sabato 25 giugno 2011

La "ricchezza" della liturgia romana

di Vito Abbruzzi

Il 13 maggio scorso è stata finalmente pubblicata dalla Pontificia Commissione Ecclesia Dei la “Istruzione sull’applicazione della Lettera Apostolica Motu Proprio data Summorum Pontificum di S.S. Benedetto PP. XVI”, sinteticamente detta “Universae Ecclesiae”.

La “Istruzione Universae Ecclesiae” esce dopo alcuni anni di attesa: da quando, cioè, fu pubblicato il “Motu Proprio Summorum Pontificum”, in data 7 luglio 2007. Ed esce ricordando innanzitutto “alla Chiesa universale la ricchezza della Liturgia Romana”. È quanto, appunto, leggiamo nel prooemium della Universae Ecclesiae: «La Lettera Apostolica, Summorum Pontificum Motu Proprio data, del Sommo Pontefice Benedetto XVI del 7 luglio 2007, entrata in vigore il 14 settembre 2007, ha reso più accessibile alla Chiesa universale la ricchezza della Liturgia Romana (Romanae Liturgiae divitias)» (Universae Ecclesiae, n. 1). È proprio così!

A quanti avevano – a torto – voluto ravvisare nella pubblicazione del Summorum una sorta di regressione e impoverimento della Liturgia Romana, il magistero di Papa Benedetto XVI rispondeva in modo inequivocabile, ribadendo che “le due forme [quella ordinaria e quella straordinaria] dell’uso del Rito Romano possono arricchirsi a vicenda” (Lettera ai Vescovi in occasione della pubblicazione della Lettera Apostolica “Motu Proprio data” Summorum Pontificum sull’uso della Liturgia Romana anteriore alla Riforma effettuata nel 1970).

Soprattutto a beneficiare di questo arricchimento sarà la “celebrazione della Messa secondo il Messale di Paolo VI”, nella quale “potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso. La garanzia più sicura che il Messale di Paolo VI possa unire le comunità parrocchiali e venga da loro amato consiste nel celebrare con grande riverenza in conformità alle prescrizioni; ciò rende visibile la ricchezza spirituale e la profondità teologica di questo Messale” (ivi).

Che “la sacra Liturgia celebrata secondo l’uso romano [antico] arricchì non solo la fede e la pietà, ma anche la cultura di molte popolazioni” (Summorum Pontificum) è fuor di dubbio! Ce lo attesta la notizia di questi giorni pubblicata sul Washington Post e divulgata dal sito internet “Messainlatino.it” col titolo: «Inizia l’esodo anglo-cattolico anche negli Stati Uniti. Una parrocchia nel Maryland appartenente alla Chiesa episcopale (il nome degli anglicani oltreoceano), tra cui il suo pastore, ha deciso di convertirsi al cattolicesimo, la prima negli Stati Uniti a prendere la decisione con le nuove regole vaticane che istituiscono ordinariati per protestanti pentiti (Anglicanorum coetibus)». È significativo notare che “i rappresentanti della parrocchia [in questione (“St Luke”)] hanno riferito che non stavano lasciando la Chiesa episcopale a causa dell’ordinazione delle donne e dei gay, questioni che hanno amaramente diviso l’ala americana della Chiesa anglicana e sono coincise con sforzi intensificati del Vaticano per aprire agli anglicani. La ragione, hanno detto, era quella di soddisfare il loro desiderio di un’autorità religiosa chiara accettando la guida di Papa Benedetto XVI”. Che non sia stata, provvidenzialmente, l’apertura di questo Papa al Rito Romano Antico? Penso proprio di sì, visto che questi “parrocchiani sono più simili ai cattolici di prima del Concilio Vaticano II, con il sacerdote girato nella stessa direzione dell’assemblea verso l’altare posto contro il muro e non nel mezzo”
(http://blog.messainlatino.it/2011/06/inizia-lesodo-anglo-cattolico-anche.html).

Nella “Costituzione Apostolica Anglicanorum coetibus circa l’istituzione di Ordinariati Personali per Anglicani che entrano nella piena comunione con la Chiesa Cattolica” leggiamo: «Senza escludere le celebrazioni liturgiche secondo il Rito Romano, l’Ordinariato ha la facoltà di celebrare l’Eucaristia e gli altri Sacramenti, la Liturgia delle Ore e le altre azioni liturgiche secondo i libri liturgici propri della tradizione anglicana approvati dalla Santa Sede, in modo da mantenere vive all’interno della Chiesa Cattolica le tradizioni spirituali, liturgiche e pastorali della Comunione Anglicana, quale dono prezioso per alimentare la fede dei suoi membri e ricchezza da condividere». 

Ancora una volta, dunque, ribadito il concetto di “ricchezza” di cui è permeata la Liturgia della Chiesa Cattolica: “nella fulgida varietà dei riti, nella multiforme azione, nella infrangibile unità” (Giovanni XXIII, Discorso alla Commissione Antepreparatoria del Concilio, 30 giugno 1959). Un principio, questo, ripreso dal Vaticano II, che stabilisce: «Nella Chiesa tutti, secondo il compito assegnato ad ognuno, sia nelle varie forme della vita spirituale e della disciplina, sia nella diversità dei riti liturgici, anzi anche nella elaborazione teologica della verità rivelata, pur custodendo l’unità nelle cose necessarie, serbino la debita libertà; in ogni cosa poi rispettino la carità. Poiché agendo così, manifesteranno ogni giorno meglio la vera cattolicità e insieme l’apostolicità della Chiesa» (Unitatis redintegratio, n. 4).

È in questo spirito conciliare che auguriamo alla Universae Ecclesiae il successo che merita, trovando benevolo accoglimento da parte dei fedeli, ma, soprattutto, del clero, sensibile a “celebrare degnamente i santi misteri”: ad laudem et gloriam nominis sui, ad utilitatem quoque nostram, totiusque Ecclesiae suae sanctae. 

giovedì 16 giugno 2011

La via soprannaturale per riportare pace tra prima e dopo il Concilio

di Enrico Maria Radaelli

[…]

Seconda domanda: Può il nuovo campo dogmatico essere in contraddizione con l’antico?

Ovviamente no, non può in alcun modo. Infatti dopo il Vaticano II non abbiamo alcun "nuovo campo dogmatico", [...] anche se molti vogliono far passare per tale le novità conciliari e postconciliari, pur essendo il Vaticano II un semplice se pur solenne e straordinario "campo pastorale". [...] nient’altro che una solenne e universale, cioè ecumenica, adunanza “pastorale” intenzionata a dare al mondo alcune indicazioni solo pastorali, rifiutandosi dichiaratamente e ostentatamente di definire dogmaticamente o di colpire d'anatema alcunché.

Tutti i maggiorenti neomodernisti o semplicemente novatori che dir si voglia i quali [...] furono attivi nella Chiesa fin dai tempi di Pio XII – teologi, vescovi e cardinali della "théologie nouvelle" come Bea, Câmara, Carlo Colombo, Congar, De Lubac, Döpfner, Frings col suo perito, Ratzinger; König col suo, Küng; Garrone col suo, Daniélou; Lercaro, Maximos IV, Montini, Suenens, e, quasi gruppo a sé, i tre maggiorenti della cosiddetta scuola di Bologna: Dossetti, Alberigo e oggi Melloni – nello svolgimento del Vaticano II e dopo hanno cavalcato con ogni sorta di espedienti la rottura con le detestate dottrine pregresse sullo stesso presupposto, equivocando cioè sull'indubbia solennità della straordinaria adunanza; per cui si ha che tutti costoro compirono di fatto rottura e discontinuità proclamando a parole saldezza e continuità. Che vi sia poi da parte loro e poi universalmente oggi desiderio di rottura con la Tradizione è riscontrabile almeno: 1) dal più distruttivo scempio perpetrato sulle magnificenze degli altari antichi; 2) dall’egualmente universale odierno rifiuto di tutti i vescovi del mondo tranne pochissimi a dare il minimo spazio al rito tridentino o gregoriano della messa, in stolida e ostentata disobbedienza alle direttive del motu proprio "Summorum Pontificum". "Lex orandi, lex credendi": se tutto ciò non è rigetto della Tradizione, cos'è allora?

Malgrado ciò, e la gravità di tutto ciò, non si può però ancora parlare in alcun modo di rottura: la Chiesa è "tutti i giorni" sotto la divina garanzia data da Cristo nei giuramenti di Matteo 16, 18 ("Portæ inferi non prævalebunt") e di Matteo 28, 20 ("Ego vobiscum sum omnibus diebus") e ciò la mette metafisicamente al riparo da ogni timore in tal senso, anche se il pericolo è sempre alle porte e spesso i tentativi in atto. Ma chi sostiene un’avvenuta rottura – come fanno alcuni dei maggiorenti anzidetti, ma anche i sedevacantisti – cade nel naturalismo. 

Però non si può parlare neanche di saldezza, cioè di continuità con la Tradizione, perché è sotto gli occhi di tutti che le più varie dottrine uscite dal e dopo il Concilio – ecclesiologia; panecumenismo; rapporto con le altre religioni; medesimezza del Dio adorato da cristiani, ebrei e islamici; correzione della “dottrina della sostituzione” della Sinagoga con la Chiesa in “dottrina delle due salvezze parallele”; unicità delle fonti della Rivelazione; libertà religiosa; antropologia antropocentrica invece che teocentrica; iconoclastia; o quella da cui è nato il "Novus Ordo Missæ" in luogo del rito gregoriano (oggi raccattato a fianco del primo, ma subordinatamente) – sono tutte dottrine che una per una non reggerebbero alla prova del fuoco del dogma, se si avesse il coraggio di provare a dogmatizzarle: fuoco che consiste nel dar loro sostanza teologica con richiesta precisa di assistenza dello Spirito Santo, come avvenne a suo tempo con il "corpus theologicum" posto a base dell’Immacolata Concezione o dell’Assunzione di Maria.

Tali fragili dottrine sono vive unicamente per il fatto che non vi è nessuna barriera dogmatica alzata per non permettere il loro concepimento e uso. Però poi si impone una loro fasulla continuità col dogma per pretendere verso di esse l’assenso di fede necessario all’unità e alla continuità [...], restando così tutte in pericoloso e "fragile borderline tra continuità e discontinuità", ma sempre al di qua del limite dogmatico, che infatti, se applicato, determinerebbe la loro fine. Anche l’affermazione di continuità tra tali dottrine e la Tradizione pecca a mio avviso di naturalismo.

[…]

tratto dal blog “Settimo cielo” di Sandro Magister

sabato 11 giugno 2011

Una rivoluzione voluta dal Papa per saldare il presente alla tradizione


di Giuseppe Capoccia

Prosegue il programma di Benedetto XVI di riforma della liturgia: a tre anni dal “Summorum Pontificum” che ha liberalizzato la messa antica, è stata pubblicata nei giorni scorsi l’Istruzione “Universae Ecclesiae”, il regolamento di attuazione per chiarire alcuni punti controversi e per imprimere un deciso impulso alla diffusione della messa in latino.
“Universae Ecclesiae” ribadisce che l’antico rito non è stato mai abrogato ed anzi è un “tesoro prezioso da conservare”; la decisione del Papa deve prevalere su eventuali norme “incompatibili con le rubriche dei libri liturgici in vigore nel 1962”, ponendo rimedio alle lamentele nei confronti di vescovi che non applicavano le norme del Motu proprio o addirittura lo criticavano esplicitamente o ne promuovevano il boicottaggio. 
Sul punto la “Universae Ecclesiae” afferma che il provvedimento di Benedetto XVI “costituisce una rilevante espressione del Magistero del Romano Pontefice e del munus a Lui proprio di regolare e ordinare la Sacra Liturgia della Chiesa”: formula solenne per indicare un insegnamento dal quale nessun vescovo cattolico può discostarsi. L’Istruzione invita quindi i vescovi ad “adottare le misure necessarie per garantire il rispetto della forma extraordinaria del Rito Romano”, chiarendo che essi “devono vigilare in materia liturgica per garantire il bene comune e perché tutto si svolga degnamente, in pace e serenità nella loro Diocesi”, aggiungendo – per escludere interpretazioni maliziose – che la vigilanza non può essere arbitraria, ma deve essere “sempre in accordo con la mens del Romano Pontefice chiaramente espressa dal Motu Proprio Summorum Pontificum”. Traduzione: ai vescovi non spetta decidere se consentire la celebrazione della messa in latino; questo è già stato deciso dal Papa!
E’ finalmente affermato il diritto dei fedeli a partecipare alla messa antica ed un procedimento giuridico consente – in caso di rifiuti o ostacoli - di ricorrere alla Commissione Ecclesia Dei, definita “Superiore gerarchico” dei vescovi in questa materia. Ma d'altra parte, l'Istruzione è altrettanto netta nel ribadire che i fedeli che chiedono la celebrazione della messa in latino non devono sostenere o appartenere a gruppi che si dicono contrari alla validità o legittimità del nuovo rito promulgato da Paolo VI. 
Infine, l'Istruzione risolve due questioni che non pochi ostacoli hanno finora creato alla diffusione della messa antica, circa il numero dei fedeli che richiedono la celebrazione e la presenza del “sacerdote idoneo”. 
Ma tutto questo, secondo l'Istruzione, è solo il punto di partenza: la Chiesa vuole che la sua liturgia sia la più degna possibile e per questo si chiede ai vescovi di offrire al clero la possibilità di imparare a celebrare la messa antica. Ciò vale anche per i Seminari, dove si dovrà provvedere alla formazione conveniente dei futuri sacerdoti. E se dovessero mancare i sacerdoti in grado d’insegnare come si celebra nell'antico rito, l'Istruzione dispone che i vescovi possono chiedere la collaborazione dei sacerdoti degli Istituti eretti dalla Commissione Ecclesia Dei, sia per la celebrazione, sia per l'insegnamento.
Il senso dell’Istruzione è chiaro: favorire la maggiore diffusione del rito antico, rimuovendo gli ostacoli che sinora sono stati frapposti: “Non poche volte – ha detto il Papa lo scorso 6 maggio al IX Congresso Internazionale di Liturgia – si contrappone in modo maldestro tradizione e progresso. In realtà, i due concetti si integrano: la tradizione è una realtà viva, include perciò in se stessa il principio dello sviluppo, del progresso. Come a dire che il fiume della tradizione porta in sé anche la sua sorgente e tende verso la foce”.

tratto da "La Gazzetta del Mezzogiorno" dell'8.6.2011