lunedì 30 gennaio 2012

Note sopra la Liturgia

di Cristina Campo 

Negli Apophtegmata Patrum è detto come il demonio sia incapace di conoscere i nostri pensieri perché di un'altra natura dalla nostra, ma come egli possa indovinarli osservando i movimenti del nostro corpo. Di quella spia egli profitta per tenderci i suoi tranelli: donde l'importanza data in ogni tempo al comportamento esteriore e la spontanea venerazione per chi l'abbia perfetto. Costui, oltre a creare intorno a se stesso un anello di purezza inviolabile, sta in certo modo compiendo un esorcismo a beneficio di quanti gli sono prossimi. "Beato" dice san Francesco "quell'uomo che non vuole nei suoi costumi e nel suo parlare esser veduto né conosciuto se non è in quella pura composizione e in quello adornamento semplice del quale Iddio lo adornò e compose". 

È comprensibile che un maestro spirituale insistesse presso i suoi discepoli sulla liturgia solitaria, atteggiamento del corpo durante l'orazione anche soltanto mentale, consigliasse di pregare in piedi, compiendo tutti i gesti prescritti, come in coro, "come se i fratelli assenti fossero presenti". E che un'educatrice di genio, Hélène Lubienska de Lanval, imponga prima di tutto ai bambini la recitazione di pochi versetti biblici accompagnata da taluni gesti e cerimoniali significativi: preparando il calco esteriore alla colata del contenuto che verrà più tardi: intellettuale prima, spirituale poi. Si sa di molte conversioni dovute alla predicazione, ma la scintilla può scoccare da un solo, perfetto gesto liturgico; c'è chi s'è convertito vedendo due monaci inchinarsi insieme profondamente, prima all'altare poi l'uno all'altro, indi ritrarsi nei penetrali del coro. 

In un mondo nel quale l'uomo lentamente muore per mancanza non già di riverenza, come i filantropi vorrebbero indicarci, ma perché non sa più chi, non sa più che cosa riverire, un gesto simile può mutare una vita. E non appare strano, avendolo visto, che a santa Gertrude il Cristo sia apparso per la prima volta "nell'ora dolcissima di Compieta", mentre ella si rialzava da un inchino profondo col quale aveva riverito una monaca più anziana. Al posto di quella vide il "delicato giovinetto", "tale nell'aspetto quale allora la mia giovinezza sarebbe stata lieta di vedere anche con gli occhi del corpo". Con l'ultimo inchino sparirà forse da questa terra l'ultima vicenda degna di venerazione. 

La liturgia è dunque il santo esorcismo. Santo e per così dire naturale. I gesti sacri lo sono anche in senso biologico, perché da tradizioni millenarie legati a numeri ai quali la vita dell'uomo arcanamente risponde: il tre, il sette, il dieci e così via. Uno studioso, Sambucy, ha notato come nella Messa siano contenuti gli atteggiamenti rituali più puri della contemplazione yoga, per esempio al Canone, allorché il sacerdote prega a braccia aperte e sollevate geometricamente, unendo i pollici agli indici; ma da noi si tende, incomprensibilmente, a trovare arbitrario, gratuito e sostituibile lo splendore di consimili gesti o la meravigliosa complicazione di certe regole cerimoniali: come quella, tutta ruotante intorno al numero tre e al mistico rapporto tra il cerchio e le rette (in modum circuli, in modum crucis), che informa, nella Messa solenne, la incensazione delle oblate. L'uomo così impegnato in gesti significativi adempie all'opus Dei non soltanto in senso sacro ma anche in senso naturale, affidando il respiro al ritmo infallibile del canto (che, con le lunghezze armoniosamente diseguali dei versetti, dilata e varia il giuoco del soffio nei polmoni) e lasciando che tutto il corpo ritrovi, in quella stretta e trascendentale disciplina, le sue leggi e i suoi numeri segreti. Lode davvero trinitaria, nella quale il corpo è fatto sentimento, il cuore pensiero e l'intelletto contemplazione. 

Oggi si direbbe che quell'insano terrore che induce l'uomo ad aggredire la natura nel momento stesso che la fugge, lo spinga ad interrompere anche il grande esorcismo spirituale del gesto, introducendovi sempre più ciecamente cunei di vita profana: voci scomposte, ordini, illuminazioni inopportune, oggetti non rituali e, mostruosamente, il microfono, che rende grottesca la voce umana, assurde le tragiche vesti, anacronistico il gesto cerimoniale: giacché sarà sempre il nobile a pagare per il predone. 

Liturgia è celebrazione dei divini misteri. È anche la grande esoterica del cattolico, che solo dopo una lunga frequentazione della liturgia terrena sarà in grado di presagire qualcosa della liturgia celeste. È, infine, desiderio di glorificare la divinità ricomponendo sulla terra, come stampate da un'ombra, le meraviglie del cielo: il giro degli astri, il succedersi delle stagioni, il mistero del tempo, l'itinerario della mente a Dio. Assistendo a una celebrazione liturgica solenne o anche soltanto a un Vespro bene ufficiato (è chiaro che parliamo e abbiamo parlato finora della tradizionale liturgia latino-gregoriana), si avrà l'impressione immediata di un moto astrale, di un'orbita celeste. E subito il Breviario lo conferma: piccolo libro zodiacale e cosmologico, currens per anni circulum, dove ciascuna ora canonica celebra una fase della luce, come negli Inni delle Piccole Ore, un momento della creazione del mondo, come negli Inni dei Vespri, o il graduale passaggio dalla notte al giorno, dal peccato all'illuminazione, come negli Inni dei Mattutini. Fin nelle ultime sfumature la varietà dei toni, le diverse cadenze musicali di uno stesso inno, salmo o responsorio a seconda del tempo liturgico, della solennità o della stagione (tonus vernalis, tonus hiemalis) - l' "immensa e delicata" liturgia mostra di ben portare il nome che le diede san Benedetto, opus Dei, giacché l'uomo non vi ha ruolo che di interprete delle grandezze di Dio e del creato. I suoi movimenti vi uniscono la lentezza maestosa delle ore con la levità della danza, mentre i paramenti, variando il loro colore, fissano all'occhio significati di morte, di risurrezione primaverile, di purgazione, di purpurea raccolta. Intorno all'immobile Sole - Cristo - Cristo stesso, nella persona del sacerdote, volge la Sua divina vicenda, e in essa coinvolge l'anno come il giorno, l'uomo in adorazione come lo stuolo dei Santi e delle Gerarchie Angeliche. Liturgia è dunque desiderio di circondare la divinità di immagini quanto possibile ad essa somiglianti, oltre che di parole da essa ricevute. Di restituire al Creatore, in virtù della Sua ispirazione, un estatico specchio della creazione. Gratias agimus Tibi propter magnam gloriam Tuam. 

In un tempo nel quale l'uomo, preda di forze oscure, si industria di far esplodere la vita, stravolgendone tutte le leggi e rinunciando alla sua ultima destinazione, è particolarmente affliggente per lo spirito che anche nel meraviglioso santuario della liturgia tradizionale si aprano brecce, che anche questo sistema vacilli. 

Liturgia - come poesia - è splendore gratuito, spreco delicato, più necessario dell'utile. Essa è regolata da armoniose forme e ritmi che, ispirati alla creazione, la superano nell'estasi. In realtà la poesia si è sempre posta come segno ideale la liturgia ed appare inevitabile che, declinando la poesia da visione a cronaca, anche la liturgia abbia a soffrirne offesa. Sempre il sacro sofferse della degradazione del profano. 

La liturgia cristiana ha forse la sua radice nel vaso di nardo prezioso che Maria Maddalena versò sul capo e sui piedi del Redentore nella casa di Simone il Lebbroso, la sera precedente alla Cena. Sembra che il Maestro si innamorasse di quello spreco incantevole. Non soltanto lo oppose alteramente alla torva filantropia di Giuda che, molto tipicamente, ne reclamava il prezzo per i poveri: "Avrete sempre i poveri, ma non avrete sempre me" - parola terribile che mette in guardia l'uomo contro il pericolo delle distrazioni onorevoli: Dio non c'è sempre e non rimane a lungo e quando c'è non tollera altro pensiero, altra sollecitudine che Se stesso - ma addirittura replicò quel gesto la sera dopo, quando, precinto e inginocchiato, lavò con le Sue mani divine i piedi dei dodici Apostoli, allo stesso modo che Maddalena, scivolando tra il giaciglio e il muro, aveva lavato i Suoi. Dio, come osservò uno spirito contemplativo, si ispira volentieri a coloro che ispira. 

"E l'odore si sparse per l'intera dimora". Il nardo di Maria Maddalena profuma l'intera liturgia cristiana, più ancora del nardo soave della Sulamita, del quale tanto si parla nelle Ore di Nostra Signora, tutte intrise di aromi e di fiori. Al nardo viene giusta mente comparato l'incenso, che ha il potere di disperdere l'angoscia del respiro e si leva al cospetto di Dio de manu Angeli. L'incenso è inesprimibilmente misterioso. Esso è insieme preghiera e qualcosa di più fine, più acuto della preghiera. Compone l'aroma dell'eros con quello della rinuncia, è resa di grazie ed è, come il nardo, alcunché di soavemente ferale. "Ella mi prepara per la mia sepoltura" disse il Salvatore con quell'accento che nessuno, intorno a Lui, penetrava. Nemmeno Maddalena comprese, naturalmente. Ma quando, tre giorni dopo, venne al Sepolcro con altri balsami, in cerca del corpo venerato, esso non era più là. Come sempre non l'utile aveva servito alla vera celebrazione ma il superfluo: non l'azione ma la liturgia dell'azione. La vera imbalsamazione del Corpo del Signore era già avvenuta al banchetto, e insieme anche la sola unzione regale e sacerdotale che Egli mai ricevesse su questa terra. E più ancora: un principio di sacramento, giacché il corpo ch'ella così preparava era già l' "ostia pura, ostia santa, ostia immacolata" pronta all'offerta; e il suo bisogno di toccarlo, intriderlo di profumi e di lacrime, tergerlo con ciocche di capelli, fondersi in qualche modo con esso, qualcosa di molto simile a una comunione. Inesauribile è il gesto di Maddalena, e in realtà Cristo affermò che per sempre ci si sarebbe ricordati di esso. Ciò che lo rende inesauribile è appunto la sua gratuità: tutti i poveri della terra non potrebbero pretendere a una dramma sola di quel nardo, come tutti i poveri della terra non potrebbero pretendere a un solo grano d'incenso bruciato al cospetto di Dio con cuore ardente. Nel Mattutino del Grande Sabato del rito bizantino si cantano, rivolte a Giuda, queste parole: "Se sei l'amico dei poveri e ti rattristi dell'effusione di un balsamo per la consolazione di un'anima, come hai potuto vendere la luce a prezzo d'oro?". 

La complessità del gesto di Maddalena ne fa, come abbiamo detto, qualcosa che da liturgico diviene in qualche modo sacramentale. Ma si potrebbe ricordare, prima ancora del suo gesto, quello non meno ineffabile, se anche più semplice, dei saggissimi Magi. I quali, partiti alla ricerca di un fanciullo bisognoso di tutto, non gli recarono latte né panni ma le insegne della Sua triplice dignità di Profeta, di Sacerdote e di Re. Così mostrando che neppure Dio stesso, quando si mostri a noi perfettamente povero, ci dispensa dalla celebrazione simbolica della Sua gloria, quale è rappresentata dalla liturgia; e che questa, pur nel suo incessante attuarsi, rimane per eccellenza un'operazione contemplativa. Di una delicatezza e di una gravita che rendono, più che rischiosa, mortale ogni arbitraria modificazione. 

da:"Cappella Sistina", luglio-settembre 1966, pp. 99-102. 
Ripubblicato in Cristina Campo, Sotto falso nome, Milano, Adelphi, 1998, pp. 129-135

mercoledì 25 gennaio 2012

Concerto polifonico a Bari in onore di S. Giovanni Bosco


Domenica 29 gennaio 2012, in occasione del Triduo per la festa di S. Giovanni Bosco, presso la chiesa del Ss.mo Redentore (Salesiani) a Bari - via Crisanzio, concerto polifonico della Schola Cantorum "S. Cecilia" diretta dal M° Giannicola D'Amico e accompagnata all'organo dal M° Carlo M. Barile.
In programma musiche di Palestrina, Padovano, C. Franco, Caudana, Miserachs e Bartolucci.

giovedì 19 gennaio 2012

Bux: «Unità dei cristiani? Non è di questo mondo»


di Riccardo Cascioli

«Pregare per l’unità dei cristiani è fondamentale per imparare che l’unità viene dall’alto e non dal basso, ma oggi c’è il rischio che anche tra i cattolici si diffonda il ‘virus’ che divide al loro interno le altre Chiese cristiane». E’ quanto afferma don Nicola Bux, teologo, consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede, ed esperto di ecumenismo, spiegando il senso della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani che inizia oggi, 18 gennaio, e termina il 25 gennaio.

Don Bux, qual è il valore di questa settimana di preghiera per l’unità dei cristiani?
Serve anzitutto a imparare che l’unità non viene dal basso ma dall’alto. Dopo il primo slancio conciliare che via via si è attenuato, è sembrato affermarsi un contro-modello di ecumenismo che pensava di far sorgere l’unità dal basso. Oggi, forse, con più realismo si torna a comprendere che l’unità è qualcosa che viene dall’alto, non la possiamo costruire noi. L’ecumenismo va inteso come il tentativo di lasciare a Dio quello che è unicamente affare suo, cioè - attraverso le divisioni e i peccati - di chiamare l’uomo all’unità con sé.

Oggi si parla molto di ecumenismo, ma sembra che ci siano tante diverse interpretazioni di questa parola, a volte anche contraddittorie. Ma qual è l’interpretazione corretta?
In genere l’ecumenismo prende come affermazione di base quella contenuta nel capitolo 17 di Giovanni all’interno della grande preghiera di Gesù prima della sua passione: “Che siano uno come, Padre, io e te siamo uno, così siano loro una cosa sola nell’unità”. Gesù stesso quindi invoca il dono dell’unità dall’alto, anche perché lui era dinanzi alle divisioni esistenti, che constatava tra gli ebrei di cui lui era figlio. Quindi in un certo senso la preoccupazione per l’unità gli veniva dalla constatazione della realtà. Tanti gruppi, fazioni, contrapposti tra loro, che i vangeli – e Giovanni – ben documentano.
E dunque il Signore in un certo senso prevedeva, presentiva, che non sarebbe stato molto diverso nemmeno per i suoi discepoli. E pertanto in qualche modo egli comprende che solo un dono dall’alto, un dono abbondante,  il perdono, avrebbe limitato gli effetti di quella colpa d’origine che ha provocato la divisione. Non bisogna dimenticare nemmeno nell’ecumenismo che l’unità visibile non c’è perché c’è il peccato. Come diceva Ireneo, dove ci sono i peccati c’è la moltitudine, non c’è l’unità. D’altra parte il peccato è una realtà al punto che nella liturgia pasquale, nel canto dell’Exultet, lo si definisce peccato d’origine, una colpa felice, una felix culpa, quasi un fatto utile. Lo stesso san Paolo nella prima lettera ai Corinzi (11,19) dice testualmente che “è necessario che avvengano divisioni tra voi”. Colpisce che per l’apostolo siano necessarie le divisioni. Potrebbe sembrare una contraddizione:  Gesù postula l’unità che viene dall’alto, San Paolo in qualche modo prende atto che ci sono le divisioni. Noi siamo distanti nel tempo, ma vediamo le divisioni reali dei cristiani, da quelle storiche a quelle sottili che passano anche all’interno di ciascuna confessione. E allora comprendiamo davvero che le divisioni forse non ce le potremo togliere almeno fino alla fine dei tempi. Perché è attraverso di esse che noi dobbiamo comprendere che l’unità non è qualcosa che costruiamo noi. E’ un dono, è un perdono, perché se non c’è perdono non c’è alcuna unità. Lo sanno bene i coniugi.
Si deve riconoscere che la realtà, contaminata dal peccato, produce divisioni, che vanno continuamente attraversate non con la pretesa di volerle nascondere o attutire in nome di una unità impossibile. Ma comprendendo che nessuno, cattolico o protestante può imporre all’altro qualcosa che l’altro non è o non ha. Deve nascere dall’interno l’ascolto di tutto quanto di vero e di buono esiste nell’altro perché cresca il dono dell’unità, che comunque è dato dall’alto.

Molto spesso, parlando di unità dei cristiani, ci si riferisce – anche teologi cattolici -  a un’ideale “federazione tra le Chiese”, tutte sullo stesso piano. Ma l’obiettivo dell’ecumenismo per la  Chiesa cattolica è ben diverso.
La concezione che lei descrive è esattamente quello che intendevo quando parlavo dell’idea di una unità che si vuole costruire dal basso. Si fanno tanti sforzi, che non approdano a nulla, allora si ripiega su una sorta di federazione: cerchiamo di metterci insieme, ognuno rimanga quel che è e tiriamo a campare. Chissà perché poi tra questi sforzi poi c’è il tentativo di far cambiare natura alla Chiesa cattolica.

Può fare qualche esempio?
Pensiamo ad alcuni gruppi di protestanti che cercano di spingere la Chiesa cattolica all’intercomunione. Questa è una delle fisse di alcuni gruppi: facciamo l’intercomunione fra noi,anche se ognuno la realtà della comunione la concepisce diversamente. Come è noto l’idea di eucarestia dei protestanti non è quella dei cattolici: i protestanti vedono l’eucarestia come cena, per noi cattolici Corpo di Cristo come Chiesa e Corpo di Cristo come specie sacramentale costituiscono lo stesso mistero, unico sacramento. Quindi per noi non è possibile essere in comunione con chi la pensa diversamente. Ciononostante tra i protestanti e anche da alcune frange cattoliche, si vuole a tutti i costi spingere verso un’apparenza di unità.
Ma la questione va anche oltre i cristiani e si estende agli ebrei, ad esempio: stamattina ascoltavo un’intervista al rabbino capo di Roma, il quale in certo senso dettava alla Chiesa cattolica i criteri per essere Chiesa. Diceva: dunque dobbiamo eliminare la teologia della sostituzione (il popolo di Dio ha preso il posto del popolo di Israele per quanto riguarda la salvezza). Poi bisogna togliere di mezzo le beatificazioni (con allusione a Pio XII); infine bisogna essere attenti nel richiamare all’unità i lefebfvriani, perché richiamarli significa che il Concilio viene tradito. A me sembra strano che una persona che non è membro della Chiesa cattolica, intervenga in questo modo  invece di guardare al proprio interno. Se davvero vuole lavorare per rendere meno difficile la coesistenza tra diversi esseri umani o religioni, si preoccupi piuttosto di guardare al proprio interno quali sono i problemi, i punti su cui lavorare per rendere meno difficile la condivisione tra esseri umani – in questo caso di due religioni – invece di dettare all’altro quello che dovrebbe essere. Questo è un cattivo modo di intendere l’ecumenismo, in questo caso il dialogo interreligioso. Nessuno di noi si sognerebbe di andare dagli ebrei a dire cosa devono o non devono fare.

Si potrebbe però obiettare che anche i cattolici desiderano il cambiamento degli altri, che gli altri tornino all’unica Chiesa cattolica, che anche gli ebrei si convertano. Perché questa non è una mancanza di rispetto?
Appartiene al dna del cattolico, altrimenti non sarebbe cattolico, concepire la Chiesa come pienezza della verità e il massimo possibile dell’unità. Meno della Chiesa cattolica - diceva von Balthasar -  vuol dire appartenere a un’altra realtà che non è la Chiesa cattolica. Per un cattolico – consapevole della propria cattolicità – l’appartenenza alla Chiesa cattolica è il massimo di appartenenza ecclesiale cristiana che possa esserci. Questo probabilmente potrà non piacere ad altri, però cerco di far capire con un esempio: se l’idea di sacramento non caratterizza la Chiesa protestante, oppure se l’idea del primato del vescovo di Roma in rapporto a tutti i vescovi  del mondo non caratterizza la chiesa ortodossa, vuol dire che siamo dinanzi a un di meno rispetto alla pienezza cattolica. Diceva Balthasar: queste realtà riposano già nella Chiesa cattolica, non sono esterne. Quindi chi non ce l’ha, chi le ha ricusate, per ragioni storiche, certamente non può pretendere che i cattolici tornino indietro. Loro dovrebbero domandarsi perché mai le abbiano rifiutate. Certamente ci può essere la responsabilità da parte cattolica per queste divisioni, ma ciò non toglie nulla della verità riguardo la natura della Chiesa. Tenga anche presente che tutti i cristiani professano lo stesso Credo, che è stato confezionato nei concili di Nicea e di Costantinopoli: quindi tutti affermiamo “Credo la Chiesa una, Santa, cattolica, apostolica”, anche se è evidente che l’affermazione a parole – direbbe sant’Ireneo -  non vuol dire che tutti crediamo allo stesso modo.

Quindi come si concilia il dialogo con la missione?
Un cattolico non può non desiderare che qualsiasi essere umano diventi cattolico, perché altrimenti ci sarebbe una domanda grande come una casa sul perché io sono cattolico.
Se sono cattolico credo che sia stato il più grande dono fatto alla mia vita. Se questo dono è stato fatto a me perché non devo desiderare che venga fatto ad altri?. Se io credo che Gesù Cristo è l’unico Signore e il Salvatore dell’umanità perché debbo credere che alcuni settori dell’umanità debbano essere esclusi? La cattolicità, la dimensione cattolica, sta ad indicare questa universalità di sguardo, di destinazione: per noi cattolici non è un limite, anzi, è una missione: guai a noi se non la perseguissimo, come dice San Paolo. Il dialogo è nella ricerca della verità: tra gli ebrei tanti sono diventati cristiani per un movimento spontaneo di approfondimento della loro stessa religione: sono andati a fondo della propria religione, Gesù è il compimento di questa ricerca della verità

Tornando al dialogo fra i cristiani, si ha l’impressione che con gli Ortodossi l’unità sia più facile – o più vicina - rispetto alle Chiese protestanti.
Credo sia un’apparenza. Con gli ortodossi essenzialmente differiamo perché l’idea di Chiesa che loro hanno non postula un principio visibile di unità risiedente nel vescovo di Roma. Loro credono che la Chiesa sia appoggiata unicamente sulle Chiese locali, sulla visibilità locale.
Dire che sia più facile è azzardato perché all’interno stesso dell’Ortodossia, i vescovi e le Chiese in cui l’Ortodossia si articola, hanno totalmente consolidato il principio di autonomia, ognuno fa di testa sua (è il significato letterale di autocefale). Gli ortodossi sanno che questo è il loro grande problema, La struttura ecclesiologica affermatasi nei secoli è arrivata a tal punto che non sono in grado di uscirne.
L’autocefalia è una specie di virus che diventa un principio di distruzione della Chiesa, e purtroppo ha attaccato anche la Chiesa cattolica. Basta pensare all’elefantiasi delle conferenze episcopali (nazionali, regionali, territoriali) che praticamente vogliono dettare legge pure alla sede apostolica di Roma. Il rischio è grave: la realtà – non da oggi – è che c’è un tentativo da parte di alcune conferenze episcopali di costituirsi come alter ego della Santa Sede, dimenticando che le conferenze episcopali non sono di istituzione divina. Sono degli organismi ecclesiali che quindi hanno tutti i limiti degli organismi umani. Neanche l’autorità di un singolo vescovo può essere surclassata da una conferenza episcopale. Ma oggi si assiste a questo, al lento, indiretto esautoramento dell’autorità del singolo vescovo da parte delle Conferenze episcopali. Queste tra l’altro non hanno prerogative dottrinali però molto spesso assistiamo a prese di posizione quasi contestatarie nei confronti dell’autorità del vescovo di Roma, senza la quale non sussiste neanche quella degli organismi collegiali. Come insegna il Concilio Vaticano II, il collegio dei vescovi non è mai senza il suo capo. Se non provvediamo subito a curare questo virus rischieremo di trovarci anche noi in situazioni analoghe – e direi sempre più difficili – a quelle dei cosiddetti fratelli separati.

(pubblicato su La Bussola Quotidiana del 18.1.2012)

mercoledì 18 gennaio 2012

Gli appuntamenti di don Nicola Bux a gennaio


21 gennaio: ore 16, Conferenza dal titolo: "Con Papa Benedetto per un nuovo Movimento Liturgico" insieme a Mons. Athanasius Schneider e con moderatore Rino Cammilleri. Oratorio di S. Benedetto dei Padri Salesiani, Piazzale S. Benedetto, Ferrara.

21 gennaio: ore 21, Conferenza dal titolo: "La testimonianza di un Vescovo Kazako e la Riforma Liturgica Benedettiana" insieme a Mons. Athanasius Schneider e con moderatore Rino Cammilleri. Teatro Comunale di Bosaro (Ro)

27 gennaio: ore 19 Presentazione del libro "Come andare a Messa e non perdere la fede". Biblioteca comunale di Rutigliano, via Tarantini, 28.

domenica 15 gennaio 2012

Missa florentina a San Lorenzo

di Pietro De Marco

L’eccezionalità delle celebrazioni dell’Epifania in San Lorenzo non si limita alla ‘Missa florentina’ ricostruita da Francesco Zimei e eseguita con perizia dall’Ensemble Micrologus. Il Cardinale Arcivescovo Betori ha celebrato secondo il Messale latino che fu del Concilio Vaticano II (e che mai era stato abrogato). Obbligatamente, si potrebbe sostenere, ma non è così; l’esecuzione di repertori antichi oggi si giustappone spesso alla messa in italiano. Mi piace pensare che la cura per la coerenza tra liturgia e repertorio musicale abbia voluto, in ultimo, rendere omaggio alla lungimiranza di papa Benedetto XVI. Anche la grande stampa dette risonanza al ‘motu proprio’ (luglio 2007) con il quale il Pontefice restituiva piena legittimità alla Messa latina quale ordinariamente celebrata fino all’avvio della riforma liturgica (1970). Gli anni sono stati segnati da polemiche, rifiuti, allarmi, come dal sereno ritorno di comunità cattoliche al rito ‘antico’. Ma il significato del coraggioso atto di governo del Papa è più esteso del riconoscimento delle legittime richieste di minoranze: all’intero popolo cattolico fu reso possibile, quindi (oso dire) doveroso, attingere alla ricchezza di una nuova dialettica dei riti. 

Perché ricchezza? La libertà della celebrazione della Messa latina detta (impropriamente)preconciliare è il correttivo, se non il risarcimento, di un’indebita frattura pratica e, più gravemente, ideologica consumata nel recente Novecento. Frattura con la tradizione medievale-moderna della Chiesa e, quanto alla lingua, pressoché con l’intera tradizione. Non voluta dalla Costituzione sulla liturgia, la frattura consisté nella cancellazione deliberata o di fatto dello spirito della liturgia precedente la riforma, quasi lasciando intendere ch’essa fosse in sé cristianamente inadeguata, il che è assurdo.

L’iniziativa del Pontefice era, dunque, rivolta contro l’inaccettabile lettura ideologica e sostanzialmente “rivoluzionaria” che del Concilio è stata data da élite teologiche e pastoralistiche cattoliche, e lentamente penetrata nei laicati parrocchiali.

Vi è di più. Se guardiamo al dato sacramentale la legittimità di un’eucaristia periodicamente celebrata secondo il Messale romano, e in lingua non corrente, sembra capace di riequilibrare non solo gli “eccessi” rituali, linguistici, architettonici, di questi decenni ma, in particolare, gli slittamenti verso una perdita del senso del Sacramento a vantaggio dello ‘stare insieme’, agire, dire insieme, dei fedeli. La lingua non-ordinaria favorisce, infatti, la percezione di una originarietà del rito, su cui il presente profondamente e necessariamente si impianta, e non può spadroneggiare. Opera contro la tentazione evidente ogni domenica di considerare ‘sacramento’ l’assemblea, ossia di sacramentalizzare la socialità dei credenti a scapito del mysterium fidei.

La forma rituale della Messa ‘antica’ ha, dunque, una portata obiettiva per la fede. Il celebrante “rivolto al Signore”, che non è “dare le spalle” al popolo, e la contemporanea riscoperta della polarità sacra dell’altare (che non è un tavolo da pranzo), conducono a riflettere su spazio e tempo sacro. Non sono la comunità radunata, i suoi sentimenti, la sua disposizione interna ed esteriore, la sua socialità o compagnia, il perno del Sacrificio. Non è il‘comportamento’ dell’assemblea che conta; è questa una tentazione pragmatistica e attivistica di cui lo psicopedagogismo dei liturgisti non avverte i danni. Nella Messa il divino Sacerdote sacrifica se stesso al Padre, e il celebrante e l’assemblea non fanno alcun gioco sociale, ma sono come tratti nell’abisso dell’operare di Dio. Simbolicamente tutto risulta, però, più chiaro al fedele se ‘guarda’ oltre il celebrante e oltre l’altare, verso il Signore.Poiché l’altare stesso è un vertice e una soglia. 

Con l’architettura, con le arti figurative, e più di esse, forse, la musica sacra contribuisce al santo sbigottimento che deve (dovrebbe) accompagnare la partecipazione ad una ‘eucaristia’. La sua trascendenza sottrae il rito alla soggettività del gruppo parrocchiale. La Messa non è il surrogato di una sociabilità in crisi, non è destinata ad una comunità di amici come tale; è aperta e universale, evento per ognuno che vi si accosti.

Vorrei che questo fosse il segno lasciato dalla messa cantata more florentino in San Lorenzo. Il compito di testimonianza dello splendore di Cristo, ha detto il Cardinale nell’omelia, la Chiesa lo esercita “nella proclamazione della vera dottrina, ma anche nella promozione di tutti quei segni con cui la bellezza della verità [lo] manifesta […]. In questa celebrazione […] lo splendore del Vangelo riluce nelle note che gli antichi musici della nostra cattedrale dedicarono alla lode di Dio”.