domenica 13 marzo 2011

Il Vaticano II e l’ermeneutica della continuità

di Vito Abbruzzi

Qualche giorno fa mentre sfogliavo il bellissimo volume Giovanni XXIII. Il Papa del Concilio Ecumenico Vaticano II (Bergamo 1966), la mia attenzione fu tutta presa dal contributo di Pericle Felici intitolato, per l’appunto, Il Concilio Ecumenico Vaticano II (pp. 226-257). Si tratta di un contributo di grande interesse storico perché dato dall’allora Segretario del Concilio, divenuto in seguito cardinale.

Leggendo questo scritto del 1963, si coglie chiaramente la reale intenzione del Vaticano II e di Papa Giovanni, che ne fu l’ideatore e l’artefice: “attingere novello vigore” per la Chiesa, “seguendo sempre le orme della tradizione antica”.

Sono espressioni che Mons. Felici non esita a far sue, citando proprio il discorso tenuto da Giovanni XXIII alla Commissione Antepreparatoria del Concilio il 30 giugno 1959 (il giorno seguente la pubblicazione dell’enciclica Ad Petri cathedram):
« Il Concilio [Ecumenico Vaticano II] è convocato, anzitutto, perché, la Chiesa cattolica, nella fulgida varietà dei riti, nella multiforme azione, nella infrangibile unità, si propone di attingere novello vigore per la sua divina missione. Perennemente fedele ai sacri principii su cui poggia e all’immutabile dottrina affidatele dal Divin Fondatore, la Chiesa, seguendo sempre le orme della tradizione antica, intende, con fervido slancio, rinsaldare la propria vita e coesione, anche di fronte alle tante contingenze e situazioni odierne ».

Un’ermeneutica del Vaticano II all’insegna della continuità, dunque, e giammai della rottura col passato, come, invece, abbiamo sentito (e ancora sentiamo) tante volte ripetere da quanti conoscono poco o punto il Concilio.

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