COSA DIVIDE LA CHIESA.
La riforma liturgica postconciliare tra abusi e teoremi, resistenze e indulti
1. Premessa
Da non pochi ecclesiastici non si vuol vedere la realtà in costante crescita, di gruppi di fedeli, soprattutto giovani, che promuovono l'attuazione del Motu Proprio Summorum Pontificum, per la corretta celebrazione della Messa sia in forma extraordinaria, sia in forma ordinaria. Ma poi si finisce per ammettere tale realtà, in quanto da taluni vescovi si sostiene che “la Messa in latino divide la Chiesa”. Pronti a invocare “i segni dei tempi”, non ci si chiede come mai tanti giovani ne siano attratti e quale sia la causa.
Il pensatore ebreo Heschel osserva: “E' consueto incolpare la scienza secolare e la filosofia antireligiosa dell'eclissi della religione nella società odierna, ma sarebbe più onesto incolpare la religione delle sue stesse sconfitte. La religione è declinata non perché è stata contestata, ma perché è divenuta priva di rilevanza, monotona, oppressiva e insipida”[1]. Un tale giudizio non può essere assolutizzato, ma deve far riflettere noi cristiani; per esempio, se dando priorità al sociale, abbiamo sanato la divisione prodottasi all'interno dell'io tra la sua fede e la realtà in cui vive; se abbiamo prima vagliato la cultura che ci circonda e poi trattenuto ciò che vale. Infatti, la religione è quello che l'uomo fa nella sua solitudine ma anche ciò in cui scopre la sua essenziale compagnia, l'esigenza di dire tu a Dio: “O Dio tu sei il mio Dio...così nel santuario ti ho cercato per contemplare la tua potenza e la tua gloria”(Sal 63, 2-9).
2. L'io e il culto
La liturgia oggi non stimola la nostalgia del Tu divino, non aiuta a far emergere un io così, perché è privata della Sua presenza che riempie di silenzio – i tabernacoli vengono tolti dal centro e messi all'angolo o addirittura fuori della chiesa – e quindi, a chi poter dire: “Al tuo nome e al tuo ricordo si volge tutto il nostro desiderio” (Is 26,8)? Il Desiderato delle genti non può essere trovato, perché non è più in chiesa. Poi, l'insistenza eccessiva sul “comunitario”, specialmente nelle celebrazioni dei sacramenti, ha oscurato il “personale”: così, il desiderio che spinge ogni uomo alla ricerca di Dio, non può sopravvivere, non si trasforma in domanda, cioè in preghiera.
“Se non vuoi avere paura, – dice sant'Agostino – metti alla prova il tuo io profondo. Non toccarne solo la superficie ma va in fondo al tuo essere e raggiungi gli angoli più reconditi del tuo cuore”[2]. Ma una gran parte di ciò che è più profondo nell'uomo rimane sepolto a causa dell'allontanamento da Dio: solo Cristo incarnato e risorto può svegliarlo, perché è permanentemente alla sua ricerca. Benedetto XVI spiega la ragione per cui Dio si è messo alla ricerca dell'uomo: “Egli viene incontro all'inquietudine del nostro cuore,all'inquietudine del nostro domandare e cercare”[3]. Per questo la liturgia deve mostrare la sua capacità di risvegliare l'io: se riesce a farlo, proverà la sua verità ed efficacia. Infatti, solo il divino, il sacro presente, Colui che è il senso ultimo delle cose, può salvare l'uomo, cioè preservarne e difenderne le dimensioni essenziali e il suo destino.
Non si può comprendere che cos'è l'io, al di fuori del cristianesimo. Perché Cristo corrisponde a ciò che io sono e quando lo incontro, specie nel mistero della liturgia comprendo ciò che manca: il Mistero, Uno che mi dice: “Io sono il Mistero che manca a ogni cosa che tu gusti, a ogni promessa che tu vivi. Qualunque cosa tu desideri,cerchi di raggiungere,io sono il Destino di tutto ciò che fai. Tu cerchi me in qualsiasi cosa”[4].
3. Nuovo movimento liturgico
L'io rinasce da un incontro così, e genera un'affinità con la persona incontrata e una compagnia con altri che l'hanno incontrata[5]: ecco come sta nascendo il nuovo movimento liturgico. Nessun potere può impedire totalmente il destarsi dell'incontro, ma cerca tuttavia di impedire che diventi storia[6]; non si vuole vedere la libertà: è la prova della mancanza di un'esperienza reale della fede, secondo ciò che dice sant'Ambrogio: “Ubi fides, ibi libertas”. Se c'è la libertà, che è il segno più prezioso e potente della fede, si può verificare che stiamo facendo un'esperienza di fede in grado di resistere a tutto. Ma la libertà è Dio stesso, quindi la libertà dell'uomo per essere vera e sana è dipendenza da Dio. Nel clima di “religione civile dell'autodeterminazione” da cui siamo circondati, bisogna annunciare la libertà come responsabilità e limite.
Accade anche oggi che il potere laico e talvolta anche ecclesiastico, non tolleri la religiosità vera, la vera devozione secondo san Francesco di Sales, perché la vede come un limite al suo possesso. La fede resta il gesto di libertà fondamentale e la preghiera è l'educazione costante alla libertà. Ecco l'importanza del tabernacolo, perché l'uomo impari ad aderire al Mistero da cui dipende. Così il Mistero diventa sperimentabile e noi lo visitiamo, perché con Gesù il Mistero è diventato “presenza affettivamente attraente”[7].Il Mistero presente si scopre in un incontro, come la persona amata. Egli è il Verbo Incarnato e il cardine della nostra salvezza (Caro salutis cardo)[8].Il fatto che permane è il segno della Sua verità: senza il continuo riaccadere dell'Avvenimento cristiano non c'è possibilità di una libertà e di una comunione reale.
4. I teoremi erronei
Se questa è la cosa più importante, è incredibile assistere all'indignazione di taluni liturgisti per il “parallelismo rituale”, instaurato dal Motu Proprio Summorum Pontificum e regolato dall'Istruzione Universae Ecclesiae, tra le due forme dell'unico rito romano, perché pericoloso per la comunione ecclesiale. Loro così ecumenici, non sanno che il rito bizantino nella chiesa ortodossa ha ben tre forme? Così altri riti orientali?A Toledo non si celebra, e non da ora, la forma ordinaria latina e quella extraordinaria del rito mozarabico? Alcuni ordini religiosi non avevano le loro specificità rituali, come i bizantini slavi hanno le proprie rispetto ai greci? E poi, non si sostiene a ogni pie' sospinto nella “chiesa postconciliare” che la varietà o pluriformità non nuoce all'unità? Perché, dunque, temere che i vescovi “perdano il controllo delle diocesi”? Se sono vescovi cattolici, basta che si mantengano uniti al Papa. La liturgia è celebrazione di Cristo e della Chiesa, non di una assemblea particolare. Nella Chiesa la “discontinuità” deriva non dalle due forme del rito romano, ma dalla creatività del tal prete o tal gruppo per cui si può assistere a liturgie frutto di tale impostazione.
Ma vanno in giro altre dottrine erronee:
a. il soggetto che celebra è l'assemblea.
In verità solo Cristo è il protagonista e il soggetto della Messa nella quale è presente; è lui ad associare a sé “il popolo di Dio gerarchicamente ordinato”, cioè la Chiesa cattolica, che vive anche nel raduno locale di due o tre persone che, dal termine latino celeber (che vuol dire 'frequentato') si chiama celebrazione; si usano anche i termini rito (dal greco αριθμός e dal sanscrito rtám 'ordine') per indicare l'azione sacra che si svolge secondo un ordine conforme a ciò che richiede la religione e cerimonia, che dal latino vuol dire 'culto'. Nella Messa il sacerdote agisce nella persona di Cristo capo del corpo che è la Chiesa. Il fatto che la Messa possa essere celebrata dal solo sacerdote corrisponde proprio a tale personificazione che culmina nell'offerta di sè: pochi o tanti che siamo, se non c'è l'offerta del mio corpo in sacrificio non v'è culto spirituale(cfr Rm 12,1). Sul Golgotha non erano rimasti solo Maria e Giovanni? E a Emmaus, non v'erano solo due discepoli? Si è arrivati a dire che la Messa senza popolo è un monstrum: ma, se ci trovassimo sotto persecuzione non dovrebbe il sacerdote celebrare da solo per non essere scoperto?E così i singoli fedeli? Sebbene la persecuzione sia lo stato ordinario della Chiesa, l'eccezione conferma la regola. Si è assolutizzata la Messa col popolo: ma, se popolo vuol dire una “massa di persone”, si salverebbero solo le messe domenicali, laddove fosse ancora alta la frequenza. Col presupposto del popolo, la messa si dovrebbe celebrare raramente, visto che alle messe feriali vi sono poche persone. Non si salverebbero nemmeno le comunità monastiche. Se la Chiesa è corpo mistico, vive anche in un solo fedele e in un solo sacerdote. Non è che per contrastare l'individualismo nella liturgia, si finisce per dimenticare il primato della persona sulla comunità? Quindi la Messa col popolo, non la si deve ritenere superiore a quella dove il popolo non c'è o vi fossero poche persone. La Costituzione liturgica stabilisce che qualsiasi messa ha una natura pubblica e sociale.[9] Paolo VI afferma che non si può “esaltare la messa cosiddetta «comunitaria» in modo da togliere importanza alla messa privata”.[10]
Infine, la verità e validità della celebrazione – termine che taluni vogliono applicare ai fedeli, secondo il pensiero protestante per il quale la mediazione sacerdotale è esercitata anche dal popolo – non dipende dall'accostarsi di tutti alla Comunione: anche oggi, come in antico,la Messa vede presenti “scomunicati”, penitenti e catecumeni che non possono fare la Comunione.
Dunque, il soggetto celebrante non è l'assemblea, ma il Signore.
b. la Chiesa prende forma nel rito celebrato.
Si vuol sostenere che fuori della liturgia la Chiesa non abbia forma e quasi non esista. Invece la Chiesa è unita al mistero di Cristo sempre presente con noi fino alla fine del mondo. La Chiesa si edifica nella celebrazione eucaristica, nel senso che cresce continuamente; questa “però, non è il punto d'avvio della comunione, che presuppone come esistente, per consolidarla e portarla a perfezione”;[11] perché “la liturgia non esaurisce tutta l'azione della Chiesa”.[12]
Dunque, la Chiesa non prende forma nel rito ma viene prima del medesimo.
c. la presenza di Cristo è mediata dall'assemblea riunita, dal sacerdote celebrante, dalla parola proclamata.
La presenza del Signore non è solo mediata, come spiega la Costituzione liturgica del Vaticano II: “Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche”: quindi, precede i mezzi dai quali è mediata seppure “in modo speciale” e attraverso cui si rende visibile “soprattutto sotto le specie eucaristiche”[13] del pane e del vino; questa presenza è definita come reale da Paolo VI, che si richiama al concilio di Trento, “non per esclusione,quasi che le altre non siano “reali”, ma per antonomasia,perché è anche corporale e sostanziale, e in forza di essa Cristo,Uomo-Dio,tutto intero si fa presente”.[14] Non è tale nemmeno la Parola divina proclamata nella Chiesa.[15] E ricorda pure che “Non è lecito...insistere sulla ragione del segno sacramentale,come se il simbolismo... esprimesse esaurientemente il modo della presenza di Cristo in questo sacramento”.[16]
Dunque, la presenza di Gesù Cristo precede e non è solo mediata dai segni visibili.
d. l'altare è la stessa cosa della mensa.
L'Institutio Generalis Missalis Romani prescrive: “L'altare, sul quale si rende presente nei segni sacramentali il sacrificio della Croce, è anche la mensa del Signore...”.[17] L'altare si chiama così perché, in continuità col culto giudaico, è alta res, ossia “luogo alto” per offrire (da offerre, levare in alto)il pane e il vino scelti e consacrati per rendere presente il sacrificio del Calvario, 'luogo alto' ove Cristo è stato innalzato. Nella riforma liturgica ha molto nociuto aver ignorato che il culto cristiano è in continuità col culto del Tempio; così c'è stata una corsa ad “adeguare” l'altare ad una tavola, staccandolo dalla parete e abbassandolo in piano.
Ma, dopo il Motu Proprio Summorum Pontificum, non è più necessario “adeguare” altari e chiese: semmai dobbiamo “adeguare” noi stessi alla sacra liturgia. E poi, dobbiamo chiederci: il cosiddetto adeguamento liturgico ha avvicinato la gente alla fede?
Dunque,l'altare non è la stessa cosa della mensa, ma è “anche mensa”, cioè la include in se stesso.
e. le norme e rubriche sono state abolite.
Il fatto che esse siano più numerose e minuziose nei Messali precedenti, fino a quello del 1962, ha garantito la Messa cattolica, sia che la celebrasse un prete dotto, sia un curato di campagna. Esse sono come il riporto di un fiume, che certo va sempre ripulito per farlo scorrere; sono come gli argini che frenano gli abusi e reati, come da Paolo VI ad oggi i papi hanno richiamato. Si sostiene che il ritorno all'uso del rito dovrebbe prevalere sul timore dell'abuso: precisiamo: purché sia il ritus servandus, senza del quale non sussiste l'ordo celebrandi: è l'osservanza obbediente che porta ad evitare gli abusi della celebrazione. A questo servono i libri liturgici con le loro prescrizioni e norme, che traducono e garantiscono l'osservanza dello ius divinum e dello ius liturgicum.
Dunque, non è vero che norme e rubriche siano abolite, ma vanno osservate nei nuovi come negli antichi libri liturgici, come segno di obbedienza a Dio che ha il diritto, solo lui, di stabilire come essere adorato dalla Chiesa.
f. la tradizione antica è stata conservata nel Novus Ordo.
Il Messale pubblicato nel 1965 proponeva l'antico rito romano ritoccato in alcune parti, senza ricorrere a cambiamenti non necessari per la Chiesa[18] e i padri del sinodo del 1966 lo approvarono in maggioranza. Ma qualcuno tirò fuori nel 1969 la messa “normativa” che venne così imposta a tutti. Che poi il Novus Ordo sia più antico del Messale tridentino, è discutibile in quanto mancano elementi antichi come l'orientamento del sacerdote ad Dominum e la lingua latina, che la Costituzione liturgica non aveva aboliti. Pensino anche a tali fatti taluni vescovi quando affermano che la Messa in latino divide la Chiesa.
Dunque, in realtà nel Novus Ordo sono stati ripristinati alcuni elementi antichi e eliminati altri del Vetus Ordo, secondo criteri non sempre chiari.
g. la lingua latina non è più lingua d'uso e riduce i fedeli a muti spettatori.
Giovanni XXIII, la riteneva lingua liturgica oggettiva e universale, immutabile e sacra.[19] Col latino, la Chiesa ha simbolicamente sconfitto Babele mediante la Pentecoste dell'unico linguaggio universale. Infatti, la Costituzione liturgica del concilio Vaticano II incastonava l'uso della lingua parlata nella Messa, in proporzioni di un terzo (letture e preghiera dei fedeli) in rapporto alla latina (ordinario, orazioni, preghiera eucaristica, riti di comunione); tali proporzioni sono state squilibrate, sì che la lingua parlata o vernacola ha corroso i termini e i significati dei testi liturgici. Poi, sostenendo la tesi che le traduzioni della liturgia sono inadeguate e che ogni cultura avrebbe dovuto comporre le sue preghiere,[20] si è incentivato il relativismo nelle traduzioni: è accaduto che tutto ciò che nei testi era rivolto essenzialmente verso Dio, lo si è piegato in direzione dell'amicizia comunitaria.
Dunque, il latino è stato lasciato in uso dal concilio Vaticano II nella liturgia e i fedeli possono parlarlo o ascoltarlo, senza per questo essere spettatori.
h. Esiste una tradizione rinnovata e una tradizione vecchia.
La tradizione si sviluppa organicamente come il corpo umano o il paesaggio, non destrutturandosi.
La riforma postconciliare si presenta come una storia di resistenza e indulti. Negli anni '50, prima del concilio, c'erano liturgisti che parlavano di necessità della “restaurazione” liturgica; poi cambiarono termine e usarono “riforma”, fino ad opporsi al papa supremo legislatore: a Giovanni Paolo II, che nel 1988 tolse la proibizione al Messale del 1962 consentendo la celebrazione del Vetus Ordo, e ora a Benedetto XVI. L'indulto non vuol dire che un rito sia stato abolito e sostituito dal nuovo, ma che accanto al primo è permesso il secondo (v. la Comunione in mano o sulla lingua). Quindi, il Messale “tridentino” non era stato abrogato, né quel pontefice consentì a una finzione giuridica. Nemmeno si deve sostenere che il Messale di Giovanni XXIII del 1962 fosse “di passaggio”: nessun libro liturgico di per sé è definitivo e nemmeno provvisorio, a meno che non se ne dichiari l'uso ad experimentum. Pertanto, ciò che è proibito non necessariamente è abrogato: proibire vuol dire vietare l'uso, che poi può tornare in vigore; mentre abrogare vuol dire annullare del tutto. Ciò è inconsistente sul piano giuridico? Tanto meno, come chiariremo più avanti, la riforma liturgica ha voluto e dovuto superare quel rito che ora le viene riaffiancato. Si dimentica che vi sono state deformazioni della riforma “al limite del sopportabile”? Paolo VI nella Costituzione apostolica Missale Romanum ha parlato di “renovatio”. Pertanto ci si chieda: si è voluta la revisione o la demolizione del Messale? Ora, l'Istruzione Universae Ecclesiae interviene a sanare ciò che ha portato alla rottura invece che alla continuità.
Dunque, non esiste nella Chiesa e nella liturgia una tradizione rinnovata e una vecchia: la vera tradizione, innova in modo sano, cioè dall'interno, non cambiando continuamente: non sarebbe tradizione né riforma, ma rivoluzione.
i. prima del concilio la liturgia versava in grave crisi.
Se è così, non vi è stata continuità della riforma liturgica dal 1948 al 1988, contrariamente a quanto sostiene Bugnini nel suo libro e come sta a dimostrare il fatto della repentina rimozione di lui da parte di Paolo VI. Invece, una riforma della liturgia non sostituisce la vecchia forma a causa di carenze, ma la rimette in forma – ri-forma – dalle deformazioni subite inevitabilmente. I progressisti hanno voluto creare una liturgia “del concilio” attraverso una loro lettura dei “bisogni pastorali” dei contemporanei; ciò ha portato alla liturgia da intrattenimento o happening; i “regressisti” invece hanno reagito all'opposto, sviluppando un conservatorismo delle forme rituali.
Dunque, se si vuole sostenere che il vecchio rito era deformato, si deve ammettere che ciò è avvenuto anche per il nuovo.
l. la riforma liturgica doveva generare nel corpo ecclesiale una forma diversa di partecipazione,corporea e simbolica,comunitaria e dialogica.
Ciò contraddice la continuità. Invece, il rito romano è la condensazione della tradizione viva ed è linguaggio comune nella misura in cui le singole persone entrano in rapporto con la presenza divina; proprio questa esigenza induce non pochi fedeli a preferire la forma extraordinaria del rito romano. In genere, oggi si intende la partecipazione come comprensione dei riti: questo è giusto; tuttavia la comprensione dei riti non coincide con quella del mistero nella liturgia, che non sarà mai piena: in questo ci aiuta sant'Agostino: “La comprensione è la ricompensa della fede. Non tentare di comprendere per arrivare a credere, ma abbi fede per arrivare a comprendere”.[21]
Dunque, la riforma liturgica non doveva generare una forma diversa di partecipazione, ma incentivare quella di sempre che consiste nell'aiutare l'uomo ad entrare nel Mistero.
m. la riforma liturgica era una scelta irrevocabile.
Credo che ci sia alla base un equivoco su cosa sia una riforma: si dimentica che essa deve cominciare da sé, dalla propria conversione. Se la riforma rimane nell'ambito sociologico, genera da un lato rottura e dall'altro resistenza.
Se invece andiamo allo scopo della liturgia,la santificazione dell'uomo e la glorificazione di Dio, allora si comprende che essa, come spesso ricorda Benedetto XVI, sia soggetto da vivere più che da riformare. La liturgia, è parlare di Dio e operare con lui: per questo san Benedetto ammoniva:Operi Dei nihil praeponatur!
Paolo VI aveva la preoccupazione della continuità ecclesiologica nella liturgia, quindi dell'unità. Infatti il papa non è padrone della liturgia, ma solo custode,né può limitarsi ad appoggiare una riforma o contraddirla, in quanto è il supremo legislatore.
Si deve convenire con quanto ha detto il cardinale Koch: “proprio i teologi che si erano impegnati nel movimento liturgico o che avevano partecipato ai lavori del concilio sono presto divenuti seri critici degli sviluppi liturgici postconciliari”[22]. Si pensi a Klaus Gamber, Andreas Jungman, Louis Bouyer e lo stesso Josef Ratzinger. Nel mio piccolo, posso confermare che è così.
Dunque, solo la riforma in capite et in membris è una “scelta” irrevocabile della Chiesa, non una riforma liturgica.
5. La continuità della sacra liturgia
La riforma deve servire a riaffermare i valori preesistenti all'oggi: la tradizione della Chiesa è anche una interpretazione teologica della storia, uno sviluppo organico, che implica il passato. La domanda da porsi, afferma il liturgista Enrico Mazza, è: con quale criterio si sia fatta la riforma liturgica postconciliare.[23] E nel dibattito seguito alla tavola rotonda, ha riferito di averla posta a Neunheiser, uno degli esperti, che rispose: “ci sembrava che fosse giusto così”. Si deduce che la riforma non ha indicato quali fossero i criteri di scelta dell'antico da conservare o da tralasciare.
Certamente la crisi ecclesiale manifestatasi nel post-concilio dipende dal crollo della liturgia: non lo pensano solo ambienti del tutto minoritari o “lefebvriani”; se anche fosse così, ci si dovrebbe ricordare che la verità non risiede nella maggioranza. E' ora di rispettare il confronto tra posizioni, maggioritarie o minoritarie che siano, mettendo da parte le letture e i conteggi. Non serve fare “dietrologia” da parte progressista e regressista, come ai tempi di Paolo VI, circa la solitudine del papa a fronte dei collaboratori che sarebbero disorientati sulla liturgia; o circa le componenti della Curia Romana pro e contra la riforma liturgica. Questo nuoce alla valutazione obbiettiva della riforma. Si accetti invece il dibattito ampio e rispettoso; vi sono vescovi e teologi che hanno le idee abbastanza chiare e vogliono stare col papa e non senza di lui, procedendo a piccoli passi. La dottrina cattolica insegna che lo Spirito non passa nella Chiesa solo durante un concilio, ma l'accompagna ordinariamente col magistero del papa e dei vescovi uniti con lui. Affermare dunque, che la Messa in latino divida la Chiesa significa innanzitutto andare contro l'impulso dello Spirito.
Su qualche sito è riportato un intervento di Paolo VI al concistoro del 24 maggio 1976 che stigmatizzava quanti dividevano la Chiesa, perché rifiutavano l'ossequio alle norme liturgiche. Bisogna dirla tutta: egli, in nome della Tradizione, chiedeva di celebrare con dignità la liturgia rinnovata, ricordando che “l'adozione del nuovo Ordo Missae non è lasciata certo all'arbitrio dei sacerdoti o dei fedeli”, riferendosi a quanti volevano continuare nell'antica forma e ai quali l'aveva concesso, solo se sacerdoti anziani o infermi, ma sine populo. Il punto è che poi, proprio il Novus Ordo che egli aveva promulgato è stato oggetto di arbitri, abusi e reati; quindi l'auspicio che il Novus Ordo fosse stato promulgato per sostituirsi all'antico, - in nome della Tradizione - non è stato centrato, in quanto è venuto meno il presupposto: il ritus servandus, l'osservanza, ossia il principio dello ius divinum da cui deriva lo ius liturgicum. Sull'argomento Paolo VI è intervenuto altre volte. Così accade che molti cristiani che partecipano alla liturgia si trovano costretti non dalla legge della Chiesa universale, ma dalle pretese arbitrarie di una determinata diocesi, parrocchia o gruppo che vanno contro la liturgia “normativa”. Ora, come ha ricordato con franchezza Benedetto XVI: “Riscoprire e apprezzare l’ubbidienza alle norme liturgiche da parte dei Vescovi, come "moderatori della vita liturgica della Chiesa'', significa rendere testimonianza della Chiesa stessa, una ed universale, che presiede nella carità.” .[24]
Pertanto il Papa, prendendo atto della situazione, ha ripristinato il Messale del 1962. Si sa, che ogni pontefice perfeziona o rivede la legislazione precedente. Perché dunque rimanere un papa indietro? Se Paolo VI “rivede” Pio V, non può Benedetto XVI “rivedere” Paolo VI? Sono prevalentemente giovani i promotori della forma extraordinaria, non anziani nostalgici. Non ha scritto san Benedetto nella Regola che lo Spirito può parlare attraverso il più giovane?La Chiesa è giovane e viva.
6. I sentimenti del timore di Dio e del sacro
Si deve constatare che oggi nella liturgia nuova è venuta meno la riverenza e il sacro,in una parola l'adorazione, perché non si è più consapevoli di stare alla presenza divina. Non si glorifica primariamente Dio, di conseguenza l'uomo non è santificato e il mondo non è “consacrato”. Basilio ricorda: “Tutto ciò che ha un carattere sacro è da lui che lo deriva”[25]. Ecco che la riforma deve cominciare dalla rinascita del sacro nei cuori e parallelamente del timore di Dio: quel senso di grande rispetto alla Sua infinita maestà che pervade la Sacra Scrittura: da Abramo che consapevole della Sua onnipotenza e onnipresenza si prostrava col viso a terra (Gen 17,3-17), a Mosè dinanzi al roveto ardente(Es 3,6)ed Elia (cfr 1 Re 19,13): si coprirono il volto quando percepirono la presenza del Signore, pervasi di sacro timore, perché “Il timore di Dio è una scuola di sapienza”(Pr 15,33). Non si dica che questo sia venuto meno nel Nuovo Testamento: da Maria che esulta: “di generazione in generazione la sua misericordia stende su quelli che lo temono”(Lc 1,49), riconoscendo la grandezza di Colui che per amore si è piegato sulla creatura; a Pietro, Giacomo e Giovanni che nella Trasfigurazione “caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore”(Mt 17,6); e Pietro che cadde in ginocchio ai piedi di Gesù al lago di Tiberiade, chiedendogli di allontanarsi da sé peccatore(cfr Lc 5,8); non era schiacciato ma partecipe della bellezza e potenza divina. Dinanzi all'immensità di Dio, la gioia di averlo vicino deve tradursi nella massima riverenza; Egli è l'onnipotente Figlio di Dio che si è fatto vicino a noi.
Perciò, sono incomprensibili le proteste di chi afferma che dinanzi a Cristo risorto bisogno stare in piedi,non più in ginocchio! Dice il Catechismo: “Il senso del sacro fa parte della virtù della religione”- quindi riporta un pensiero del beato J.H.Newman: «Il sentimento di timore e il sentimento del sacro sono sentimenti cristiani o no?[...]Nessuno può ragionevolmente dubitarne. Sono i sentimenti che palpiterebbero in noi,con una forte intensità,se avessimo la visione della Maestà di Dio. Sono i sentimenti che proveremmo se ci rendessimo conto della sua presenza. Nella misura in cui crediamo che Dio è presente,dobbiamo avvertirli. Se non li avvertiamo,è perché non percepiamo, non crediamo che egli è presente”.[26]
Di tali sentimenti e dei conseguenti atteggiamenti ha urgente bisogno la liturgia romana per parlare di Dio all'uomo contemporaneo.
7. Conclusione
Cosa fare in concreto? Sono ancora valide le indicazioni che l'allora cardinal Joseph Ratzinger ha tracciato: 1. promuovere la corretta celebrazione del Novus Ordo, secondo le prescrizioni dei libri liturgici, ragion per cui Giovanni Paolo II promulgò l'enciclica Ecclesia de Eucharistia e l'Istruzione Redemptionis Sacramentum. 2. promuovere la corretta celebrazione secondo il Vetus Ordo, come ora prescrive l'Istruzione Universae Ecclesiae. 3. compiere la revisione dei nuovi libri liturgici facendo in modo da reintrodurre alcuni dei tesori che furono a suo tempo scartati. La Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, insieme alla Pontificia Commissione Ecclesia Dei sono gli strumenti ordinari per promuoverle.
Non si attribuisce allo Spirito Santo sia la varietà dei carismi sia la loro unità? Dunque, ebbe ad osservare l'allora cardinale: “noi possiamo persuadere i vescovi che la presenza dell'antica liturgia non turba l'armonia dell'unità delle loro diocesi, ma è piuttosto un dono destinato a edificare il corpo di Cristo di cui noi siamo i ministri”.[27]
[1] Crescere in saggezza, Gribaudi, Milano 2001, p. 157.
[2] Sermoni,348,2;PL 38,1,1527.
[3] “Cristiani non per vanto ma per aprire il mondo a Dio”: Omelia della Messa Crismale, L'Osservatore Romano, 22 Aprile 2011, p. 8.
[4] Cfr. L. GIUSSANI, Avvenimento di libertà, Marietti, Genova 2002, p. 149.
[5] Cfr. Idem, L'io rinasce da un incontro(1986-1987), BUR, Milano 2010, p. 364.
[6] Ibidem, p. 247.
[7] Idem, L'autocoscienza del cosmo, Bur, Milano 2000, p. 247.
[8]TERTULLIANO, De resurrectione carnis, VIII, 10; PL 2,806.
[9]Sacrosanctum concilium, n 27.
[10] PAOLO VI, Enciclica Mysterium fidei, Città del Vaticano 1965, Enchiridion delle Encicliche 7,876-877.
[11] GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Ecclesia de Eucharistia, Città del Vaticano 2003, n. 35.
[12]Sacrosanctum concilium, n. 9.
[13]Ivi, n. 7.
[14] PAOLO VI, Enciclica Mysterium fidei, Enchiridion delle Encicliche 7,883.
[15] Cfr asterisco in nota al § 21 della Costituzione Dei Verbum.
[16] PAOLO VI, Enciclica Mysterium fidei, Enchiridion delle Encicliche 7,855.
[17]Ed. typica 2000; ed. it. 2004: n. 296.
[18]Sacrosanctum concilium, n 4.
[19]Cfr Costituzione Apostolica Veterum Sapientia, 22.II.1962, Premessa.
[20] Cfr A. BUGNINI, La riforma della liturgia, 1948-1975, Roma 1980, p. 238.
[21]De Magistro, 11,37; PL 32,1216.
[22]Relazione al III Convegno sul Motu Proprio Summorum Pontificum, Roma, 13-15 Maggio 2011:“Dalla Liturgia antica un ponte ecumenico”, L'Osservatore Romano, 15 maggio 2011, p. 7.
[23]Cfr. Riflessioni sulle riforme liturgiche nella Chiesa, in N. BUX-E. MAZZA-E. GARZILLO, Liturgia e arte sacra fra innovazione e tradizione, Reggio Emilia 2011.
[24] Discorso in occasione dell'incontro e celebrazione dei vespri con i vescovi del Brasile, Catedral da Sé, Sao Paulo, L'Osservatore Romano, 12 maggio 2007, p. 8.
[25]De Spiritu Sancto, c 9, 22; PG 32,107.
[26]Catechismo della Chiesa Cattolica, n 2144.
[27] J. RATZINGER, Allocuzione nel decennale dell'Ecclesia Dei, 24 ottobre 1998.
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