mercoledì 27 luglio 2011

Del canto liturgico, ovvero musica Dei o musica C.E.I.?

di Giannicola D'Amico

Questo Blog ha ospitato il 6 e il 14 luglio due articoli, rispettivamente di Michele Smargiassi e Marcello Filotei, recentemente pubblicati da Repubblica e Osservatore Romano sulla questione della musica liturgica, che hanno rinfocolato brevemente una piccola polemica attorno a questo argomento.
A coronamento, la Redazione ha offerto ai lettori uno stralcio della Lettera che il S. Padre ha indirizzato al Pontificio Istituto di Musica Sacra per il centenario di fondazione, nel maggio scorso.
Mi sembra opportuna dunque qualche riflessione, data la generale confusione che regna nel campo, nonostante le indicazioni del Magistero e i suggerimenti che Joseph Ratzinger, anche da Papa, continua costantemente ad offrire.  
Andrò per ordine, iniziando dall’articolo pubblicato da Repubblica il 16 giugno scorso.
Che il quotidiano principe dell’area progressista della stampa italiana si sia occupato di tale argomento, è già una notizia: i media si sono accorti di un problema che al mondo laico, in realtà, poco importa o importerebbe, ovvero che la musica ascoltata nelle chiese italiane a servizio del culto è – perlopiù – indecente.
La prima parte dell’articolo compie una condivisibile disamina della paradossale situazione in materia (con l’occhio di divertita superiorità di certa cultura laicista tanto radical-chic e non certo con i sentimenti di chi è costretto a sopportarsi in casa tali nefandezze da decenni, unicamente pro bono pacis), e mette in fila alcuni dei casi più ridicoli, additando giustamente gli scempi più evidenti consumati non solo a livello di musiche, ma anche – e soprattutto – di testi, seppure con qualche inesattezza inerente il fatto che il catalano mons. Miserachs-Grau è ancora (e felicemente) il Preside del Pont. Ist. di Musica Sacra e che la Chiesa francese abbia saputo metter freno alle sconcezze musicali negli ultimi anni.
In verità le porcherie additate sono soltanto un cucchiaio in un mare magnum non contenibile nella brevità di un pezzo giornalistico, se non piuttosto in un catalogo al cui confronto quello di Leporello, nel Don Giovanni di Mozart, è una semplice giaculatoria!
La seconda parte dell’articolo fa luogo ad una intervista a don Antonio Parisi, responsabile della musica liturgica in seno alla CEI per lunghi decenni, di cui viene elogiata l’opera di correzione della situazione sopradetta.
È proprio in questa parte dell’articolo che il buon Smargiassi, forse profano alla materia, infilza alcuni svarioni.
La CEI avrebbe tentato di arginare questo stato di cose, soprattutto mediante l’ingrato compito assegnato a don Parisi di collazionare il fatidico Repertorio Nazionale, pubblicato un paio d’anni fa, sulla cui inefficacia lo stesso intervistato sostanzialmente conviene e sulla cui totale inutilità mi sono espresso già più volte, in numerose sedi ed in tempi non sospetti, visto che questa è la terza esperienza in tal senso negli ultimi trent’anni che, guarda caso, coincidono con la fase di maggiore confusione in questa materia.
L’articolo cita pure il precedente storico di inutilità del Regolamento emanato dalla S. Congregazione dei Riti nel 1884: io vi aggiungo anche il successivo del 1894 e una serie di repertori che, dall’Ottocento ceciliano tedesco in poi, avevano tentato di arginare situazioni simili alla presente, ma forse non così farsesche (o tragiche, a secondo dei punti di vista), senza esito.
Riuscirà a varare una riforma efficace ai primi del XX sec. S. Pio X i cui provvedimenti e provvidenze, più che su regolamenti o repertori, si basarono sui decenni di fervido lavoro paleografico e storico sul canto gregoriano compiuto dai Benedettini di Solesmes, su un secolo di diffusa sensibilità musicale ceciliana, sulle corrette acquisizioni del Movimento liturgico e sull’ormai avviata  reimpostazione degli studi filosofico-teologici e giuridico-canonistici del pontificato di Leone XIII.
In una parola: lo sterminato numero di provvedimenti sartiani in materia di musica e liturgia, trovò un terreno fertile preparato dal fermento culturale, ideale ed operativo che si era diffuso, grazie ad un movimento di pensiero su larga scala e non tanto in virtù di più o meno indovinate operazioni editoriali.
Nell’articolo don Parisi dice – giustamente – che non basta stampare un repertorio per ottenere qualcosa (ma allora mi chiedo perché è stato nuovamente pubblicato? Ci saranno ragioni a noi mortali oscure?) bensì è necessario formare i preti, i catechisti, gli animatori (brutta parola, che riferisco).
Attualmente  è vieppiù urgente la formazione perché, venuta meno l’antica osservanza rubricistica delle norme liturgiche, nessuna civiltà diffusa di rispetto per la natura stessa della Liturgia vi ha preso il posto, lasciando spazio a tutte le nefandezze in questione: per questo oggi un qualsiasi repertorio, rigido o liberal che sia, resterà frustrato dal sessantottino “Vietato vietare” che si è stabilmente insinuato – diciamocelo chiaramente – in molti strati del popolo cristiano, da cui provengono i c.d. operatori liturgici (sintagma abominevole, ma ormai usatissimo), e anche in molto clero.
A tal fine cosa ha fatto la CEI negli anni scorsi? Invece di vigilare sulla formazione nei seminari (ove con l’ultima Ratio studiorum del 2006 è stato addirittura sdoganato un quartum genus di canto liturgico, ovvero quello c.d. “giovanile”, mai previsto dal Magistero fino alla Sacrosanctum Concilium e all’Istr. Musicam Sacram tuttora in vigore), o sulla reale consistenza degli studi presso gli Istituti diocesani di musica sacra, ha istituito i corsi del Co.Per.Li.M. cui hanno collaborato pressochè tutti quei nomi che il buon don Parisi addita quasi a futuri “salvatori della patria”: dal gesuita p. Costa, a Sequeri, Frisina, al defunto p. Rossi, a Domenico Machetta sdb, al grande musicologo mons. Felice Rainoldi, tutte stars del variegato firmamento dei musicisti che si sono dedicati alla liturgia negli ultimi 50 anni, ai quali però non si fa torto alcuno dicendo che hanno militato per una visione molto “assemblearistica” e alquanto sganciata dalla tradizione gregoriana e polifonica della musica liturgica nel post-Concilio.
Tali corsi, frequentati da una parte infinitesimale dei giovani che sono impegnati nelle parrocchie italiane, non hanno sortito gli effetti sperati, forse pure per l’impostazione data agli studi, e in ogni caso non hanno inciso affatto sul clero cui sono affidate le realtà parrocchiali.
Il problema resta, come ha implicitamente sottolineato la recente Istruzione Universae Ecclesiae, il tipo di studi affrontati durante gli anni del seminario: se si avrà il coraggio di riprendere le indicazioni del Magistero e formare i seminaristi su una soda base di canto gregoriano e di seria musicologia liturgica, profondamente innervata su teologia e storia (non ideologizzata!) della liturgia, si potrà avere un primo argine naturale ad ogni deformazione liturgica di stampo “creativistico” e ad improvvide scelte musicali, risiedente nel patrimonio formativo dei futuri preti, che potranno meglio guidare, in virtù di quel bagaglio, i loro collaboratori a rispettare la Liturgia, quale culto pubblico in cui Verità e Bellezza possano convivere nuovamente.
Vorrei aprire una parentesi  sull’intervento nell’articolo in questione, di mons. De Gregorio, attuale consulente della CEI, già applaudito direttore del conservatorio statale di S. Pietro a Majella: non sembri al lettore gratuita polemica, ma pare alquanto strano che un sacerdote (cattolico) possa esprimersi oggi in quei termini, circa la Messa beat!
Dire  che essa “…..fu una sana apertura, ed era di qualità, il guaio come sempre sono gli epigoni ….” dopo quarant’anni di sfacelo, innescato dal tacito (?) avallo dato dalla gerarchia a simili sconcezze negli anni della rivoluzione sessantottina, anche in campo liturgico, può significare soltanto che mons. De Gregorio, il quale pur ben ricorda le avventurose circostanze contingenti che spinsero alcuni parroci nell’immediato, ad ammettere tali nuove forme a servizio della liturgia, e non dovrebbe certo ignorare il Magistero in virtù del suo ufficio ecclesiastico, da musicista forse dimentica la polemica sorta attorno al meraviglioso “Stabat Mater” di Rossini (ben oltre 150 anni fa), ovvero circa quella musica che, seppur esteticamente ammirevole, è inadatta al rito, per ragioni su cui non mi dilungo, trattandosi nella fattispecie della Messa beat.
Con l’aggravante che qui non si tratta nemmeno del sommo Rossini, ma di un autore noto al pubblico dei cinematografi Anni Sessanta e Settanta, più per colonne sonore di qualche western all’italiana e di filmetti alquanto pruriginosi, sui cui titoli taccio per non suscitare facili ilarità.
Ci augureremmo sinceramente che mons. De Gregorio non si limitasse a difendere la Tradizione della Chiesa solo indossando pizzi e merletti per le cerimonie di liquefazione del venerato sangue di S. Gennaro, ma da prete e da musicista si adoperasse per un ripristino di musica seria nelle chiese italiane, visto che il suo predecessore don Parisi non vi è affatto riuscito.
E che ora quest’ultimo dica che i canti sono cosa sacra, e tutt’uno con l’azione liturgica (e non sbaglia affatto, finalmente) sembra veramente il tentativo di accreditarsi – in zona Cesarini – con una tardiva orazione de domo sua …… ad Pontificem!
Non dimentichiamo però che fino a qualche tempo fa di quel “tutt’uno” don Parisi aveva una strana concezione, se al Congresso Eucaristico di Bari nel maggio 2005 - di cui egli fu magna pars – venne eseguita, preceduta da gran battage pubblicitario e seguita da un peana di approvazioni alquanto irridenti la sacra Liturgia, durante la celebrazione presieduta dal card. Ruini, la Misa Tango di Luis Bacalov.
Musica anch’essa di valore, ma assolutamente ed indubitabilmente inadeguata al rito, perché di chiara impostazione profana, nella composizione e nella esecuzione: fu come sancire ufficialmente quel processo di penosa secolarizzazione della Liturgia cattolica, e con essa della musica liturgica, che Paolo VI presentì già all’indomani della riforma liturgica e contro il quale mise in guardia, inascoltato, anche ripetutamente.
Joseph Ratzinger però, quando era stato organizzato tale “evento celebrativo” (terminologia urticante ma che prendo a prestito proprio dai programmi del Co.Per.Li.M……) non era ancora sul soglio di Pietro.
Un leggenda fiorita su S. Pio X vuole che papa Sarto, nella mania montante del tango ad inizi Novecento, abbia sconsigliato il nuovo ballo – reputato immorale – indicando la “furlana” che si ballava nelle sue campagne venete, come danza più decente.
Non è che fra qualche mese ad Ancona, don Parisi ci ammannisce una allegra Messa Jodler, per testificare l’aderenza sua e della CEI al Magistero di Papa Benedetto?
Speriamo comunque che non attui la promessa (o minaccia?) di un nuovo repertorio che la CEI avrebbe commissionato ai sopracitati autori, tutti ormai – a parte P. Giovanni M. Rossi, da tempo nella pace dei Santi - ben oltre …. l’età sinodale.
Ma, credetemi, non è affatto questione puramente anagrafica.
Passo a dire due parole sul breve pezzo di Marcello Filotei.
L’articolo dell’Osservatore Romano è quasi più inquietante, considerando che si tratta dell’organo ufficiale della S. Sede e non del foglietto di una qualunque parrocchia di periferia.
In un irenistico invito a non litigare, che pure è meritevole di plauso, non vi è un accenno ad un criterio certo e fondante per scegliere la musica per la liturgia, ovvero il Magistero della Chiesa, che sovrabbonda di indicazioni, argomenti, direttive (perlopiù ultimamente inascoltate) dall’alto Medioevo fino al Beato Giovanni Paolo II.
Senza contare i suggerimenti di Benedetto XVI.
Invece: una serie di possibilismi e di argomentazioni ancor più relativistiche!
Vi è addirittura una inversione nella tassonomia magisteriale: Filotei arriva a concedere – bontà sua – la compresenza del canto gregoriano con le nuove forme musicali, quasi apparentemente ignorando le pur recenti Sacrosanctum Concilium e Musicam Sacram, nonché il Chirografo di Giovanni Paolo II del 2003, e sottacendo che l’attuale situazione confusionale non era certo nelle intenzioni dei Padri conciliari (e sul punto sfido chiunque a dire e dimostrare il contrario!).
L’articolo termina con un giudizio quasi lapidario sul cinquantennio musicale post-conciliare: per l’Autore non sarebbe ancora chiaro ai musicisti il percorso per arrivare alla composizione di musica moderna, innestata nella tradizione gregoriana.
A parte che il Chirografo del 2003, riprendendo la norma del Motu proprio Fra le sollecitudini di Pio X – di cui celebrava il centenario – lo spiega benissimo, basterebbe prendere qualche esempio compositivo di musicisti seri (cito soltanto Bartolucci e Miserachs, ma l’elenco è più lungo e comprende persone anagraficamente più giovani) che hanno lavorato per dare anche alla riforma liturgica composizioni degne ed adatte, onde ricredersi ampiamente di quanto sostiene il giornalista.
Il problema non è, come sembra sostenere l’articolo, il negare ideologicamente – da destra o da sinistra, e mi si passi la metafora parlamentare - valore artistico a certa musica, ma appurare sotto molteplici aspetti la sua legittima compatibilità con il culto cattolico.
Filotei, che pur ebbe la benemerita e lucida fermezza tempo addietro, di non accodarsi al qualunquistico coro di approvazioni per le composizioni di Giovanni Allevi, abbia il coraggio di smascherare i tanti, troppi “Giovanni Allevi” della musica liturgica, che infestano le chiese italiane e mortificano i nostri riti in maniera così desolante.
Qualcuno di essi è pure ospitato nel Repertorio Nazionale.

domenica 24 luglio 2011

Servi umilissimi della Parola di Dio

del card. Marc Ouellet,
Prefetto della Congregazione per i Vescovi

[…]
La sera del Giovedì santo, Cristo compie gesti che stabiliscono le disposizioni fondamentali della Nuova Alleanza. Ama fino al limite estremo dell'amore, abbassandosi a lavare i piedi dei suoi discepoli, simbolo del suo supremo abbassarsi dell'indomani; istituisce un nuovo rito pasquale in memoria della sua passione, della sua morte e della sua risurrezione; e consacra i suoi apostoli sacerdoti della Nuova Alleanza: «Fate questo in memoria di me» (Luca, 22, 19).
Le stesse parole e i gesti con cui Cristo si consacra, sono quelle che anche consacrano gli apostoli nella verità del suo amore trinitario (cfr. Giovanni, 17, 17). Il fondamento del sacerdozio è dunque l'istituzione della santa Eucaristia in quanto memoriale del mistero pasquale. Questo «memoriale» ricapitola, nel senso biblico forte di presenza dei mirabilia Dei, la storia della prima alleanza e porta al suo compimento l'alleanza nuova ed eterna nel sangue del Crocifisso-Risorto. La Parola di Dio raggiunge allora l'apogeo della sua potenza creatrice e redentrice, coincidendo con il dono supremo, escatologico, di Gesù. Essa fa avvenire il Regno dell'Amore trinitario nel mondo mediante la risurrezione di Cristo e la nascita della Chiesa.
Nel suo ultimo libro su Gesù di Nazaret, Benedetto XVI ha dato un'interpretazione teologica geniale dell'ultima cena di Gesù con i suoi discepoli, mostrando come si riconciliano la prospettiva giovannea e quella sinottica che divergono nella cronologia degli eventi (Gesù di Nazaret. Dall'ingresso a Gerusalemme fino alla risurrezione, Libreria Editrice Vaticana, 2011, pp. 130-139). I sinottici parlano di cena pasquale, Giovanni no. Chi ha ragione? Entrambi, scrive il Papa dottore, poiché Giovanni segue la sequenza dei fatti secondo la quale Gesù, l'Agnello di Dio, doveva essere immolato alla vigilia del sabbat, quando venivano immolati gli agnelli. I sinottici parlano di cena pasquale poiché, dopo la risurrezione, si è compreso che l'ultima cena di Gesù inaugurava il rito che avrebbe fatto memoria della «sua» pasqua. In quanto tale, essa non era la continuità della pasqua ebraica, ma l'inaugurazione di un nuovo rito, di una nuova alleanza e dunque di un nuovo culto sacerdotale (Ibidem, p. 138. «Una cosa è evidente nell'intera tradizione: l'essenziale di questa cena di congedo non è stata l'antica Pasqua, ma la novità che Gesù ha realizzato in questo contesto. Anche se questo convivio di Gesù con i Dodici non è stata una cena pasquale secondo le prescrizioni rituali del giudaismo, in retrospettiva si è resa evidente la connessione interiore dell'insieme con la morte e risurrezione di Gesù: era la Pasqua di Gesù. E in questo senso Egli ha celebrato la Pasqua e non l'ha celebrata: i riti antichi non potevano essere praticati; quando venne il loro momento, Gesù era già morto. Ma Egli aveva donato se stesso e così aveva celebrato con essi veramente la Pasqua. In questo modo l'antico non era stato negato, ma solo così portato al suo senso pieno»).
La lettera agli Ebrei sviluppa a fondo questa nuova prospettiva nel suo insegnamento su Cristo sommo sacerdote di un nuovo sacerdozio: «Poiché è impossibile eliminare i peccati con il sangue di tori e di capri. Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrifico né offerta, un corpo invece mi hai preparato (...) Ecco io vengo per fare la tua volontà» (Ebrei, 10, 4-5). Prendendo il pane e pronunciando la benedizione, Gesù dice: «Questo è il mio corpo, che è per voi». Poi, alla fine della cena prende il calice e dice: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». (1 Corinzi, 11, 23-26).
Queste parole di Gesù operano ciò che significano. Trasformano il pane e il vino nel suo corpo e nel suo sangue. È la fede della Chiesa conservata fin dalle origini, nonostante le ricorrenti negazioni e le riduttive interpretazioni. «Fate questo in memoria di me». La Chiesa ha compreso che il vescovo o il sacerdote che pronunciano questa parole agiscono in persona Christi. Cosa vuol dire in fondo questa misteriosa espressione in persona Christi?
Occorre scartare qui un certo numero di interpretazioni carenti. Non basta dire, per esempio, che la mera obbedienza all'ordine di Cristo opera miracolosamente la transustanziazione; non basta neppure dire che queste parole pronunciate dal sacerdote realizzano ciò che dicono semplicemente perché lo Spirito Santo invocato agisce sulle oblate; dobbiamo arrivare a dire che queste parole sono uniche ed escatologiche. Sono pronunciate nell'unità dalle tre Persone divine, anche se sono pronunciate sacramentalmente dal Verbo incarnato. La liturgia del Giovedì santo ci ricorda inoltre che sono sempre pronunciate «oggi», ossia come se fosse per la prima e unica volta. Ogni volta che un ministro ordinato pronuncia queste parole sacramentali, Cristo ne conserva l'attualità trascendente nella potenza dello Spirito Santo che le ha glorificate una volta per tutte mediante la sua risurrezione dai morti.
In altri termini, è sempre Cristo l'autore e il soggetto attuale di queste parole che significano e compiono il suo dono escatologico all'umanità. Sono parole escatologiche poste sulla nostra bocca di ministri storici della Nuova Alleanza dallo Spirito Santo che fa del Signore risorto e del suo ministro un solo soggetto sacramentale.
In questa luce riflettiamo attentamente e comprendiamo che non siamo noi ad avere il potere di consacrare la santa Eucaristia. È la Parola stessa di Dio ad agire e a renderci strumenti per la sua azione. La Parola di Dio è viva ed efficace. È creatrice e ricreatrice. Noi ne siamo i servi umilissimi.
A pensarci bene, non c'è in fondo che una sola Eucaristia, una sola offerta di Cristo nella sua Pasqua. Ogni Eucaristia associa il celebrante e l'assemblea all'unico sacrificio escatologico di Cristo che vale per tutta l'umanità di ogni tempo e i cui frutti raggiungono in modo visibile e sacramentale l'umanità intera attraverso la mediazione della Chiesa, sacramento di salvezza. In ogni Eucaristia che noi celebriamo, uniti al nostro presbiterio e al popolo di Dio, è il sacerdozio di Cristo nel suo mistero pasquale che compie la sua opera di glorificazione di Dio e di santificazione del mondo.

[L'Osservatore Romano 23 luglio 2011]

martedì 19 luglio 2011

Il Santo Padre Benedetto XVI sulla musica sacra


[...] Per cogliere chiaramente l’identità e la missione del Pontificio Istituto di Musica Sacra, occorre ricordare che il Papa san Pio X lo fondò otto anni dopo aver emanato il Motu proprio Tra le sollecitudini, del 22 novembre 1903, col quale operò una profonda riforma nel campo della musica sacra, rifacendosi alla grande tradizione della Chiesa contro gli influssi esercitati dalla musica profana, specie operistica. Tale intervento magisteriale aveva bisogno, per la sua attuazione nella Chiesa universale, di un centro di studio e di insegnamento che potesse trasmettere in modo fedele e qualificato le linee indicate dal Sommo Pontefice, secondo l’autentica e gloriosa tradizione risalente a san Gregorio Magno. Nell’arco degli ultimi cento anni, codesta Istituzione ha pertanto assimilato, elaborato e trasmesso i contenuti dottrinali e pastorali dei Documenti pontifici, come pure del Concilio Vaticano II, concernenti la musica sacra, affinché possano illuminare e guidare l’opera dei compositori, dei maestri di cappella, dei liturgisti, dei musicisti e di tutti i formatori in questo campo.
Un aspetto fondamentale, a me particolarmente caro, desidero mettere in rilievo a tale proposito: come, cioè, da san Pio X fino ad oggi si riscontri, pur nella naturale evoluzione, la sostanziale continuità del Magistero sulla musica sacra nella Liturgia. In particolare, i Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, alla luce della Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium, hanno voluto ribadire il fine della musica sacra, cioè "la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli" (n. 112), e i criteri fondamentali della tradizione, che mi limito a richiamare: il senso della preghiera, della dignità e della bellezza; la piena aderenza ai testi e ai gesti liturgici; il coinvolgimento dell’assemblea e, quindi, il legittimo adattamento alla cultura locale, conservando, al tempo stesso, l’universalità del linguaggio; il primato del canto gregoriano, quale supremo modello di musica sacra, e la sapiente valorizzazione delle altre forme espressive, che fanno parte del patrimonio storico-liturgico della Chiesa, specialmente, ma non solo, la polifonia; l’importanza della schola cantorum, in particolare nelle chiese cattedrali. Sono criteri importanti, da considerare attentamente anche oggi. A volte, infatti, tali elementi, che si ritrovano nella Sacrosanctum Concilium, quali, appunto, il valore del grande patrimonio ecclesiale della musica sacra o l’universalità che è caratteristica del canto gregoriano, sono stati ritenuti espressione di una concezione rispondente ad un passato da superare e da trascurare, perché limitativo della libertà e della creatività del singolo e delle comunità. Ma dobbiamo sempre chiederci nuovamente: chi è l’autentico soggetto della Liturgia? La risposta è semplice: la Chiesa. Non è il singolo o il gruppo che celebra la Liturgia, ma essa è primariamente azione di Dio attraverso la Chiesa, che ha la sua storia, la sua ricca tradizione e la sua creatività. La Liturgia, e di conseguenza la musica sacra, "vive di un corretto e costante rapporto tra sana traditio e legitima progressio", tenendo sempre ben presente che questi due concetti - che i Padri conciliari chiaramente sottolineavano - si integrano a vicenda perché "la tradizione è una realtà viva, include perciò in se stessa il principio dello sviluppo, del progresso".
[…]

lettera del Santo Padre in occasione del 100° anniversario di fondazione del Pontificio Istituto di Musica Sacra
13 maggio 2011

giovedì 14 luglio 2011

Se la musica liturgica diventa un pretesto per litigare

di Marcello Filotei  

È paradossale che proprio la liturgia, luogo principe dell’armonia e dell’incontro, sia a volte concepito come una sorta di campo di battaglia da quanti — ognuno con le proprie rispettabili ragioni — vorrebbero rivedere le modalità di utilizzo della musica e del canto durante le celebrazioni. L’argomento è di particolare interesse, tanto che il quotidiano «la Repubblica» gli dedica tre pagine nel numero del 16 giugno, rilevando incongruenze nei testi di alcuni canti moderni e lamentando un basso livello nella qualità dei canti liturgici in genere.  

È indubbio che in molti casi il tasso «artistico» dei brani musicali proposti nelle chiese è discutibile, ma appare semplicistico — se non strumentale — contrapporre questa produzione al corpus gregoriano. L’enorme patrimonio che giunge dai secoli passati, infatti, ispira e si affianca alle nuove proposte. La questione, semmai, è come garantire che i canti di oggi siano di livello artistico degno del ruolo che devono sostenere nella liturgia, un ruolo che non è solo decorativo.  

Cantare il gregoriano non è vietato ed è anzi auspicabile e possibile, anche in forma semplice. Ma chi si lamenta perché le antiche melodie non sono abbastanza valorizzate, non fa che certificare un problema culturale: nella liturgia spesso, purtroppo, il livello della musica è paragonabile a quello, molto basso, dei brani trasmessi in radio e in televisione, almeno in Italia, come rileva tra l’altro sul giornale romano il consulente per la musica liturgica della Conferenza episcopale italiana, monsignor Vincenzo De Gregorio. La qualità dei canti che si ascoltano in chiesa è, in genere, lo specchio di una situazione di degrado culturale più ampio. Tale argomento non può però essere utilizzato per sostenere che tutto quello che è venuto dopo il concilio Vaticano II sia da rigettare in blocco.

Spazio, dunque, a tutte le opinioni, ma non alle strumentalizzazioni di quanti, da una parte e dall’altra, brandiscono come clave le proprie visioni della musica liturgica. Forse non è ancora chiaro il percorso per arrivare alla composizione di inni moderni, rispettosi della tradizione e di alto livello artistico e che convivano con la giusta valorizzazione del gregoriano. Per il momento però si può evitare di negare dignità artistica a chi sostiene tesi diverse dalle proprie. Almeno per riguardo alla liturgia. 

tratto da L'Osservatore Romano del 17 giugno 2011 

venerdì 8 luglio 2011

In memoria dell'Abate Caronti

di Vito Abbruzzi 


Quarantacinque anni fa, esattamente il 22 luglio 1966, alle 2.40 del mattino, dopo una lenta agonia, cessò di vivere su questa terra l’Abate Emanuele Caronti. Si spense  nell’Abbazia di Santa Maria della Scala in Noci (BA) – ove è sepolto –, che aveva fondato trentasei anni prima (nel 1930), quando era abate del monastero di San Giovanni Evangelista in Parma. 

Scrive Padre Giovanni Lunardi nella sua biografia sull’Abate Caronti: «Era finita la sua liturgia quaggiù; poteva iniziare, nella Liturgia Celeste, il canto eterno di gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo» (G. Lunardi, Uomo di Dio e della Chiesa. Ab. Emanuele Caronti O.S.B., ed. La Scala, Noci 1982, p. 229). Come sempre accade, ci si accorge del valore di una persona quando scompare alla nostra vista, per trapiantarsi nel nostro cuore. Così è stato – ed è – per Padre Caronti! Il Papa Paolo VI, che lo stimava tantissimo (si dice che lo volesse creare cardinale, ma che egli avesse fatto sapere al Santo Padre di lasciar perdere), pronunciò a Subiaco (culla dell’Ordine benedettino; Casa Madre della Congregazione Sublacense; città natale di Don Emanuele), nel 1971, un discorso nel quale encomiò la personalità dell’Abate Caronti. E lo fece con parole che vogliamo restino nella memoria di quanti lo stimarono in vita e continuano a stimarlo tuttora per il valore dei suoi scritti e della sua tenace opera in favore del “rinnovamento liturgico” in Italia, e non solo: «Singolare e radiosa figura di monaco sublacense… maestro tra i primi della rinascita liturgica in Italia, e monaco veramente saggio ed esemplare nell’armonica fusione della vita interiore con l’azione esteriore, sempre fedele alla formula incomparabilmente sintetica e feconda del programma benedettino Ora et Labora» (L’Osservatore Romano del 10.9.1971). All’Abate Caronti va riconosciuto, dunque, il merito della “rinascita liturgica in Italia”: rinascita che operò seguendo in toto le orme impresse da Dom Prosper Guèranger, primo abate del monastero di Solesmes in Francia. Don Emanuele fu, infatti, entusiasta, sin dagli anni del suo studentato a Roma presso il “Pontificio Ateneo S. Anselmo”, del metodo solesmense per il canto gregoriano. Metodo col quale vorrà, una volta divenuto abate, che cantassero i suoi monaci. E così è stato – e ancora è – ascoltando quel che sopravvive dell’immenso repertorio di canto gregoriano eseguito dai monaci di Noci. Ma il merito maggiore è stato quello di aver fondato, nel lontano 1914 (in un momento storico-politico assai travagliato per la nostra giovane Nazione e per l’Europa intera), la Rivista Liturgica, a Praglia (Padova), dove era monaco professo. E lo fece servendosi della preziosa collaborazione di Don Ildefonso Schuster (Beato), dapprima monaco e dopo abate di San Paolo Fuori le Mura in Roma (in seguito cardinale arcivescovo di Milano). Ancora oggi la Rivista Liturgica gode di una certa fortuna, visto che continua ad essere pubblicata. Non così l’altra rivista fondata dallo stesso Caronti nel 1923, quando era abate a Parma: il Bollettino Liturgico. «Esso non voleva essere un duplicato o un contraltare nei confronti della Rivista Liturgica, ma, come il direttore, l’abate Caronti, sottolineava nel primo numero, mirava a “volgarizzare la preghiera della Chiesa in una maniera piana, semplice, accessibile ad ogni classe di persone” con particolare riferimento alle esigenze delle parrocchie, “perché il fulcro della vita liturgica è la parrocchia, esso è diretto innanzi tutto alla formazione ed educazione del senso parrocchiale» (E. Caronti, Editoriale, in Bollettino Liturgico 1, 1923, p. 3). 
Purtroppo, il Bollettino Liturgico, che usciva a cadenza mensile, smise di essere pubblicato a metà degli anni Trenta del secolo scorso, quasi in coincidenza della elezione ad Abate Generale della Congregazione Sublacense di Padre Caronti. Sicuramente questo nuovo ministero, che costringeva l’Abate a spostamenti continui per visitare in tutto il mondo i monasteri sotto la sua giurisdizione, unito agli altri incarichi affidatigli dalla Santa Sede (Consultore presso il Sant’Uffizio e Visitatore Apostolico presso varie congregazioni religiose) fu la causa della fine del Bollettino Liturgico, che sarebbe auspicabile che altri lo riprendessero nel nome e, quel che più conta, nella sostanza. 

Concludo accennando alla Mediator Dei, capolavoro di teologia liturgica di Pio XII. E lo faccio non tanto per dar lustro al Caronti, “che sembra aver collaborato alla sua stesura” (come testimonia Padre Lunardi, alludendo ad una conversazione avuta nel 1948 con Padre Emanuele), quanto alla strenua difesa che ne fece questi, polemizzando apertamente con la dottrina del “mistero” di Odo Casel. Dice il Lunardi: «Nello stesso colloquio [Padre Caronti] sosteneva […] che la “Mediator Dei” condannava implicitamente la dottrina di Odo Casel» (Lunardi, Uomo di Dio e della Chiesa, cit., p. 167), ravvisando nell’enciclica di Pio XII “il punto di arrivo invalicabile, la voce definitiva della Chiesa” (ivi). Sono aspetti, questi, che meritano di essere adeguatamente approfonditi. È quanto mi prefiggo di fare nel prossimo futuro. 

mercoledì 6 luglio 2011

La musica di Dio

di Michele Smargiassi

È ora di mettere al bando le «armi di distruzione di messa». Nella Chiesa italiana, spesso divisa, c'è un argomento che mette d'accordo tutti, un po' più scandalizzati i tradizionalisti, un po' più ironici i progressisti: le canzoncine devote che si ascoltano ogni domenica in tutte le parrocchie della penisola tra l' introibo e il missa est sono quasi sempre desolanti, banali, lagnose o bizzarre, talora ridicole e a volte perfino sbadatamente eretiche. Tanto che nessuno giurerebbe che lo strepitoso rap che la regista Alice Rohrwacher, appena acclamata a Cannes, fa cantare ai catecumeni nel suo film Corpo celeste («Mi sintonizzo con Dio / è la frequenza giusta / mi sintonizzo proprio io / e lo faccio apposta») sia del tutto inventato, e non magari ascoltato veramente in qualche oratorio di periferia.  Non si può dire che gli allarmi non siano risuonati,è il caso di dire, molto in alto. Già venticinque anni fa l'allora cardinale Ratzinger fu spietato con la playlist degli altari: «Una Chiesa che si riduca a fare solo della musica "corrente" cade nell'inetto e diviene essa stessa inetta». Oggi, da pontefice amante della musica, insiste sul concetto in un libro, Lodate Dio con arte, applaudito dal maestro Riccardo Muti, anche lui esasperato da «quelle quattro strimpellate di chitarre su testi inutili e insulsi che si ascoltano nelle chiese, un vero insulto». La questione sta diventando spinosa, anzi esplosiva, perché da anni è sullo stile delle celebrazioni che si gioca l'aspra contesa tra conciliaristi e restauratori, con i secondi al facile attacco di quella «eresia dell'informe», come la definisce lo scrittore tedesco Martin Mosebach, che corrode la liturgia a colpi di «canti sguaiati». «A che serve avere belle chiese se la musica è penosa?», insorse dieci anni fa l'allora presidente del Pontificio istituto di musica sacra, il catalano Valentino Miserachs Grau.  La Chiesa francese ha risolto la questione da tempo, con piglio gallicano, stilando una lista rigorosa e vincolante di canti ammessi, una sorta di canatur, versione canora dell'imprimatur.  Invece in Italia, sede del cattolicesimo ma anche patria del bel canto, l'anarchia del parrocchia'n'roll sembra ingovernabile.  Ogni diocesi dovrebbe possedere un Ufficio di musica sacra tenuto a vigilare sulla serietà del sacro pop, ma di fatto quel che finisce per risuonare tra banchi e navate è quasi sempre frutto della creatività improvvisata di qualche catechista munito di iPod, o di certi sacerdoti chitarristi. La scena, un po' dovunque, dev'essere quella frettolosa e distratta descritta dal bolognese don Riccardo Pane nel suo sconsolato pamphlet Liturgia creativa: «Prima della messa mi piomba immancabilmente in sacrestia qualcuno a chiedere: "Don, che cosa cantiamo?", e il mio ritornello è inesorabilmente "vatti a leggere le antifone e vedi se trovi un canto che ci azzecca"».  Il risultato è nelle orecchie di tutti. Reperibile a vagonate anche sui canali di YouTube, pure in versioni medley e remix. Motivetti che non ci azzeccano proprio, incongruità ( Signore scende la sera cantato alla messa delle 11 di mattina), cascami di musica di consumo, simil-Ramazzotti e para-Baglioni, esotismi world music con bonghi e maracas (come il cantatissimo Osanna-eh «africano») che sconcertano le vecchiette, azzardi stilistici estremi (c'è un Gloria hip-hop), perfino cover da grandi successi (allucinata la parafrasi del Pater sull'aria di The Sound of Silence di Simon).  La ribellione è nell'aria, un gruppo Facebook frequentato da sacerdoti ha stilato perfino la classifica dei canti più disastrosi: ha vinto con 374 nomination l' Alleluja delle lampadine, ribattezzato così perché di solito è accompagnato da gesti delle mani che sembrano mimare il lavoro di un elettricista. L'arcivescovo di Bologna Carlo Caffarra ha spuntato personalmentea matita rossa dai libretti parrocchiali i canti «che non devono più esserci», come Alleluja la nostra festa, visto che, semmai, la messa è la festa del Signore. Da più parti s'invocano il ripristino d'autorità del Gregoriano e la disciplina mono-strumentale dell'organo a canne, o almeno dell'armonium.  Sotto queste pressioni, un paio d'anni fa la Conferenza episcopale chiese al suo consulente don Antonio Parisi, esperto di musica sacra e compositore, di mettere ordine nello sconcertante frastuono. Povero don Antonio, si trovò di fronte un oceano di quindicimila canti, canzoni e canzoncine estratti da quarantacinque anni di raccolte nazionali e locali.  E c'era di tutto. Delle musiche abbiamo detto, ma i testi, i testi ancora peggio. Pieni di parole tronche, da poesiola delle elementari («Il nostro mal / sappi perdonar...»), banali, inappropriate, di orrori grammaticali («Te nel centro del mio cuor»), di espressioni rubatea qualche spot televisivo di banche («Tutto ruota intorno a Te»), quando non sono zeppi di ingenuità (definire Maria «l'irraggiungibile» non è incoraggiante per la partecipazione al rosario) e di veri e propri strafalcioni teologici, commessi sicuramente in buona fede, magari per far quadrare un verso: cantare «Tu che sei nell'universo» solo perché «nell'alto dei Cieli» non ci stava, più che riecheggiare una canzone di Mia Martini significa circoscrivere Dio dentro la sua Creazione, e non va proprio bene.  Un compito immane, defatigante, sconsolante, da cui don Parisi riuscì meritoriamente a far scaturire un Repertorio nazionale di canti per la liturgia che ne seleziona 384 decenti e adeguati, ma che ancora non fa testo: «Non si può procedere per imposizioni», spiega, «bisogna formare, formare persone nelle diocesi, nelle parrocchie, far studiare musica ai presbiteri, agli animatori, ai catechisti, il canto liturgico non è un optional, è un segno sacro».  Giusto non voler guastare l'entusiasmo degli animatori parrocchiali, volonterosi e incolpevoli.  Ma il punto è questo, che i canti durante la messa non sono un "accompagnamento", non sono gli "stacchetti" fra un responsorio e una lettura: fanno parte della liturgia, sono cosa sacra come le parole dell'Elevazione. Come è possibile che la stessa Chiesa che ripristina la messa in latino chiuda un occhio di fronte alla colonna sonora da X-Factor di quella in italiano? I conservatori hanno una spiegazione storica: la profanazione canora cominciò con «la deflagrazione nucleare» chiamata "Messa Beat". Chi la ricorda? Anno 1965, Concilio appena terminato, fibrillazione del rinnovamento, il maestro Marcello Giombini accantonò le colonne sonore degli spaghettiwestern e, ispirato, scrisse una messa musicale «per i giovani».  Davvero una bomba atomica.  Trasmissioni Rai, concerti, tournée internazionali, benedizione del gesuita padre Arrupe, 45 giri pubblicati dall'etichetta discografica delle Edizioni Paoline. Il torrente non si fermò più, proliferarono i «complessi» da scantinato di canonica, alcune band divennero famose, Angel and the Brains, The Bumpers, per non dire delle due formazioni parallele dei Focolarini, Gen Verde e Gen Rosso, le cui audiocassette infestano ancora gli oratori. Ma fu così che la Chiesa non perse l'onda del Sessantotto. E non fu affatto una sciagura, assicura monsignor Vincenzo De Gregorio, responsabile per la liturgia musicale della Cei: «Prima le messe erano o tutte recitate o tutte cantate, ma cantate solo dal coro, solo da ascoltare. La Messa Beat fu una sana apertura, ed era di qualità, il guaio come sempre sono gli epigoni. Anzi, il guaio è la cultura musicale inesistente degli italiani. In questo Paese ormai si canta solo a messa».  I tradizionalisti sbagliano.  Dare la colpa al Concilio è troppo facile, anche la Chiesa guardinga dell'Ottocento ebbe parecchi problemi con le hit parade da altar maggiore. Sentite come nel 1884 la Sacra congregazione dei riti elencò con disgusto quel che rimbombava tra le navate: «Polcke, valzer, mazurche, minuetti, rondò, scottisch, varsoviennes, quadriglie, galop, controdanze, e pezzi profani come inni nazionali, canzoni popolari, erotiche o buffe, romanze...». Il difetto della Chiesa postconciliare semmai fu trovarsi musicalmente impreparata alla sua stessa rivoluzione liturgica.  Con l'abbandono del latino, la Cei predispose il nuovo messale in italiano, ma trascurò il rinnovamento del repertorio canoro.  A disposizione c'erano solo un po' di litanie antiquate, Mira il tuo popolo, T'adoriam ostia divina. «Ai parroci non restò che prendere le canzonette del gruppo rock che faceva le prove in oratorio, o quelle dell'ultimo campeggio scout, e portarle sull'altare», sospira monsignor De Gregorio. Risultato: un'infantilizzazione drastica dei contenuti, degli stili, dei testi.  Eppure ci sono, nel grande mondo ecclesiale, talenti da utilizzare, compositori di qualità.  Don Parisi li cita con rispetto: don Marco Frisina, compositore apprezzato anche negli Usa, don Pierangelo Sequeri, autore del diffusissimo Symbolum 77, il gesuita Eugenio Costa, il camilliano Giovanni Maria Rossi, il salesiano Domenico Machetta... «Vedo il bicchiere mezzo pieno: sono passati solo cinquant'anni dalla riforma conciliare, è presto per tirare delle conclusioni». La Cei sta pensando di commissionare a loro un nuovo repertorio, finalmente di qualità. Nell'attesa, quando rintocca la campana della messa, viene ancora il sospetto che le parrocchie d'Italia, come patrono della musica, non invochino santa Cecilia, ma Sanremo.

da “La Repubblica” del 16 giugno 2011, pagina 47, sezione: R2 

lunedì 4 luglio 2011

AVVISO


Dalla prossima domenica, 

10 luglio e sino a settembre, 

la santa Messa 

nella forma straordinaria


a Lecce


sarà celebrata alle ore 11,00

presso la chiesa di San Matteo.