II Colloquio sulla Musica Sacra
Cinquant’anni dopo il Vaticano II
alla luce del Magistero di Benedetto XVI
Verona 6 ottobre 2012
Intervento di
don Gilberto Sessantini
Dall’anatema di San Girolamo (347-420) che, ancora alla fine del IV secolo, invitava a stare lontani dall’organo perché culturalmente legato ad un mondo pagano e dai costumi disdicevoli (1) all’affermazione che esso è il “re degli strumenti” fatta da Guillaume de Machaut (1300ca.-1377) (2) sancendo così la sua definitiva consacrazione a strumento per eccellenza – secondo il suo significato etimologico (3) – e a strumento ecclesiastico per definizione – per il suo uso peculiare – molto tempo è passato. Un millennio in cui, l’organo di fatto è divenuto lo strumento principe, non esclusivo certo, ma preferenziale della liturgia cristiana occidentale. E tale è rimasto, indisturbato, fino all’immediato postconcilio, quando il suo trono ha cominciato a scricchiolare e la sua peculiarità ad essere messa in discussione.
Cinquant’anni dopo il Vaticano II
Non possiamo non cogliere impressionanti analogie tra quanto è avvenuto per il canto gregoriano e quanto accadde e accade tuttora per l’organo. Mentre il Vaticano II indicava nel canto gregoriano il canto proprio della liturgia latina, esso veniva di fatto estromesso dalla liturgia fino a farlo diventare “un estraneo a casa sua” (4) . Nonostante un dettato conciliare limpido e chiaro, che additava nell’organo lo strumento principe della liturgia per le sue intrinseche capacità in ordine al rito e ai suoi scopi (5) , le applicazioni concrete aprivano la strada ad altri strumenti. I criteri di ammissibilità non erano certo quelli ritenuti tali dall’assise conciliare (6) , ma un criterio, vago e soggettivo, di ammodernamento e di corrispondenza ai gusti del momento, soprattutto, si diceva, dei giovani. Alla massima espressione di lode nei confronti dell’organo corrispose, nella realtà dei fatti, l’inizio del suo declino. E se anche non possiamo prescindere dall’ambiente culturale in cui tali applicazioni concrete sorsero - il ’68 - e collocare in quella temperie culturale gli eccessi assunti a paradigma, certo non possiamo fare a meno di chiederci come si è potuti giungere a tal punto, ora che l’ubriacatura del’68 è finita, l’euforia è passata e ci rimane solo un gran mal di testa da post-sbornia.
Il peccato originale, mi si permetta l’espressione, mi pare lo si possa scorgere nella “Settimana internazionale di Friburgo” (22-28 agosto 1965) avente come tema “Il canto nel rinnovamento liturgico” (7), durante la quale diversi relatori, applicando alla liturgia e alla sua musica i principi della teologia della secolarizzazione (8), giunsero ad affermare che “dopo Cristo ogni arte è fondamentalmente profana” e che “ogni musica integrata al culto , per il fatto stesso che può esercitarvi una funzione rituale diviene ‘sacra’. Non vi sono più limiti , specificazioni, sacralizzazioni, se non quelli richiesti dalla funzionalità di ogni arte nella liturgia”. Nella dialettica rinnovamento-tradizione con la quale ci si pose e si impostò il dibattito, finì triturato il buon senso e quanto il Vaticano II aveva disposto. Invano il noto liturgista Jungmann, cui in quel convegno spettò la prima relazione, insistette nel “tornare ai principi” e alla prudenza conciliare che ammetteva innovazioni solo se dimostrate veramente utili, in modo tale che le “nuove forme risultino come uno sviluppo organico delle forme già esistenti” per cui – concludeva Jungmann – per costruire l’avvenire “occorre soltanto risfogliare la storia della liturgia”. Con buona pace di Jeannetteau, insigne gregorianista, che aveva insistito sul carattere esemplare del gregoriano per giungere ad una sintesi verbo-melodica anche nei nuovi canti nelle lingue nazionali e che aveva ammonito a non abbandonare il gregoriano perché “non è da questo abbandono che nascerebbe il rinnovamento desiderato”, le sue e le posizioni degli altri “grandi vecchi” vennero tacciate come appartenenti a “buon senso cauteloso” e, nel contesto della discussione comune, apparivano velate di “un tono esoterico e insieme perentorio” e dettate dalle “ragioni del cuore che mal si adattano a misurarsi con la logica”. In questa linea auto-distruttiva che prese il sopravvento, anche l’organo venne declassato a strumento qualunque, giungendo anzi a venirgli negata (!) la patente di strumento ideale per accompagnare il canto “a causa del suono fisso che lo caratterizza, in totale contrasto con la flessibilità della voce umana. Meglio altri strumenti, più duttili e idonei a sostenere le voci e a marcare la ritmica” così il Reboud (9). Ciò che fino a qualche decennio prima, come ad esempio asseriva C.M. Widor, era la caratteristica principale che qualificava l’organo come strumento “sacro” per eccellenza e particolarmente adatto al sostegno del canto, veniva ora utilizzato per denigrarlo ed estrometterlo dalla chiesa e dalla liturgia. Per Widor infatti, i suoni prodotti e tenuti teoricamente anche per una durata illimitata danno un’idea dell’infinito e possono risvegliare in noi l’idea religiosa; il suono “inerte” dell’organo significa omogeneità, durata, stabilità infinite e questa inerzia non è un difetto ma la base della bellezza dell’organo e la sua perfetta idoneità a sostenere il canto di pochi o di tanti (10) . E questa è anche l’esperienza plurisecolare che caratterizza il servizio organistico nella liturgia. Ma la pervicacia innovativa e distruttiva giungeva a mistificare la realtà. Ciò che secoli di storia della musica e di prassi consolidata sostenevano e provavano, veniva praticamente misconosciuto e, peggio, ridicolizzato. Esaltando le istanze innovatrici del Vaticano II, tali prese di posizione calpestavano il dettato conciliare stesso, reo di pagare lo scotto ad “esaltazioni romantiche” del concetto di musica sacra, del canto gregoriano e dell’organo. Il problema non è certo che a quel convegno si espressero queste opinioni, ma il fatto che queste opinioni sostituirono il Magistero e condizionarono la prassi. Da quel convegno, infatti, sorse il gruppo Universa Laus i cui membri, o i loro epigoni, ancora oggi, dopo quasi cinquant’anni, siedono a “consulere” i vari uffici liturgici nazionali, impedendo pure un legittimo ricambio generazionale e di pensiero. Perché il resto del mondo, ma non se ne sono ancora accorti, non la pensa più come loro. Non fu più , quindi, la Sacrosanctum Concilium a guidare la riforma liturgica, ma l’interpretazione che alcuni le davano.
Paradossalmente sono le stesse armi usate da costoro che ora li condannano. Infatti, uno dei loro cavalli di battaglia riguarda il trinomio musica-liturgia-cultura (11) dove è la cultura che determina quale musica e quale liturgia sia possibile ed auspicabile per una data assemblea celebrante. Questa impostazione “dal basso” è già stata sufficientemente contestata da uno scritto di Ratzinger che criticava la voce “Canto e Musica” del “Nuovo Dizionario di Liturgia” edito dalle Paoline e non mi dilungo ad esporla (12) . Ma è proprio il concetto di cultura che occorre approfondire. Di quale cultura si tratta? Di una vera, reale, constatabile espressione dei nostri e degli altri tempi, oppure di una cultura falsa, che non esiste, inventata a tavolino per giustificare i propri assunti? Perché la cultura “qua talis” vede ancor oggi e da secoli nell’organo uno strumento “sacro” per eccellenza, chiamato a commentare i riti, a sostenere il canto, a creare clima di preghiera e di sacralità. Ne fanno fede le innumerevoli citazioni sia musicali che cinematografiche, teatrali o televisive, pubblicitarie, d’intrattenimento o di contenuto. Due o tre accordi d’organo segnalano immediatamente (nel senso letterale del termine e cioè senza altre mediazioni culturali) l’irrompere del sacro, non solo all’opera ma anche in musiche rock ben lontane dal volere portare a Dio; e non solo per gli occidentali, ma, nel villaggio globalizzato, anche per chi appartiene ad altri mondi culturali. Lo stesso avviene per l’immagine televisiva o cinematografica del prete: sempre in abito talare (Don Matteo docet). E per il canto gregoriano. Prescindendo pure dalle innumerevoli pagine di letteratura organistica, veri monumenti musicali (ma forse essi non sono o non fanno cultura!?!), basterebbero citare le numerose pagine in cui la letteratura fa riferimento all’organo come strumento “sacro”: da Virgilio, Teocrito, Lucrezio, Dante, Guillame de Machaut, a Jean Froissart, Michel de Montaigne, John Milton, Robert Browning, Victor Hugo, Honoré de Balzac, Erasmo, Rabelais e Pascal (13) . E allora? Non sono forse, queste, espressioni della cultura e, per quanto riguarda gli esempi citati più vicini a noi, espressioni della cultura dominante?
Un altro cavallo di battaglia è costituito dal demonizzare il concetto di sacro applicato alla musica e all’organo, oltre che a tutto ciò che la Chiesa considera il suo tesoro più sacro: la Divina Liturgia. Non potrebbe essere diversamente provenendo il loro pensiero dalla teologia della secolarizzazione. Ma questa posizione, a prescindere dai discutibili contenuti teologici, pecca di nominalismo. Infatti, comunque, la si voglia chiamare: “musica per la liturgia, musica liturgica, musica ecclesiastica, musica spirituale, musica religiosa, musica sacra …” (14) la sostanza è che la Chiesa si è sempre sentita in diritto/dovere di ammettere o non ammettere musica e strumenti a seconda della rispondenza o meno al proprio “progetto rituale”, marcando un linea di confine ben netta ed individuabile, che solo chi è in mala fede non può non vedere e accogliere come tale. Non possiamo dimenticare, inoltre, che la musica è sacra ancor più che per una funzione per la sua origine; origine che, come dimostra qualsiasi trattato di etnologia musicale, è di tipo religioso. Già nella riflessione musicologica di Boezio (475–525) con la sua tripartizione tra musica mundana-humana-instrumentalis vengono poste le basi filosofiche e teologiche di quella che è divenuta poi la musica sacra/musica liturgica dei documenti ecclesiastici (15). Nella trattatistica medievale, inoltre, musica misurata (sacra) e musica non misurata (profana) si rispecchiano in strumenti che sono sacri o profani a seconda che rispecchino la mensura stabilita in base ai rapporti pitagorici propri del monocordo e tra questi e la mensura del cosmo e l’organo è posto tra gli strumenti sacri proprio perché produce suoni misurabili da canne che rispondono a misura prestabilite le cui proporzioni richiamano modelli matematici universali (16). Comprendiamo, quindi, il livello di profondità raggiunta dalla riflessione su questi temi che non si possono sbrigativamente e grossolanamente catalogare come “mito” e “suggestione del sacro” (17) e sciogliere la valenza del sacro musicale solo nella dimensione prettamente funzionale.
La primazia
L’organo, quindi, culturalmente parlando è ancora uno strumento che all’interno di ciò che chiamiamo “sacro” e liturgia ha ancora un ruolo ben definito, anzi, una primazia.
Quale primazia?
Il tempo non ci concede una disamina approfondita delle motivazioni per cui la Chiesa si è espressa nei termini che conosciamo riguardo all’organo “il cui suono è in grado di aggiungere un notevole splendore alle cerimonie della Chiesa, e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti.” (SC120) . Bastino alcune osservazioni.
Di certo, c’è una primazia derivata dalle possibilità tecniche e foniche dello strumento. Sono di due tipi: una riguarda la capacità di sostenere il canto di uno, di pochi o di tanti, capacità legata alla amplissima gamma dinamica di cui l’organo è capace e che nessun altro strumento possiede, neppure se amplificato; l’altra riguarda la capacità di colorare diversamente i singoli momenti del rito e le varie sfaccettature di cui la liturgia è ricca. Nessun altro strumento, da solo, è in grado di esprimere tutto questo e non a caso vi è molta analogia tra un organo e l’orchestra, anzi con tutti i suoni della creazione. Lo ha ricordato Benedetto XVI nel discorso per la benedizione dell’organo della Alte-Kapelle di Ratisbona:
“L'organo, da sempre e con buona ragione, viene qualificato come il re degli strumenti musicali, perché riprende tutti i suoni della creazione e – come poco fa è stato detto – dà risonanza alla pienezza dei sentimenti umani, dalla gioia alla tristezza, dalla lode fino al lamento. Inoltre, trascendendo come ogni musica di qualità la sfera semplicemente umana, rimanda al divino. La grande varietà dei timbri dell'organo, dal piano fino al fortissimo travolgente, ne fa uno strumento superiore a tutti gli altri. Esso è in grado di dare risonanza a tutti gli ambiti dell'esistenza umana. Le molteplici possibilità dell'organo ci ricordano in qualche modo l'immensità e la magnificenza di Dio”. (18)
In secondo luogo c’è una primazia di carattere simbolico. Anche in questo caso due sono gli ambiti. Uno ecclesiologico, l’altro liturgico-sacrale. Il primo l’ha espresso molto bene Benedetto XVI sempre nel discorso per la benedizione dell’organo della Alte-Kapelle di Ratisbona:
“In un organo, le numerose canne e i registri devono formare un'unità. Se qua o là qualcosa si blocca, se una canna è stonata, questo in un primo momento è percettibile forse soltanto da un orecchio esercitato. Ma se più canne non sono più ben intonate, allora si hanno delle stonature e la cosa comincia a divenire insopportabile. Anche le canne di quest'organo sono esposte a cambiamenti di temperatura e a fattori di affaticamento. È questa un'immagine della nostra comunità nella Chiesa. Come nell'organo una mano esperta deve sempre di nuovo riportare le disarmonie alla retta consonanza, così dobbiamo anche nella Chiesa, nella varietà dei doni e dei carismi, trovare mediante la comunione nella fede sempre di nuovo l'accordo nella lode di Dio e nell'amore fraterno. Quanto più, attraverso la Liturgia, ci lasciamo trasformare in Cristo, tanto più saremo capaci di trasformare anche il mondo, irradiando la bontà, la misericordia e l'amore per gli uomini di Cristo.” (19)
L’analogia con il corpus ecclesiae è mirabile anche nella sua attualità.
Il secondo ambito in cui l’organo esprime la sua primazia di carattere simbolico è quello liturgico-sacrale. Come avviene per gli altri luoghi liturgici (altare, ambone, cattedra...) pure l’organo “parla” e rimanda alla sua funzione anche quando la liturgia non è in atto. La sua presenza, il suo esser-ci, è simbolo di quel canto che esso sostiene, di quella musica che, come affermava Victor Hugo, “unisce ai Cieli la terra” (20). La sua presenza connota ancor più un edificio ecclesiastico per quello che è: luogo di culto, luogo di preghiera, luogo di vita. Anche senza emettere una nota. Cosa che non farebbe una chitarra, una batteria o un flauto posti in un canto della chiesa: nella nostra cultura essi hanno un’altra valenza culturale, appunto.
I compromessi
Se tali sono i caratteri che definiscono la primazia dell’organo nella liturgia, è ancor vero che la situazione odierna costringe a dei compromessi.
Quali compromessi?
Innanzitutto con il repertorio dei canti. A parte i due secoli (Sette e Ottocento) in cui la maggior parte della letteratura organistica (italiana si badi bene) si è allontanata dal gregoriano per ricercare in ambito profano la propria ispirazione, il connubio tra organo e repertorio vocale sacro è sempre stato stretto. Pensiamo a quanto hanno suggerito le melodie dei corali o dei temi gregoriani lungo i secoli. Oggi a cosa può ispirarsi un organista se non a ciò che si canta in chiesa, perché tale è la sua funzione? Purtroppo la situazione la conosciamo tutti e non è certo continuando sulla linea del cosiddetto Repertorio Nazionale, che si può dare una svolta al canto liturgico. Ma questo è un discorso che ci porterebbe lontano. All’organista serio non resta che nobilitare con la sua arte ciò che nobile non è e che solo la protervia di certo clero e di certi animatori musicali continua a propinare durante i divini misteri.
In secondo luogo, con gli altri strumenti. La primazia non è supremazia. E la storia della musica e dei documenti ecclesiastici ci conferma che sempre, accanto all’organo, hanno preso posto anche altri strumenti, non nell’ordinarietà sempre riservata all’organo, ma nella straordinarietà. Le principali feste vedevano aggiungersi all’organo archi e ottoni, non in modo indiscriminato, ma secondo necessità musicali, coloristiche o simboliche (trombe a Pasqua, oboi a Natale), così come si ingrossavano le fila dei cantori. Si metteva in pratica già allora quella solennizzazione progressiva che Musica Sacram nel 1967 suggeriva per differenziare anche con canto e musica i gradi liturgici delle celebrazioni (21). Se gli strumenti sono suonati da professionisti e se sono scelti con criteri musicali essi contribuiscono alla riuscita del “progetto liturgico”. Se sono un’accozzaglia di strumenti disomogenei scelti per “far partecipare” i ragazzi, allora il discorso cambia. Ma anche in un caso-limite come quest’ultimo all’organista serio spetta il compito di fare da orchestratore, distribuendo le parti secondo le regole della musica e del buon senso.
Infine il compromesso con la liturgia. Essa è quella che è, anzi essa è come viene celebrata, spesso senza quel necessario “spirito della liturgia” (22) che aiuta sacerdote e fedeli ad entrare e a mettersi alla presenza del Signore; e se prima della riforma il Caeremoniale Episcoporum assegnava minuziosamente all’organo numerosi interventi solistici (23), ora, per dirla con i nostri “amici”, la presenza dell’organo è tutta da inventare. Nel senso positivo del termine e proprio a partire dalle dinamiche interne della liturgia e a partire dagli “spazi di libertà” che il rito stesso prevede direttamente o indirettamente. Qui l’organo può molto, addirittura può supplire la mancanza di spiritualità liturgica di preti e assemblee. Ecco quindi che, circolarmente, da un compromesso scaturisce di nuovo per l’organo una primazia.
Non ho volutamente considerato tra i compromessi la questione economica, perché più che un compromesso essa è un’ingiustizia.
Tra primazia e compromessi anche oggi la liturgia non può fare a meno dell’organo e l’organo non può fare a meno della liturgia. Il dettato conciliare è chiaro, la sua mens (il cosiddetto spirito) altrettanto; sono i cuori di chi deve metterlo in pratica che han bisogno di conversione.
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Note:
“ Nella Chiesa
latina si abbia in grande onore l'organo a canne, strumento musicale
tradizionale, il cui suono è in grado di aggiungere un notevole splendore alle
cerimonie della Chiesa, e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose
celesti.” SC 120a.