici davvero “impegnati” sono quelli che si impegnano a testimoniare Cristo nel mondo, non quelli che suppliscono alla eventuale carenza di Clero, rivendicando fette di visibilità all’interno delle comunità. Partendo da questa chiarezza sulla Vocazione universale dei battezzati, nulla esclude che essi possano efficacemente collaborare al Ministero dei Sacerdoti, ricordando sempre, tuttavia, che tra il sacerdozio battesimale e quello ministeriale, esiste, come insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica, riprendendo il Concilio Vaticano II, una differenza essenziale e non solo di grado. (cfr. CCC, n. 1547). Anche in questo caso, si tratta di riscoprire la fede nella Chiesa, che non è un’organizzazione umana, né tantomeno può essere gestita con criteri “aziendali”, i quali obbediscono a leggi umane, quali la presunta o reale competenza o efficienza e la necessaria spartizione del potere, e che sono quanto di più distante ci possa essere dall’autentico servizio ecclesiale. Ritengo che proprio questa “riduzione aziendale” del modo di pensare la Chiesa sia una delle cause sia della cosiddetta crisi del numero delle risposte alle Vocazione, sia delle polemiche che, a ondate successive, talvolta forse anche orchestrate, si scatenano contro il celibato sacerdotale. Fa tutto parte di quella miope “strategia di normalizzazione” che mira, ultimamente, ad espellere Dio dal mondo, cancellandone quelli che, oggettivamente, sono i segni che, in modo più efficace, rimandano a Lui; primo tra tutti la vita di coloro che, nella fedeltà e nella letizia, scelgono di vivere nella verginità del cuore e nel celibato per il Regno dei Cieli, testimoniando in tal modo che Dio esiste, è Presente e che per Lui è possibile vivere! Kath.net: Come si spiega la “crisi delle vocazioni” nelle odierne società occidentali? Cardinale Piacenza: La cosiddetta crisi vocazionale, dalla quale, in realtà, si sta lentamente uscendo, è legata, fondamentalmente, alla crisi della fede in Occidente. Laddove c’è si deve ammettere che, in realtà, la crisi delle vocazioni è crisi di fede. Dio continua a chiamare ma per rispondere occorre sentire e per sentire occorre il clima adatto e non il baccano assoluto. Negli stessi ambienti è in crisi la santificazione della festa, è in crisi la confessione, è in crisi il matrimonio etc… La secolarizzazione e la conseguente perdita del senso del sacro, della fede e della sua pratica, hanno determinato e determinano un’importante diminuzione del numero dei candidati al Sacerdozio. A queste ragioni squisitamente teologiche ed ecclesiali, se ne aggiungono alcune di carattere sociologico: prima fra tutte, il decremento, unico al mondo, della natalità, con la conseguente diminuzione del numero dei giovani e, quindi, anche delle giovani Vocazioni. In questo panorama rappresentano una lodevole eccezione, carica di entusiasmo e di speranza, i Movimenti e le nuove Comunità, nei quali la fede è vissuta in maniera schietta ed immediata, e tradotta in vita concreta e ciò apre il cuore dei giovani alla possibilità di donarsi completamente a Dio nel Sacerdozio ministeriale. Una tale vitalità nella differenza di espressione e di metodi, deve essere di tutta la Chiesa, di ogni parrocchia e di ogni Diocesi, perché solo una fede autentica, significativa per la vita, è l’ambiente nel quale possono essere ascoltate le tante chiamate che Dio rivolge, anche oggi, ai giovani. Il primo ed irrinunciabile rimedio al calo delle Vocazioni, lo ha suggerito Gesù stesso: «Pregate dunque il padrone della messe, perché mandi operai nella sua messe» (Mt 9,38). Questo è il realismo della pastorale delle vocazioni. La preghiera per le Vocazioni, un’intensa, universale, dilatata rete di preghiera e di Adorazione Eucaristica che avvolga tutto il mondo, è la sola vera risposta possibile alla crisi delle risposte alla Vocazione. Ma ci vuole fede! Laddove un tale atteggiamento orante è stabilmente vissuto, si può affermare che sia in atto una reale ripresa e che, in certo modo, la notte sia passata e già albeggi. Vorrei tanto che ogni Diocesi avesse un centro di adorazione eucaristica, possibilmente perpetua, proprio per queste intenzioni: santificazione del Clero e vocazioni. Questo è il più efficace e realistico piano pastorale che ci possa essere! Di lì in poi si sprigionerà anche una mirabile forza di carità in tutti gli ambiti. Provare per credere! Kath.net: Dal 2003 sino alla Sua nomina a segretario della Congregazione per il Clero da parte di Papa Benedetto XVI nel 2007 Lei è stato presidente della Pontifica Commissione per i Beni Culturali della Chiesa; dal 2004 anche presidente della Pontificia Commissione per l’Archeologia Sacra. Come giudica lo stato attuale della “ars sacra” che spesso viene confusa con l’ “ars religiosa”? Cardinale Piacenza: L’argomento è vastissimo e meriterebbe di essere affrontato con la giusta ampiezza, poiché ogni realizzazione artistica parla dell’idea di uomo e di Dio che abbiamo, come pure ogni “edificio chiesa” che si costruisce parla sia dell’idea di Chiesa che abbiamo, sia, soprattutto, dell’esperienza di Chiesa che viviamo. La Chiesa non è una realtà sociologica umana, non è una riunione di persone che credono nella stessa cosa! Essa è il Corpo di Cristo, nuovo Popolo sacerdotale, Presenza divina nel mondo. Ogni autentica espressione di arte sacra ed ogni nuova chiesa dovrebbe essere innanzitutto riconoscibile come tale. Ogni uomo, ogni passante, dal bambino all’anziano, dal colto all’analfabeta, dal credente all’ateo, dovrebbero poter immediatamente dire: “Quella è un’opera d’arte!... Quella è una chiesa!”. Quest’ultima, inoltre, deve essere monumentale, deve cioè parlarci della grandezza di Dio e deve, dunque, essere differente, anche per proporzioni, da ogni altro edificio. Una chiesa, e l’arte sacra tutta, per essere tale, non deve obbedire tanto alla soggettiva originalità del singolo architetto o artista, quanto alla fede schietta e sincera del popolo, che in essa e attraverso di essa pregherà. Non sono “monumenti” alla genialità del singolo, ma luoghi e strumenti di Culto, dedicati a Dio, nei quali e attraverso i quali incontrare Dio e radunarsi come Suo Popolo. Kath.net: Secondo Lei, quanto è importante la celebrazione della liturgia per l’essenza della vita della comunità nonché per la missione di una nuova evangelizzazione dei paesi di antica cristianizzazione? Cardinale Piacenza: Più volte il Santo Padre ha ricordato che, con la Liturgia, vive o muore la fede della Chiesa. Essa è, nel contempo, specchio, nel quale si riflette la fede, ed alimento, che costantemente la nutre, la purifica e la sostiene. L’antico adagio “lex orandi, lex credendi” mantiene ovviamente ancora oggi tutta la propria validità ed efficacia. In non pochi casi, il menzionato tentativo di demitizzazione, ha travolto anche la Liturgia, producendo, come unico, devastante effetto, quello di ridurla nuovamente e paradossalmente a “riti pre-cristiani”, simbolicamente interpretabili e quindi esposti ad ogni possibile deriva soggettivistica e relativistica. La Liturgia non è principalmente un agire umano, nel quale i singoli possano liberamente esprimere la propria soggettiva emozionalità, o per partecipare al quale sarebbe necessario fare o dire qualche cosa; essa è principalmente azione di Cristo, il Quale, Vivo e Presente nella Sua Chiesa, rende culto al Padre, attirando, in tale azione divino-umana, noi uomini. È Cristo Risorto il vero protagonista della storia e della Liturgia, ed ogni azione umana, che voglia essere realmente liturgica, deve obbedire a questo imprescindibile criterio e deve mirare ad orientare il cuore dei fedeli al riconoscimento del primato assoluto di Dio. Aver ridotto o banalizzato la Liturgia è una gravissima responsabilità, non indipendente da quella perdita del senso del sacro, di cui l’Occidente è vittima, e che è, ancora una volta, derivante dalla demitizzazione radicale di cui certa teologia si è fatta promotrice, credendo di essere “scientifica”. La risposta a tutto ciò è rintracciabile, tuttavia, nel cuore dell’uomo, il quale, nonostante tutto, è fatto per Dio ed è costitutivamente religioso, dunque aperto al trascendente ed al senso del sacro. Una Liturgia cristocentrica, correttamente celebrata, ecclesialmente significativa e che sia la realizzazione del «Egli [Cristo] deve crescere e io invece diminuire» (cfr. Gv 3,30) di giovannea memoria, contribuisce certamente alla nuova Evangelizzazione dell’Europa ed al recupero di quel senso del sacro, senza il quale anche il doveroso dialogo con le altre culture e tradizioni religiose sarebbe impossibile. |
lunedì 7 febbraio 2011
Porte aperte tra il tempio e la piazza
di Gianfranco Ravasi
"Il mondo è come l'occhio: il mare è il bianco, la terra è l'iride, Gerusalemme è la pupilla e l'immagine in essa riflessa è il tempio". Questo antico aforisma rabbinico illustra in modo nitido e simbolico la funzione nel tempio secondo un'intuizione che è primordiale e universale. Due sono le idee che sottendono all'immagine. La prima è quella di "centro" cosmico che il luogo sacro deve rappresentare, un tema sul quale il grande studioso delle religioni Mircea Eliade (1907-1986) ha offerto un vasto dossier documentario. L'orizzonte esteriore, con la sua frammentazione e con le sue tensioni, converge e si placa in un'area che per la sua purezza deve incarnare il senso, il cuore, l'ordine dell'essere intero.
Nel tempio, dunque, si "con-centra" la molteplicità del reale che trova in esso pace e armonia: si pensi solo alla planimetria di certe città a radiali connesse al "sole" ideale rappresentato dalla cattedrale posta nel cardine centrale urbano (Milano, per esempio, "centrata" sul Duomo ne è un esempio evidente, come New York è la testimonianza di una diversa visione, più dispersa e babelica). Dal tempio, poi, si "de-centra" un respiro di vita, di santità, di illuminazione che trasfigura il quotidiano e la trama ordinaria dello spazio. Ed è a questo punto che entra in scena il secondo tema sotteso al detto giudaico sopra evocato.
Il tempio è l'immagine che la pupilla riflette e rivela. Esso è, quindi, segno di luce e di bellezza. Detto in altri termini, potremmo affermare che lo spazio sacro è epifania dell'armonia cosmica ed è teofania dello splendore divino. In questo senso un'architettura sacra che non sappia parlare correttamente - anzi, "splendidamente" - il linguaggio della luce e non sia portatrice di bellezza e di armonia decade automaticamente dalla sua funzione, diventa "profana" e "profanata". È dall'incrocio dei due elementi, la centralità e la bellezza, che sboccia quello che Le Corbusier definiva in modo folgorante "lo spazio indicibile", lo spazio autenticamente santo e spirituale, sacro e mistico.
Certo, questi due assi portanti trascinano con sé tanti corollari: pensiamo alla "sordità", all'inospitalità, alla dispersione, all'opacità di tante chiese tirate su senza badare alla voce e al silenzio, alla liturgia e all'assemblea, alla visione e all'ascolto, all'ineffabilità e alla comunione. Chiese nelle quali ci si trova sperduti come in una sala per congressi, distratti come in un palazzetto dello sport, schiacciati come in uno sferisterio, abbrutiti come in una casa pretenziosa e volgare.
A questo punto vorremmo proporre una riflessione di indole più specifica che abbia come codice di riferimento proprio quelle Sacre Scritture bibliche che sono state indubbiamente "il grande codice" della stessa civiltà artistica occidentale. È indiscutibile il rilievo che in esse ha una "teologia" dello spazio, anche se - come si vedrà - essa è inverata in una teologia superiore, quella del tempo e della storia (l'Incarnazione riassume in sé queste due dimensioni ricollocandole nella loro gerarchia).
"Ai tuoi servi sono care le pietre di Sion" (Salmo, 102, 15). Questa professione d'amore dell'antico salmista potrebbe essere il motto stesso della tradizione cristiana che allo spazio sacro ha riservato sempre un rilievo straordinario, a partire dalla "pietra" del Santo Sepolcro, segno della risurrezione di Cristo, attorno alla quale è sorto uno dei templi emblematici dell'intera cristianità. Tra l'altro, è curioso che simbolicamente le tre religioni monoteistiche si ancorino a Gerusalemme attorno a tre pietre sacre, il Muro Occidentale (detto popolarmente "del Pianto"), segno del tempio salomonico per gli ebrei, la roccia dell'ascensione al cielo di Maometto nella moschea di Omar per l'islam e, appunto, la pietra ribaltata del Santo Sepolcro per il cristianesimo.
Certo è che, senza la spiritualità e la liturgia cristiana, la storia dell'architettura sarebbe stata ben più misera: pensiamo solo al nitore delle basiliche paleocristiane, alla raffinatezza di quelle bizantine, alla monumentalità del romanico, alla mistica del gotico, alla solarità delle chiese rinascimentali, alla sontuosità di quelle barocche, all'armonia degli edifici sacri settecenteschi, alla neoclassicità dell'Ottocento, per giungere alla sobria purezza di alcune realizzazioni contemporanee (un esempio per tutte: l'affascinante chiesa del citato Le Corbusier a Ronchamp).
C'è, dunque, nel cristianesimo una celebrazione costante dello spazio come sede aperta al divino, partendo proprio da quel tempio supremo che è il cosmo.
Un grande storico della teologia Marie-Dominique Chenu (1895-1990), al termine della sua vita si rammaricava di aver riservato troppo poco spazio alle arti sia letterarie sia figurative sia architettoniche nella sua storia del pensiero religioso, perché "esse non sono soltanto illustrazioni estetiche ma veri soggetti teologici". Dall'anonimato in cui si relegavano i grandi costruttori di cattedrali basterebbe solo fare emergere, a titolo esemplificativo, un genio architettonico e artistico come l'abate Sugero di Saint-Denis (xiii secolo).
Detto questo c'è però nella concezione cristiana una componente molto pesante che - come si diceva - sposta il baricentro teologico dallo spazio al tempo. Ed è su questo aspetto che ora vorremmo fissare la nostra attenzione. Nell'ultima pagina neotestamentaria, quando Giovanni il Veggente si affaccia sulla planimetria della nuova Gerusalemme della perfezione e della pienezza, si trova di fronte a un dato a prima vista sconcertante: "Non vidi in essa alcun tempio perché il Signore Dio Onnipotente e l'Agnello sono il suo tempio" (Apocalisse, 21, 22). Tra Dio e uomo non è più necessaria nessuna mediazione spaziale; l'incontro è ormai tra persone, si incrocia la vita divina con quella umana in modo diretto. Da questa scoperta potremmo risalire a ritroso attraverso una sequenza di scene altrettanto inattese.
Immaginiamo di rincorrere questo filo rosso afferrandolo al capo estremo opposto. Davide decide di erigere un tempio nella capitale appena costituita, Gerusalemme, così da avere anche Dio come cittadino nel suo regno. Ma ecco la sorprendente risposta oracolare negativa emessa dal profeta Nathan: il re non costruirà nessuna "casa" a Dio ma sarà il Signore a dare una "casa" a Davide: "Te il Signore farà grande, poiché una casa farà a te il Signore" (ii Samuele, 7, 11). In ebraico si gioca sulla ambivalenza del termine bayit, "casa" e "casato". Dio, quindi, allo spazio sacro di una casa-tempio preferisce la presenza in una casa-casato, ossia nella storia di un popolo, nella dinastia davidica che si colorerà di tonalità messianiche.
Certo, lo spazio non è dissacrato. Il figlio di Davide, Salomone, innalzerà un tempio che la Bibbia descrive con ammirata enfasi. Eppure quando egli sta pronunziando la sua preghiera di consacrazione, dovrà necessariamente interrogarsi così: "Ma è proprio vero che Dio può abitare sulla terra? Ecco i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruito!" (1 Libro dei Re, 8, 27). Il tempio, allora, è solo l'ambito di un incontro personale e vitale (non per nulla si parla nella Bibbia di "tenda dell'incontro") che vede Dio chinarsi "dal luogo della sua dimora, dal cielo" della sua trascendenza verso il popolo che accorre nel santuario di Sion con la realtà della sua storia sofferta della quale si elencano i vari drammi.
I profeti giungeranno al punto di minare le fondamenta religiose del tempio e del suo culto qualora esso si riduca a essere solo uno spazio magico-sacrale, dissociato dalla vita della piazza civica, ossia dall'impegno etico-esistenziale, e affidato solo a una presenza meramente e ipocritamente rituale.
Basti solo, tra i tanti passi profetici di analogo tenore, leggere questo paragrafo del profeta Amos (viii secolo prima dell'era cristiana): "Io detesto, respingo le vostre feste e non gradisco le vostre riunioni. Anche se voi mi offrite olocausti io non accetto i vostri doni. Le vittime grasse di pacificazione neppure le guardo. Lontano da me il frastuono dei vostri canti, il suono delle vostre arpe non riesco a sopportarlo! Piuttosto scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne!" (5, 21-24).
Ma entriamo nel cristianesimo in modo diretto. Cristo, come ogni buon ebreo, ama il tempio gerosolimitano. Non esita a impugnare una sferza e a menare fendenti contro i mercanti che lo profanano con i loro commerci, ne frequenta le liturgie durante le varie solennità, come faranno anche i suoi discepoli che si riserveranno persino un loro spazio nell'area del cosiddetto "Portico di Salomone". Eppure lo stesso Cristo in quel meriggio assolato al pozzo di Giacobbe, davanti al monte Garizim, luogo sacro della comunità dei samaritani, non teme di dire alla donna che sta attingendo acqua: "Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre... È giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità" (Giovanni, 4, 21-24).
Ci sarà un'ulteriore svolta che insedierà la presenza divina nella stessa "carne" dell'umanità attraverso la persona di Cristo, come dichiara il celebre prologo del Vangelo di Giovanni: "Il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua tenda in mezzo a noi" (1, 14), con evidente rimando alla "tenda" del tempio di Sion. Tra l'altro, il verbo greco eskénosen, "pose la tenda" ricalca le radicali s-k-n del vocabolo ebraico con cui si definiva la "Presenza" divina nel tempio di Sion, Shekinah. Gesù sarà anche più esplicito: "Distruggete questo tempio e in tre giorni io lo farò risorgere".
E l'evangelista Giovanni annota: "Egli parlava del tempio del suo corpo" (2, 19-21). Paolo andrà oltre e, scrivendo ai cristiani di Corinto, affermerà: "Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi... Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!" (i, 6, 19-20).
"Un tempio di pietre vive", quindi, come scriverà san Pietro, "impiegate per la costruzione di un edificio spirituale" (i, 2, 5) un santuario non estrinseco, materiale e spaziale, bensì esistenziale, un tempio nel tempo. Il tempio architettonico sarà, quindi, sempre necessario, ma dovrà avere in sé una funzione di simbolo: non sarà più un elemento sacrale intangibile e magico, ma solo il segno necessario di una presenza divina nella storia e nella vita dell'umanità. Il tempio, quindi, non esclude o esorcizza la piazza della vita civile ma ne feconda, trasfigura, purifica l'esistenza, attribuendole un senso ulteriore e trascendente. Per questo, una volta raggiunta la pienezza della comunione tra divino e umano, il tempio nella Gerusalemme celeste, la città della speranza, si dissolverà e "Dio sarà tutto in tutti" (1 Corinzi, 15, 28).
Terminiamo la nostra riflessione con tre testimonianze. La prima riassume i gradi del discorso finora fatto. È una cantilena ebraica cabbalistica medievale che ricorda i vari passaggi per trovare il luogo dove s'incontra veramente Dio. Ecco il ritornello in ebraico, ritornello assonante che si ripete a ogni strofa: hu' hammaqôm shel- maqôm / we'en hammaqôm meqomô. Con un gioco di parole e un'intuizione folgorante si dice: "Egli, Dio, è il Luogo di ogni luogo, / eppure questo Luogo non ha luogo".
La seconda testimonianza è legata alla figura di san Francesco ed è desunta dal capitolo 37 della Vita seconda di Tommaso da Celano, francescano abruzzese. Un frate dice a Francesco: "Non abbiamo più soldi per i poveri". Francesco risponde: "Spoglia l'altare della Vergine e vendine gli arredi, se non potrai soddisfare diversamente le esigenze di chi ha bisogno".
E subito dopo aggiunge: "Credimi, alla Vergine sarà più caro che sia osservato il vangelo di suo Figlio e nudo il proprio altare, piuttosto che vedere l'altare ornato e disprezzato il Figlio nel figlio dell'uomo". Ci dobbiamo, dunque, soltanto spogliare del tempio e della sua bellezza? No, perché Francesco è convinto che Dio ci offrirà di nuovo il tempio, con tutti gli ornamenti: "Il Signore manderà chi possa restituire alla Madre quanto ci ha dato in prestito per la Chiesa".
La terza e ultima considerazione ci è offerta dalla spiritualità ortodossa. Un noto teologo laico russo del Novecento vissuto a Parigi, Pavel Evdokimov, dichiarava che tra la piazza e il tempio non ci deve essere la porta sbarrata, ma una soglia aperta per cui le volute dell'incenso, i canti, le preghiere dei fedeli e il baluginare delle lampade si riflettano anche nella piazza dove risuonano il riso e la lacrima, e persino la bestemmia e il grido di disperazione dell'infelice. Infatti, il vento dello Spirito di Dio deve correre tra l'aula sacra e la piazza ove si svolge l'attività umana. Si ritrova, così, l'anima autentica e profonda dell'Incarnazione che intreccia in sé spazio e infinito, storia ed eterno, contingente e assoluto.
(© L'Osservatore Romano 17-18 gennaio 2011)
giovedì 3 febbraio 2011
San Francesco d'Assisi
modello di amore eucaristico per i sacerdoti e per i fedeli
di padre Stefano Maria Manelli FI
S. Francesco d’Assisi "ardeva di amore in tutte le fibre del suo essere verso il Sacramento del Corpo del Signore, preso da stupore oltre ogni misura per tanta benevola degnazione e generosissima carità. Riteneva grave segno di disprezzo non ascoltare almeno una Messa al giorno, se il tempo lo permetteva. Si comunicava spesso e con tanta devozione da rendere devoti anche gli altri... Un giorno volle mandare i frati per il mondo con pissidi preziose, perchè riponessero in luogo il più degno possibile il prezzo della redenzione, ovunque lo vedessero conservato con poco decoro. Voleva che si dimostrasse grande rispetto alle mani del Sacerdote, perché ad esse è stato conferito il Divino potere di consacrare questo Sacramento. "Se mi capitasse - diceva spesso - di incontrare insieme un Santo che viene dal cielo ed un Sacerdote poverello, saluterei prima il Prete e correrei a baciargli le mani. Direi infatti: Ohi! Aspetta, San Lorenzo, perché le mani di costui toccano il Verbo di vita e possiedono un potere sovrumano!'".
In questa stupenda pagina del beato Tommaso da Celano, primo biografo di san Francesco d’Assisi, è riassunta tutta la vita Eucaristica di S. Francesco, ricca di amore e di fede, di devozione e di ardore. Non manca proprio nulla all'esemplarità di una vita Eucaristica piena e perfetta per tutti: per gli stessi sacerdoti, come per i semplici fedeli.
La S. Messa, la S. Comunione, l'adorazione Eucaristica, il decoro dell'altare e delle Chiese, la venerazione per i Sacerdoti ministri dell'Eucaristia: in tutto questo S. Francesco ci è maestro e modello in misura tale da farlo considerare non solo un Santo Eucaristico ma un serafino innamorato dell' Eucaristia.
E tra i suoi figli noi avremo le figure mirabili di serafini dell'Eucaristia come S. Antonio di Padova e S. Bonaventura che hanno scritto pagine di sublime dottrina e di struggente amore all'Eucaristia, come S. Pasquale Baylon, diventato protettore dei congressi Eucaristici, come S. Giuseppe da Copertino che si levava in volo estatico verso gli Ostensori e verso i Tabernacoli, come il B. Matteo da Girgenti e il B. Bonaventura da Potenza che dopo morte, anche con il corpo cadavere venerarono l'Eucaristia, come san Pio da Pietrelcina che per più ore di giorno e di notte sostava in preghiera presso l’altare eucaristico.
La S. Messa era per S. Francesco un mistero di grazia così sublime che nella lettera al Capitolo generale e a tutti i frati scrisse queste esclamazioni di fuoco: "L'umanità trepidi, l'universo intero tremi, e il cielo esulti, quando sull'altare, nelle mani del Sacerdote, è il Cristo figlio di Dio vivo".
La cosa che sconvolge S. Francesco è l'amore di Gesù spinto fino ad un'umiltà inconcepibile: "O ammirabile altezza, o degnazione stupenda! O umiltà sublime! O sublimità umile, che il Signore dell'Universo, Dio e Figlio di Dio, così si umili da nascondersi, per la nostra salvezza, in poca apparenza di pane!".
Per questo egli considerava grave mancanza di amore da parte nostra l'assenza alla S. Messa quotidiana. Per questo egli non solo partecipava almeno ad una S. Messa, ma quando era infermo, per quanto era possibile, si faceva celebrare la S. Messa in cella, o almeno si faceva leggere la pagina del Vangelo della Messa del giorno: "Voleva sempre ascoltare il Vangelo del giorno - è scritto nella Leggenda perugina - quando non aveva potuto partecipare alla Messa".
Quale lezione per noi tutti, che spesso siamo così pigri e facciamo fatica anche a partecipare alla Messa solo la domenica! Non parliamo poi della Messa giornaliera, disertata al punto che in tante Chiese il Sacerdote deve celebrare la S. Messa ai banchi o a quattro devote vecchiette.
Per la S. Comunione, S. Francesco ci insegna come riceverla da serafini ardenti di amore: "Si comunicava spesso - dice il Celano - e con tanta devozione da rendere devoti anche gli altri". Ecco la vera devozione: quella che edifica, che costruisce, che spinge al meglio anche gli altri. S. Bonaventura infatti dice che la devozione di S. Francesco nel fare la S. Comunione era tale "da rendere devoti anche gli altri". Basti pensare che subito dopo la Comunione "il più delle volte veniva rapito in estasi". E il Celano ci svela l'intimo di S. Francesco scrivendo che "quando riceveva l'Agnello immolato, immolava lo spirito in quel fuoco, che ardeva sempre sull'altare del suo cuore". Questo e l'amore che diventa fusione, l'immolazione d'amore che non ammette divisioni: "Chi mangia la mia carne e beve il mio Sangue rimane in Me e Io in lui" (Gv 6,56).
S. Francesco si preparava alla S. Comunione con una premura attentissima: non solo la sua vita Santa, ricca di eroismi quotidiani, ma anche la Confessione sacramentale doveva preparare ogni volta la sua anima a ricevere Gesù Eucaristico con il massimo candore di grazia. A quei tempi non più di tre volte alla settimana poteva comunicarsi: ebbene, tre volte alla settimana S. Francesco si confessava. Quando si ama, si vuol compiacere la persona amata donandole tutto ciò che possa farla gioire. L'anima purificata dal Sacramento della Confessione diventa una dimora piena di candore e di profumo per Gesù Ostia immacolata. S. Francesco non solo lo sapeva e lo faceva, ma lo raccomandava a tutti con fervore veramente serafico. Nella Lettera a tutti i fedeli S. Francesco scrisse così: Gesù "vuole che tutti siamo salvi per Lui, e che lo si riceva con cuore puro e corpo casto. Ma pochi sono coloro che lo vogliono ricevere...". Nella Lettera ai reggitori dei popoli scrive: "Vi consiglio, signori miei, di mettere da parte ogni cura e preoccupazione e di ricevere devotamente la comunione del Santissimo Corpo e Sangue del Signore nostro Gesù Cristo".
Quando si ama, inoltre, si guarda con occhi d'amore non solo la persona amata, ma anche tutto ciò che riguarda la persona amata. In tal senso S. Francesco coltivò a tensione altissima d'amore sia l'adorazione all'Eucaristia, sia la venerazione per tutto ciò che riguarda l'Eucaristia, ossia le Chiese e i Sacerdoti.
La passione d'amore per l'adorazione Eucaristica fu cosi ardente in S. Francesco, che non erano poche le notti intere da lui trascorse ai piedi del Tabernacolo. E se talvolta il sonno lo prendeva, si appisolava per un poco sui gradini dell'altare, e poi riprendeva instancabile e fervente. Chi lo sosteneva? La fede e l'amore verso questo "mirabile Sacramento" (dalla Liturgia).
La sua fede e il suo amore all'Eucaristia si irradiano dalla sua vita e dai suoi scritti con un fulgore luminosissimo. Ai frati una volta scrisse: "Prego tutti voi, fratelli, baciandovi i piedi e con quanto ardore posso, di tributare tutta la riverenza e tutto l'onore che potete al Santissimo Corpo e Sangue del Signore nostro Gesù Cristo".
Per S. Francesco la fede nell'Eucaristia fa tutt'uno con la fede nella SS. Trinità e nel Verbo Incarnato. E così voleva che fosse per tutti. Perciò scriveva con vigore e calore: "Il Figlio, in quanto Dio come il Padre, non differisce in qualche cosa dal Padre e dallo Spirito Santo. E allora tutti coloro che si fermarono alla sola umanità del Signore Gesù Cristo e non videro e non credettero nello Spirito di Dio, che egli era vero Figlio di Dio, furono condannati; similmente adesso tutti coloro che vedono il sacramento del corpo di Cristo, il quale viene sacrificato sull'altare mediante le parole del Signore, però per il ministero del Sacerdote, Sotto le specie del pane e del vino, e non vedono e non credono, secondo lo Spirito di Dio che esso è veramente il Santissimo corpo e Sangue del Signore nostro Gesù Cristo, sono condannati". E poco oltre continua la sua ammonizione con un efficace paragone: "Come ai Santi apostoli apparve in vera Carne, così ora si mostra a noi nel Pane Consacrato; e come essi con lo sguardo fisico vedevano solo la sua Carne ma, contemplandolo con gli occhi della fede, credevano che egli era Dio, così anche noi, vedendo pane e vino con gli occhi del corpo, vediamo e fermamente crediamo che il suo Santissimo Corpo e Sangue sono vivi e veri".
Questa fede e questo amore arriveranno al punto di fargli esclamare più volte che "dell'altissimo Figlio di Dio nient'altro io vedo corporalmente, in questo mondo, se non il Santissimo Corpo e il Sangue suo... E questi Santissimi misteri sopra ogni cosa voglio che siano onorati, venerati e collocati in luoghi preziosi".
L'amore alla Casa del Signore è inseparabile dall'amore all'Eucaristia. Non si può amare Gesù e trascurare la sua dimora. Anche in questo S. Francesco ci ha lasciato una lezione stupenda per ardore e concretezza. Personalmente, egli si preoccupava della pulizia delle Chiese, dei calici e delle pissidi, delle tovaglie e delle ostie, dei vasi di fiori e delle lampade.
Esortava i ministri dell'altare ad essere ferventi e fedeli nel circondare il SS. Sacramento di ogni decoro e riverenza. In una lettera ai Custodi sembra scrivere proprio in ginocchio: "Vi prego, più che se lo facessi per me stesso, perché quando conviene e lo vedrete necessario, supplichiate umilmente i Sacerdoti perché venerino sopra ogni cosa il Santissimo Corpo e Sangue del Signore nostro Gesù Cristo... I calici, i corporali, gli ornamenti degli altari e tutto ciò che riguarda il Sacrificio devono essere preziosi. E se il Santissimo Corpo del Signore sarà collocato in modo miserevole in qualche luogo, secondo il precetto della Chiesa, sia posto da essi in un luogo prezioso e sia custodito e sia portato con grande venerazione e nel dovuto modo sia dato agli altri... E quando è consacrato dal Sacerdote sull'altare ed è portato in qualche parte, tutti, in ginocchio, rendano lode, gloria e onore al Signore Dio vivo e vero".
Queste cose S. Francesco le scriveva e le diceva. Quando arrivava in un paese, dopo aver predicato al popolo, di solito radunava a parte il clero e parlava di questi problemi con ardore appassionato, ricorrendo perfino alla minaccia delle pene eterne: "Non si muove a pietà il nostro animo - esclamava - sapendo che il Signore, così buono, si mette nelle nostre mani e noi possiamo toccarlo e riceverlo? O ignoriamo che cadremo nelle sue mani? Emendiamoci decisamente, dunque, di queste e di altre cose, e dovunque si trovasse il Santissimo Corpo del Signore nostro Gesù Cristo riposto e lasciato indegnamente, rimoviamolo da quel luogo e riponiamolo e racchiudiamolo in un luogo prezioso".
Più concretamente ancora, S. Francesco stesso, andando a predicare per città e villaggi "portava una scopa per pulire le Chiese", come riferisce la Leggenda perugina, perché "molto soffriva Francesco nell'entrare in una chiesa e vederla sporca", e ciò lo spingeva a raccomandare ai Sacerdoti "di avere la massima cura nel mantenere pulite le Chiese, gli altari e tutta la suppellettile che serve per la celebrazione dei divini misteri".
Inoltre, "una volta volle mandare alcuni frati per tutte le province, - dice lo Specchio di perfezione - a portare pissidi belle e splendenti, affinché dovunque trovassero il Corpo del Signore conservato in modo sconveniente, lo collocassero con onore in quelle pissidi. E anche volle mandare altri frati per tutte le regioni con molti e buoni ferri da ostie, per fare delle particole belle e pure".
Se a questo aggiungiamo che S. Francesco faceva preparare da S. Chiara i corporali da donare alle Chiese povere e che egli stesso a volte preparava i vasi di fiori per l'altare, possiamo farci un'idea più completa del fervore Eucaristico di S. Francesco.
* * *
Che cosa dire, in particolare, della venerazione di san Francesco per i Sacerdoti all’altare? Basti qui riportare le parole del suo Testamento: "Il Signore mi dette e mi dà tanta fede nei Sacerdoti che vivono secondo la forma della Santa Chiesa romana, a causa del loro ordine, che se mi dovessero perseguitare voglio ricorrere ad essi e non voglio in loro considerare il peccato, perché in essi io vedo il Figlio di Dio".
Ecco la visione soprannaturale di S. Francesco riguardo ai consacrati in “Persona Christi”, ossia ai Sacerdoti: "In essi io vedo il Figlio di Dio". Per questo egli voleva che "fossero onorati in maniera particolare i Sacerdoti - dicono i Tre compagni – i quali amministrano sacramenti così venerandi e sublimi: dovunque li incontrassero, dovevano chinare il capo davanti a loro e baciare loro le mani... E difatti, dovunque s'imbattessero in un Sacerdote, non importa se ricco o povero, degno o indegno, s'inchinavano umilmente in segno di reverenza".
Agli stessi Sacerdoti egli dice con amore: "Badate alla vostra dignità, frati Sacerdoti, e siate Santi perché Egli è Santo. E come il Signore Dio onorò voi sopra tutti gli uomini, per questo mistero, così voi più di ogni altro uomo amate, riverite, onorate Lui". E’ davvero ineffabile la dignità di colui che “impersona Cristo” ed è chiamato ad essere ovunque “presenza di Cristo” e a pensare, parlare e operare in tutto “come Cristo”.
Per questo san Francesco si preoccupa che i Sacerdoti possano sempre “celebrare la Messa puri e ripieni di purezza compiano con riverenza il vero sacrificio del santissimo corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo, con intenzione santa e monda…”. Abbiano sempre, essi, la massima devozione e il massimo candore dell’anima, con la perfetta obbedienza a tutte le norme della Chiesa e con tutta la delicatezza nel portarlo fra le mani e nel distribuirlo agli altri, facendo così stupire gli angeli che li assistono.
San Francesco non si stanca di raccomandare ai sacerdoti soprattutto l’umiltà, riferendo l’esempio di Gesù stesso il quale “ogni giorno si umilia, come quando dalla sede regale discese nel grembo della Vergine: ogni giorno, infatti, egli stesso viene a noi in apparenza umile, ogni giorno discende dal seno del Padre sull’altare nelle mani del sacerdote”.
E le mani del sacerdote dovrebbero essere pure come quelle della Madonna, raccomanda il Serafico Padre, esprimendosi con queste parole sublimi: “Ascoltate, fratelli miei. Se la Beata Vergine è così onorata, come è giusto, perché lo portò nel suo santissimo grembo [….] quanto deve essere santo, giusto e degno colui che tocca con le sue mani, riceve nel cuore e con la bocca e offre agli altri, perché ne mangino, Lui non già morituro, ma in eterno vivente e glorificato, sul quale gli angeli desiderano fissare lo sguardo”.
Per questo, considerando tali compiti così sublimi del Sacerdote, san Francesco non può trattenersi dal fare una dolorosa e amara costatazione nei riguardi di ogni Sacerdote: “E’ una grande miseria e una miseranda debolezza, che avendo lui così presente, voi vi prendiate cura di qualche altra cosa in tutto il mondo”. Se ogni Sacerdote riflettesse sui richiami del Serafico Padre!
La conclusione di tutto il discorso sulla pietà e sulla vita Eucaristica secondo S. Francesco d’Assisi possiamo trovarla in questa sua esortazione che vale certamente anche per tutti noi: "Nulla di voi tenete per voi; affinché vi accolga tutti Colui che a voi si dà tutto". Essere l’uno dell’altro, essere l’uno nell’altro: non è forse questo il contenuto delle divine parole d’amore sommo di Gesù: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui” (Gv 6, 56)?