di Riccardo Cascioli
«Pregare per l’unità dei cristiani è
fondamentale per imparare che l’unità viene dall’alto e non dal basso, ma oggi
c’è il rischio che anche tra i cattolici si diffonda il ‘virus’ che divide al
loro interno le altre Chiese cristiane». E’ quanto afferma don Nicola Bux,
teologo, consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede, ed esperto
di ecumenismo, spiegando il senso della Settimana di preghiera per l’unità dei
cristiani che inizia oggi, 18 gennaio, e termina il 25 gennaio.
Don Bux, qual è il valore di questa
settimana di preghiera per l’unità dei cristiani?
Serve anzitutto a imparare che l’unità non
viene dal basso ma dall’alto. Dopo il primo slancio conciliare che via via si è
attenuato, è sembrato affermarsi un contro-modello di ecumenismo che pensava di
far sorgere l’unità dal basso. Oggi, forse, con più realismo si torna a
comprendere che l’unità è qualcosa che viene dall’alto, non la possiamo
costruire noi. L’ecumenismo va inteso come il tentativo di lasciare a Dio
quello che è unicamente affare suo, cioè - attraverso le divisioni e i peccati
- di chiamare l’uomo all’unità con sé.
Oggi si parla molto di ecumenismo, ma
sembra che ci siano tante diverse interpretazioni di questa parola, a volte
anche contraddittorie. Ma qual è l’interpretazione corretta?
In genere l’ecumenismo prende come affermazione
di base quella contenuta nel capitolo 17 di Giovanni all’interno della grande
preghiera di Gesù prima della sua passione: “Che siano uno come, Padre, io e te
siamo uno, così siano loro una cosa sola nell’unità”. Gesù stesso quindi invoca
il dono dell’unità dall’alto, anche perché lui era dinanzi alle divisioni
esistenti, che constatava tra gli ebrei di cui lui era figlio. Quindi in un
certo senso la preoccupazione per l’unità gli veniva dalla constatazione della
realtà. Tanti gruppi, fazioni, contrapposti tra loro, che i vangeli – e
Giovanni – ben documentano.
E dunque il Signore in un certo senso
prevedeva, presentiva, che non sarebbe stato molto diverso nemmeno per i suoi
discepoli. E pertanto in qualche modo egli comprende che solo un dono
dall’alto, un dono abbondante, il perdono, avrebbe limitato gli effetti
di quella colpa d’origine che ha provocato la divisione. Non bisogna
dimenticare nemmeno nell’ecumenismo che l’unità visibile non c’è perché c’è il
peccato. Come diceva Ireneo, dove ci sono i peccati c’è la moltitudine, non c’è
l’unità. D’altra parte il peccato è una realtà al punto che nella liturgia
pasquale, nel canto dell’Exultet, lo si definisce peccato d’origine, una colpa
felice, una felix culpa, quasi un fatto
utile. Lo stesso san Paolo nella prima lettera ai Corinzi (11,19) dice
testualmente che “è necessario che avvengano divisioni tra voi”. Colpisce che
per l’apostolo siano necessarie le divisioni. Potrebbe sembrare una contraddizione:
Gesù postula l’unità che viene dall’alto, San Paolo in qualche modo prende atto
che ci sono le divisioni. Noi siamo distanti nel tempo, ma vediamo le divisioni
reali dei cristiani, da quelle storiche a quelle sottili che passano anche
all’interno di ciascuna confessione. E allora comprendiamo davvero che le
divisioni forse non ce le potremo togliere almeno fino alla fine dei tempi.
Perché è attraverso di esse che noi dobbiamo comprendere che l’unità non è
qualcosa che costruiamo noi. E’ un dono, è un perdono, perché se non c’è
perdono non c’è alcuna unità. Lo sanno bene i coniugi.
Si deve riconoscere che la realtà, contaminata
dal peccato, produce divisioni, che vanno continuamente attraversate non con la
pretesa di volerle nascondere o attutire in nome di una unità impossibile. Ma
comprendendo che nessuno, cattolico o protestante può imporre all’altro
qualcosa che l’altro non è o non ha. Deve nascere dall’interno l’ascolto di
tutto quanto di vero e di buono esiste nell’altro perché cresca il dono dell’unità,
che comunque è dato dall’alto.
Molto spesso, parlando di unità dei
cristiani, ci si riferisce – anche teologi cattolici - a un’ideale
“federazione tra le Chiese”, tutte sullo stesso piano. Ma l’obiettivo
dell’ecumenismo per la Chiesa cattolica è ben diverso.
La concezione che lei descrive è esattamente
quello che intendevo quando parlavo dell’idea di una unità che si vuole
costruire dal basso. Si fanno tanti sforzi, che non approdano a nulla, allora
si ripiega su una sorta di federazione: cerchiamo di metterci insieme, ognuno
rimanga quel che è e tiriamo a campare. Chissà perché poi tra questi sforzi poi
c’è il tentativo di far cambiare natura alla Chiesa cattolica.
Può fare qualche esempio?
Pensiamo ad alcuni gruppi di protestanti che
cercano di spingere la Chiesa cattolica all’intercomunione. Questa è una delle
fisse di alcuni gruppi: facciamo l’intercomunione fra noi,anche se ognuno la
realtà della comunione la concepisce diversamente. Come è noto l’idea di
eucarestia dei protestanti non è quella dei cattolici: i protestanti vedono l’eucarestia
come cena, per noi cattolici Corpo di Cristo come Chiesa e Corpo di Cristo come
specie sacramentale costituiscono lo stesso mistero, unico sacramento. Quindi
per noi non è possibile essere in comunione con chi la pensa diversamente.
Ciononostante tra i protestanti e anche da alcune frange cattoliche, si vuole a
tutti i costi spingere verso un’apparenza di unità.
Ma la questione va anche oltre i cristiani e si
estende agli ebrei, ad esempio: stamattina ascoltavo un’intervista al rabbino
capo di Roma, il quale in certo senso dettava alla Chiesa cattolica i criteri
per essere Chiesa. Diceva: dunque dobbiamo eliminare la teologia della
sostituzione (il popolo di Dio ha preso il posto del popolo di Israele per
quanto riguarda la salvezza). Poi bisogna togliere di mezzo le beatificazioni
(con allusione a Pio XII); infine bisogna essere attenti nel richiamare
all’unità i lefebfvriani, perché richiamarli significa che il Concilio viene
tradito. A me sembra strano che una persona che non è membro della Chiesa
cattolica, intervenga in questo modo invece di guardare al proprio
interno. Se davvero vuole lavorare per rendere meno difficile la coesistenza
tra diversi esseri umani o religioni, si preoccupi piuttosto di guardare al
proprio interno quali sono i problemi, i punti su cui lavorare per rendere meno
difficile la condivisione tra esseri umani – in questo caso di due religioni –
invece di dettare all’altro quello che dovrebbe essere. Questo è un cattivo
modo di intendere l’ecumenismo, in questo caso il dialogo interreligioso.
Nessuno di noi si sognerebbe di andare dagli ebrei a dire cosa devono o non
devono fare.
Si potrebbe però obiettare che anche i
cattolici desiderano il cambiamento degli altri, che gli altri tornino
all’unica Chiesa cattolica, che anche gli ebrei si convertano. Perché questa
non è una mancanza di rispetto?
Appartiene al dna del cattolico, altrimenti non
sarebbe cattolico, concepire la Chiesa come pienezza della verità e il massimo
possibile dell’unità. Meno della Chiesa cattolica - diceva von Balthasar
- vuol dire appartenere a un’altra realtà che non è la Chiesa cattolica.
Per un cattolico – consapevole della propria cattolicità – l’appartenenza alla
Chiesa cattolica è il massimo di appartenenza ecclesiale cristiana che possa esserci.
Questo probabilmente potrà non piacere ad altri, però cerco di far capire con
un esempio: se l’idea di sacramento non caratterizza la Chiesa protestante,
oppure se l’idea del primato del vescovo di Roma in rapporto a tutti i
vescovi del mondo non caratterizza la chiesa ortodossa, vuol dire che
siamo dinanzi a un di meno rispetto alla pienezza cattolica. Diceva Balthasar:
queste realtà riposano già nella Chiesa cattolica, non sono esterne. Quindi chi
non ce l’ha, chi le ha ricusate, per ragioni storiche, certamente non può
pretendere che i cattolici tornino indietro. Loro dovrebbero domandarsi perché
mai le abbiano rifiutate. Certamente ci può essere la responsabilità da parte
cattolica per queste divisioni, ma ciò non toglie nulla della verità riguardo
la natura della Chiesa. Tenga anche presente che tutti i cristiani professano
lo stesso Credo, che è stato confezionato nei concili di Nicea e di
Costantinopoli: quindi tutti affermiamo “Credo la Chiesa una, Santa, cattolica,
apostolica”, anche se è evidente che l’affermazione a parole – direbbe
sant’Ireneo - non vuol dire che tutti crediamo allo stesso modo.
Quindi come si concilia il dialogo con
la missione?
Un cattolico non può non desiderare che
qualsiasi essere umano diventi cattolico, perché altrimenti ci sarebbe una
domanda grande come una casa sul perché io sono cattolico.
Se sono cattolico credo che sia stato il più
grande dono fatto alla mia vita. Se questo dono è stato fatto a me perché non
devo desiderare che venga fatto ad altri?. Se io credo che Gesù Cristo è
l’unico Signore e il Salvatore dell’umanità perché debbo credere che alcuni
settori dell’umanità debbano essere esclusi? La cattolicità, la dimensione
cattolica, sta ad indicare questa universalità di sguardo, di destinazione: per
noi cattolici non è un limite, anzi, è una missione: guai a noi se non la
perseguissimo, come dice San Paolo. Il dialogo è nella ricerca della verità:
tra gli ebrei tanti sono diventati cristiani per un movimento spontaneo di
approfondimento della loro stessa religione: sono andati a fondo della propria
religione, Gesù è il compimento di questa ricerca della verità
Tornando al dialogo fra i cristiani, si
ha l’impressione che con gli Ortodossi l’unità sia più facile – o più vicina -
rispetto alle Chiese protestanti.
Credo sia un’apparenza. Con gli ortodossi
essenzialmente differiamo perché l’idea di Chiesa che loro hanno non postula un
principio visibile di unità risiedente nel vescovo di Roma. Loro credono che la
Chiesa sia appoggiata unicamente sulle Chiese locali, sulla visibilità locale.
Dire che sia più facile è azzardato perché
all’interno stesso dell’Ortodossia, i vescovi e le Chiese in cui l’Ortodossia
si articola, hanno totalmente consolidato il principio di autonomia, ognuno fa
di testa sua (è il significato letterale di autocefale). Gli ortodossi sanno
che questo è il loro grande problema, La struttura ecclesiologica affermatasi
nei secoli è arrivata a tal punto che non sono in grado di uscirne.
L’autocefalia è una specie di virus che diventa
un principio di distruzione della Chiesa, e purtroppo ha attaccato anche la
Chiesa cattolica. Basta pensare all’elefantiasi delle conferenze episcopali
(nazionali, regionali, territoriali) che praticamente vogliono dettare legge
pure alla sede apostolica di Roma. Il rischio è grave: la realtà – non da oggi
– è che c’è un tentativo da parte di alcune conferenze episcopali di
costituirsi come alter ego della Santa Sede, dimenticando che le conferenze
episcopali non sono di istituzione divina. Sono degli organismi ecclesiali che
quindi hanno tutti i limiti degli organismi umani. Neanche l’autorità di un
singolo vescovo può essere surclassata da una conferenza episcopale. Ma oggi si
assiste a questo, al lento, indiretto esautoramento dell’autorità del singolo
vescovo da parte delle Conferenze episcopali. Queste tra l’altro non hanno
prerogative dottrinali però molto spesso assistiamo a prese di posizione quasi
contestatarie nei confronti dell’autorità del vescovo di Roma, senza la quale
non sussiste neanche quella degli organismi collegiali. Come insegna il
Concilio Vaticano II, il collegio dei vescovi non è mai senza il suo capo. Se
non provvediamo subito a curare questo virus rischieremo di trovarci anche noi
in situazioni analoghe – e direi sempre più difficili – a quelle dei cosiddetti
fratelli separati.
(pubblicato
su La Bussola Quotidiana del 18.1.2012)
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