venerdì 24 febbraio 2012

Il nuovo altare rivolto al popolo nelle chiese antiche: ambiguità, contraddizioni e forzature nella prassi e nella normativa.


di don Alfredo M. Morselli

Recentemente il Card. Kurt Koch[i], nel corso di una conferenza svolta presso la facoltà teologica dell’università di Friburgo[ii], ha ribadito che “Non si dia per scontato che l’attuale odierna prassi liturgica si fondi sui testi conciliari: così, per esempio, nessun accenno da cui si deduca che il prete, nell’Eucarestia,  debba rivolgersi verso i partecipanti alla celebrazione”[iii].
Il Card. Joseph Ratzinger aveva scritto, in proposito, nel 2003:

Per coloro che abitualmente frequentano la chiesa i due effetti più evidenti della riforma liturgica del Concilio Vaticano Secondo sembrano essere la scomparsa del latino e l'altare orientato verso il popolo. Chi ha letto i testi al riguardo si renderà conto con stupore che, in realtà, i decreti del Concilio non prevedono nulla di tutto questo.
Non vi è nulla nel testo conciliare sull'orientamento dell'altare verso il popolo; quel punto è stato sollevato solo nelle istruzioni postconciliari. La direttiva più importante si ritrova al paragrafo 262 della Institutio Generalis Missalis Romani, l'Introduzione Generale al nuovo Messale Romano pubblicata nel 1969, e afferma: «L'altare maggiore sia costruito staccato dalla parete, per potervi facilmente girare intorno e celebrare rivolti verso il popolo (versus populum)».
Le Istruzioni Generali per il Messale, pubblicate nel 2002, mantenevano senza modifiche questa formulazione, tranne per l'aggiunta della clausola subordinata «la qual cosa è desiderabile ovunque sia possibile». In molti ambienti questo venne interpretato come un irrigidimento del testo del 1969, a indicare come fosse un obbligo generale erigere altari di fronte al popolo “ovunque sia possibile”. Tale interpretazione venne tuttavia respinta il 25 settembre 2000 dalla Congregazione per il Culto Divino, che dichiarò come la parola "expedit” (“è desiderabile”) non comportasse un obbligo, ma fosse un semplice suggerimento. La Congregazione afferma che si deve distinguere l'orientamento fisico dall'orientamento spirituale. Anche se un sacerdote celebra versus populum, deve sempre essere orientato versus Deum per Iesum Christum (verso Dio attraverso Gesù Cristo). Riti, simboli e parole non possono mai esaurire l'intima realtà del mistero della salvezza, ed è per questo motivo che la ammonisce contro le posizioni unilaterali e rigide in questo dibattito.
Si tratta di un chiarimento importante. Mette in luce quanto vi è di relativo nelle forme simboliche esterne della liturgia, e resiste al fanatismo che, purtroppo, non è stato estraneo alle controversie degli ultimi quarant'anni[iv].

L’idea generalizzata secondo la quale c’è «un obbligo generale erigere altari di fronte al popolo “ovunque sia possibile”» ha fatto si che in quasi tutte le antiche chiese e cattedrali venisse costruito un nuovo altare maggiore senza rimuovere l’antico.
Ci chiediamo se ciò in realtà è coerente con la nuova normativa post-conciliare, o non sia piuttosto una forzatura, dovuta alle errate convinzioni che un nuovo altare rivolto al popolo sia obbligatorio e che questo non sia altro che l’indicazione del Vaticano II.

I – La prassi in contrasto con la normativa.

Vediamo cosa prescrive esattamente la normativa vigente:

Nelle chiese già costruite, quando il vecchio altare è collocato in modo da rendere difficile la partecipazione del popolo e non può essere rimosso senza danneggiare il valore artistico, si costruisca un altro altare fisso, realizzato con arte e debitamente dedicato. Soltanto sopra questo altare si compiano le sacre celebrazioni. Il vecchio altare non venga ornato con particolare cura per non sottrarre l'attenzione dei fedeli dal nuovo altare[v].

La prassi abituale è in contrasto con la normativa perché questa prevede la possibilità di un secondo altare fisso soltanto in un caso particolare, ben definito (quando la partecipazione del popolo è resa difficile), mentre in pratica un nuovo altare è stato collocato in quasi tutte le chiese antiche.
La gravità di questa generalizzazione sta tutta nel suo presupposto implicito: con la celebrazione verso l’abside la partecipazione attiva sarebbe sempre resa difficile.
E qui notiamo un duplice errore: in primo luogo si dimentica che partecipazione attiva nella liturgia è la partecipazione al Sacrificio di Cristo.
Scriveva il Card.  Joseph Ratzinger nel 1999:

Il concilio Vaticano II ci ha proposto come pensiero guida della celebrazione liturgica l'espressione participatio actuosa, partecipazione attiva di tutti all’Opus Dei, al culto divino. […] In che cosa consiste, però, questa partecipazione attiva? Che cosa bisogna fare? Purtroppo questa espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far entrare concretamente in azione il numero maggiore di persone possibile il più spesso possibile. La parola «partecipazione» rinvia, però, a un'azione principale, a cui tutti devono avere parte. Se, dunque, si vuole scoprire di quale agire si tratta, si deve prima di tutto accertare quale sia questa «actio» centrale, a cui devono avere parte tutti i membri della comunità[vi].

E qual è l’azione della liturgia ?

La vera azione della liturgia, a cui noi tutti dobbiamo avere parte, è azione di Dio stesso[vii].

Il Card. Joseph Ratzinger non ha certo detto, nelle sue pur profonde considerazioni, delle novità assolute. Questi stessi concetti erano già stati espressi da Pio XII, nel discorso Vous Nous avez demandé:

La liturgia della Messa ha come scopo di esprimere sensibilmente la grandezza del mistero che vi si compie, e gli sforzi attuali tendono a farvi partecipare i fedeli nel modo più attivo ed intelligente possibile. Benché questo intento sia giustificato, v'è pericolo di provocare una diminuzione della riverenza, se vien distolta l'attenzione dall'azione principale, per rivolgerla alla magnificenza di altre cerimonie.
Qual è quest'azione principale del sacrificio eucaristico? Noi ne abbiamo parlato espressamente nell'Allocuzione del 2 novembre 1954. Noi riferivamo in primo luogo l'insegnamento del Concilio di Trento: «In divino hoc sacrificio, quod in Missa peragitur, idem ille Christus continetur et incruente immolatur, qui in ara crucis semel se ipsum cruente obtulit... Una enim eademque est hostia, idem nunc offerens sacerdotum ministerio, qui se ipsum tunc in cruce obtulit, sola offerendi ratione diversa (Conc. Trid., Sess. XXII, cap. 2)» [viii].

Commentiamo ora questo brano:
Giusti tutti gli sforzi che tendono a fare partecipare i fedeli nel modo più attivo ed intelligente... Ma… attenzione! – dice il Papa – , non si perda ciò che è principale, cioè la partecipazione all’Azione di Cristo!
Da un lato rimpiangiamo un po’ i pericoli di 50 anni fa: essere distolti dal cuore dell’azione liturgica dalla magnificenza delle cerimonie; oggi i pericoli sono i tanti ben peggiori abusi, accomunati da un comune denominatore: l’azione dell’assemblea viene a prevalere sull’azione di Cristo, sulla sua Immolazione Sacramentale, sul suo offrirsi: è a questa offerta che dobbiamo più che attivamente partecipare.
L’azione esterna, il fare, l’agire, non sono un valore assoluto, ma lo sono in tanto quanto ci permettono di unirci al Santo Sacrificio, tanto quanto ci permettono di essere quella gocciolina di acqua che il Sacerdote mette nel vino: questo gesto esprime come tutta la nostra vita viene sussunta nello stesso Sacrifico di Cristo, quel Sacrificio che realmente si riattualizza sull’Altare.

Se dunque la partecipazione liturgica è soprattutto l’unione al Sacrifico di Cristo, come è possibile che l’altare rivolto all’abside la renda difficoltosa? E come è possibile che per tanti secoli la Chiesa abbia creato difficoltà ai suoi figli in ciò che ha di più sacro? Eppure questo è il presupposto oggettivo della prassi generalizzata.

Vediamo ora il II errore: concediamo all’espressione partecipazione un significato meno tecnico, volendo indicare con essa semplicemente l’attenzione esteriore al rito, la partecipazione ai canti, il coinvolgimento nella gestualità: anche in questo caso, presupporre che, con l’altare rivolto verso l’abside, venga universalmente resa difficile la partecipazione del popolo (condizione necessaria – ricordiamo – per poter collocare un secondo altare fisso) è sempre una forzatura.
Scriveva a questo riguardo il Card. Giacomo Lercaro, in un documento ufficiale del Consilium ad exequendam Consitutionem de Sacra Liturgia:

In primo luogo, per una liturgia viva e partecipata non è necessario che l’altare sia rivolto al popolo. Tutta la liturgia della parola, nella messa, si celebra alle sedi o all’ambone, e dunque di fronte al popolo; per la liturgia eucaristica, le installazioni di microfoni, ormai comuni, aiutano sufficientemente alla partecipazione.
Inoltre bisogna tener conto della situazione architettonica e artistica la quale, in molti casi, è del resto protetta da severe leggi civili[ix].

II – Altre forzature e incongruenze

Un secondo altare a tutti i costi rivolto al popolo, assunto nella prassi come principio della liturgia riformata, mal si concilia con altri aspetti del rinnovamento liturgico e con altre norme. Almeno in due casi troviamo di fronte a delle vere e proprie acrobazie giuridiche.

1° principio disatteso: l’altare deve essere unico

Le norme in questo senso parlano chiaro; ecco un paio di esempi:

L'unico altare, presso il quale si riunisce come in un sol corpo l'assemblea dei fedeli, è segno dell'unico nostro Salvatore Gesù Cristo e dell'unica Eucarestia della Chiesa[x].

Nelle nuove chiese si costruisca un solo altare che significhi alla comunità dei fedeli l'unico Cristo e l'unica Eucaristia della Chiesa[xi].

Il noto liturgista, P. Matias Augé, per ribadire quanto – secondo lui – siano inopportuni gli altari laterali in una chiesa, evoca tutto il pathos di Sant’Ignazio d’Antiochia:

Accorrete tutti come all’unico tempio di Dio, intorno all’unico altare che è l’unico Gesù Cristo che procedendo dall’unico Padre è ritornato a lui unito” (Ai Magnesii VII,1)[xii].

Ma se l’unicità dell’altare impedisce che si possa celebrare rivolti al popolo, allora ecco che un secondo altare diventa lecito. Che fare in questi casi: toglier le tovaglie e non adornare l’altare maggiore precedente. Una sorta di sbattezzo dell’altare.

Nel caso in cui l'altare preesistente venisse conservato, si eviti di coprire la sua mensa con la tovaglia e lo si adorni molto sobriamente, in modo da lasciare nella dovuta evidenza la mensa dell'unico altare per la celebrazione[xiii]

Ma, chiediamoci, è forse la tovaglia che rende un altare tale? Capolavori d’arte, adornati per secoli con tanta cura, con ricami, con fiori, con ceri, con tovaglie, ora lasciati nudi come non sono mai stati pensati da chi li ha fatti… e tutto perché l’altare deve essere unico, anche quando sono due.


2° principio disatteso: l’altare deve essere fisso

Conviene che in ogni chiesa ci sia l'altare fisso, che significa più chiaramente e permanentemente Gesù Cristo, pietra viva (Cf. 1Pt 2,4; Ef 2,20); negli altri luoghi, destinati alle celebrazioni sacre, l'altare può essere mobile.
L'altare si dice fisso se è costruito in modo da aderire al pavimento e non poter quindi venir rimosso; si dice invece mobile se lo si può trasportare[xiv].

Quando però non si può celebrare rivolti al popolo, allora anche questo principio è derogato: si faccia l’altare mobile, che però deve essere definitivo.

L’altare fisso della celebrazione sia unico e rivolto al popolo. Nel caso di difficili soluzioni artistiche per l’adattamento di particolari chiese e presbitèri, si studi, sempre d’intesa con le competenti Commissioni diocesane, l’opportunità di un altare «mobile» appositamente progettato e definitivo[xv].

Qualora non sia possibile erigere un nuovo altare fisso, si studi comunque la realizzazione di un altare definitivo, anche se non fisso (cioè amovibile)[xvi].

Cosa vuol dire altare definitivo e mobile: che sia trasportabile ma che si sempre quello? Oppure che non sia murato definitivamente? Oppure che sia trasportabile, ma lasciato sempre al suo posto?
Questa indicazione sa tanto di escamotage, per collocare in ogni caso un altare rivolto al popolo, anche quando c’è già un altare maggiore e quando la Sovrintendenza ai beni artistici non permette la costruzione di un nuovo altare fisso.


III – Last but not least…

Con la promulgazione della lettera motu proprio data «Summorum Pontificum» (2007) e della istruzione «Universae Ecclesiae» (2011), avendo le S. Messe celebrate nella forma ordinaria ed extra-ordinaria pari dignità, non si può pensare di progettare o di riadattare gli edifici sacri come se l’antico rito non esistesse più.
Ogni chiesa deve prevedere la possibilità che in essa si possa celebrare – decorosamente e rispettando esattamente le rubriche – anche secondo l’antica forma del rito romano. Cosa che potrebbe non essere possibile se il presbiterio fosse ingombrato dal nuovo altare, o se sullo stesso altare non si potesse celebrare versus absidem, o se a quello mancassero i requisiti prescritti, quali gradini, candelieri, crocifisso, predella, opportune tovaglie etc.


Conclusioni.

In base a quanto detto, l’idea dell’altare a tutti i costi rivolto al popolo, ritenuta generalmente – a torto – un principio conciliare per eccellenza, ha fatto sì che molte antiche chiese venissero adeguate indebitamente con un secondo altare fisso. Stando alla lettera della normativa, si tratta di un abuso: abuso pericoloso perché fa intendere che il modo di celebrare per tanti secoli abbia reso difficile la partecipazione del popolo alla liturgia.

Se il Concilio non ha mai parlato di celebrazione verso il popolo, l’idea che l’altare a tutti i costi debba essere ad esso rivolto, e il conseguente riadattamento forzoso degli antichi edifici di culto,  non sarà forse uno dei tristi effetti di ciò che Mons. Guido Pozzo, segretario della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, ha chiamato ideologia para-conciliare?

se il Santo Padre parla di due interpretazioni o chiavi di lettura divergenti, una della discontinuità o rottura con la Tradizione cattolica, e una del rinnovamento nella continuità, ciò significa che la questione cruciale o il punto veramente determinante all’origine del travaglio, del disorientamento e della confusione che hanno caratterizzato e ancora caratterizzano in parte i nostri tempi non è il Concilio Vaticano II come tale, non è l’insegnamento oggettivo contenuto nei suoi Documenti, ma è l’interpretazione di tale insegnamento.  […]

Sta ciò che possiamo chiamare l’ideologia conciliare, o più esattamente para-conciliare, che si è impadronita del Concilio fin dal principio, sovrapponendosi a esso. Con questa espressione, non si intende qualcosa che riguarda i testi del Concilio, né tanto meno l’intenzione dei soggetti, ma il quadro di interpretazione globale in cui il Concilio fu collocato e che agì come una specie di condizionamento interiore nella lettura successiva dei fatti e dei documenti. Il Concilio non è affatto l’ideologia paraconciliare, ma nella storia della vicenda ecclesiale e dei mezzi di comunicazione di massa ha operato in larga parte la mistificazione del Concilio, cioè appunto l’ideologia paraconciliare[xvii].

Alla chiesa docente la risposta; a chi scrive, membro della chiesa discente, la possibilità di porre rispettosamente la domanda.
_____________________
[i] Attualmente presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani e della Commissione per le Relazioni Religiose con gli Ebrei.
[ii] http://www.oecumene.radiovaticana.org/ted/Articolo.asp?c=558608, visitato l’8 febbraio 2012.
[iii]Allerdings lasse sich nicht alles, was heute liturgische Praxis sei, durch Konzilstexte begründen. So sei beispielsweise nirgends die Rede davon, dass der Priester die Eucharistie den Gottesdienstteilnehmern zugewandt leite”.
[iv] J. Ratzinger, prefazione a U. M. Lang, Rivolti al Signore. L’orientamento nella preghiera liturgica, Siena: Cantagalli, 2006, p. 7.
[v] Ordinamento Generale del Messale Romano, 2010, § 303.
[vi] Joseph Ratzinger, Introduzione alla Spirito della Liturgia, Cinisello Balsamo: San Paolo, 2001, p.167.
[vii] Ibidem, p. 169.
[viii] Discorso ai partecipanti al 1° Congresso internazionale di Liturgia Pastorale”, del 22 settembre 1956: la traduzione è presa da: Insegnamenti Pontifici, vol VIII, Roma: Pia Società San Paolo, 1959/2, pp. 354-374, passim.
[ix] Consilium ad exequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, Lettre circulaire aux Présidents des Conférences Episcopales L’heureux dévelopment pour indiquer quelques problèmes qui ont été soulevés, 25 janvier 1966 : Notitiae 2 (1966), 157-161; EV 2, 610.
[x] Dedicazione della chiesa e dell’altare, Premesse, § 158.
[xi] Ordinamento Generale del Messale Romano, 2010, § 303.
[xii] http://liturgia-opus-trinitatis.over-blog.it/article-gli-altari-laterali-69559200.html
[xiii] Nota pastorale della Commissione Episcopale per la Liturgia - CEI L’adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica, § 17. Molto più decoroso quanto prescrive l’ordinamento generale al § 303: “Il vecchio altare non venga ornato con particolare cura per non sottrarre l'attenzione dei fedeli dal nuovo altare”
[xiv] Ordinamento Generale del Messale Romano, 2010, § 298.
[xv]  Principi e norme per l'uso del Messale Romano Precisazioni della Conferenza Episcopale Italiana, § 14.
[xvi] L’adeguamento delle chiese… § 17.
[xvii] Aspetti della ecclesiologia cattolica nella recezione del Concilio Vaticano II, conferenza di Mons. Guido Pozzo, Segretario della Pontificia Commissione "Ecclesia Dei", fatta ai sacerdoti europei della Fraternità San Pietro il 2 luglio 2010 a Wigratzbad; cf. http://www.fssp.org/it/pozzo2010.htm, visitato l’8 febbraio 2012.

giovedì 16 febbraio 2012

Quando l’arte era di casa nella Chiesa


Proponiamo due brevi testi del Card. Alfredo Ottaviani in difesa della purezza e della nobiltà dell’arte sacra. 
Il primo è un discorso tenuto in occasione dell’inaugurazione di una nuova chiesa; mentre il secondo fu tenuto in occasione della Mostra del libro nell’Anno Mariano, inaugurata in Palazzo Venezia nel 1954.

I.
...Mi piace di applaudire con voi all'arte nuova che, messasi al servizio della Chiesa, collabora, come sempre nei tempi più civili, con la preghiera. Quando l'arte stava di casa nella chiesa, non ha avuto mai a dolersi né di piccineria né di cattiva riuscita né di povertà. La storia dell'arte è per i quattro quinti storia dell'arte sacra; e quale arte, figli miei, quanto grande e augusta, nello stesso tempo quanto vicina al cuore del popolo e intelligibile alla prima! Sembra un paradosso, ma quando l'arte mantenne buoni rapporti con la preghiera, era insieme talmente nobile, che teneva in soggezione i sovrani; ed era talmente popolare, che il popolo la sentiva come cosa sua. Le chiese più belle non erano forse la casa del Padre celeste e di tutti indistintamente i suoi figli? Vi prego di farci attenzione, quale edificio è più aperto di una chiesa a tutti e in tutte le ore ed è egualmente non dell'uno o dell'altro cittadino, ma di tutti? Quale casa è più bella della chiesa, casa di Dio e degli uomini? Non senza ragione la parola «duomo» viene da domus! La casa per eccellenza, in una città, è quella: ed è la casa del Creatore e delle sue creature.
Nello stesso tempo, la chiesa è la casa dell'intelligenza. Anche qui ricordatevi il termine «cattedrale»: la casa dove è la cattedra della sapienza. Le cattedrali sono state le prime scuole, le prime università della civiltà. Una truppa di facinorosi e disonesti vorrebbe oggi far credere il contrario e infestando i nostri paesi come incursioni di insetti esotici ed epidemie di morbi lontani, vorrebbe far passare le chiese per covi di oscurantismo. Oh no, veramente; e l'arte, come con Dio e con gli uomini, cosi è stata con l'intelligenza, stando e lavorando nella chiesa. Inoltre, la chiesa è la casa della bontà e l'arte, servendo la chiesa, ha servito la bontà: ha aiutato a sopportare il dolore e ha innalzato il sentimento della gioia. Non è stata, come spesso se non sempre altrove, la ministra del piacere e della crudeltà, bensì è stata la degna sorella della carità.
Cari figli, mi rallegro con voi della vostra arte la quale ha saputo essere arte dei nostri giorni e non mero ricalco di moduli passati, creazione e non scopiazzatura, scoperta nuova e non rispolveratura scolastica; e tuttavia ha saputo stare, con tanta comprensione e bellezza, accanto alla preghiera. Così il vostro esempio giovasse tra coloro che si danno a credere, con qualche inesplicabile e indecifrabile sgorbio, di fare arte! Eppure, con tanto poco si fanno scrupolo, di ingiuriare la chiesa e darle dell'arretrata. Non dico nulla d'altri che presumono popolare la chiesa di mostruosità,  degnissime nel miglior caso, di semifolli, non però di Dio, del popolo e della nostra civiltà.
Ricordatevi, quando l'arte non sa stare con la preghiera, non sa pregare, è un gran brutto segno, è segno che, forse, non è nemmeno arte; ma puro inganno o di sé o degli altri o di sé e degli altri insieme.

II.
La presente solenne chiusura della mostra del libro e dell'arte mariana può considerarsi come il sigillo posto al magnifico libro delle grandiose manifestazioni religiose e culturali che hanno impreziosito l'Anno Mariano. Questa riuscitissima mostra ha messo in evidenza quanto opportunamente anche essa è stata innestata ad altre solenni celebrazioni mariane. Essa, infatti, ha dato un saggio dell'eco grandiosa che nel corso dei secoli hanno avuto, anche nel campo librario e artistico, le profetiche parole di Maria: «Tutte le genti mi chiarneran beata».
Per non parlare di tutti i monumenti sull'inno alto ed eloquente che specialmente le menti umane hanno elevato in lode di Maria, vorrei accennare soltanto a quel cantico sublime che hanno innalzato a Lei le belle fantasie degli artisti, le ardite geometrie degli architetti, le animose produzioni degli scultori, le sublimi armonie musicali dei compositori; le delicate finezze dei miniaturisti, le incantevoli visioni dei pittori, le alate espressioni dei poeti!
L'hanno amata e lodata con l'arte i regni e gli imperi, le città e le campagne, animate di statue, edicole, templi a Lei dedicati; dal gotico al barocco: in ogni fase dell'arte la Madonna è ovunque presente.
Di fronte a questi misteri di amore di Dio e degli uomini verso Maria, che sono insostituibili nodi di luce, i quali per sterminatezza e splendore abbagliante non la cedono che agli splendori del Figlio divino, vien fatto di domandare perché mai, proprio nell'arte, Dio abbia scelto uno dei più sublimi temi illustranti le grandezze di Maria.
E' chiaro che come il Signore dà ai santi il genio dell'amore di Dio e del prossimo, come ai sapienti concede il genio scrutatore delle più profonde verità, così agli artisti accorda il genio della creazione di capolavori non già per soddisfare l'orgoglio umano, ma per quei fini di supremo bene per i quali opera la divina sapienza. Cosi nell'arte mariana, come nella scienza mariologica, tutto deve tendere a render efficace dentro di noi il frutto della grazia divina e delle virtù che ci insegna Maria.
Non c'è miglior maniera di far onore ai doni di Dio che rendere i suoi divini ammaestramenti efficaci dentro di noi, sí che noi viviamo quali altrettanti figli di Dio, simili in volto al primogenito Gesù ed imitatori delle virtù della celeste Madre. Solamente a condizione che le opere di arte contribuiscano a rendere operante la grazia di Dio in noi, potremo legittimamente rallegrarci di tanti capolavori.
In caso contrario la nostra ammirazione per tutte queste cose belle come l'orgoglio di chi le ha prodotte non sarebbe che pura soddisfazione umana, una maschera dell'ambizione, una sosta permanente su ciò che dovrebbe essere tramite verso l'eterno: un capovolgimento dei fini, come vediamo spesso nel mondo moderno. Oggi infatti, vediamo che molti diventano potenti per curare le classi umili; molti arricchiscono per aiutare i poveri e molti artisti esibiscono se stessi, invece di dare il Paradiso a chi anela verso il Cielo.
In fatto, poi, di prerogative dell'arte, occorre ricordare che contro Dio e contro le anime non esistono diritti di nessuno e da nessuna parte; e chi contro Dio e le anime invocasse l'arte e la modernità, oltre che darebbe prova, cosi facendo, di capire poco di tutte queste cose, non solo, cioè, di Dio e delle anime, ma anche di arte e di modernità - a parte tutto ciò - non farebbe che bestemmiare, anche se la sua bestemmia restasse nell'incognito.
C'è chi sostiene che un'opera d'arte non perde la sua bellezza, perché è indecente; ma aggiungiamo subito che quella è una bellezza che disonora l'arte, come certe esibizioni disonorerebbero una donna; e coloro che la celebrassero, cercherebbero clienti non alla bellezza, ma alla turpitudine.
Quando, poi, si tratta di arte sacra, noi dobbiamo mettere l'accento su ciò che vuol dire la parola «sacra». A costo di passare per gente fuori di moda, noi sacerdoti, sopra tutto quando sopra le spalle ci pesasse diretta responsabilità di anime, siamo in diritto, anzi in dovere, di respingere dalle soglie della chiesa tutto ciò che a Dio non conduce. Che dire, di ciò che turbasse le menti e scandalizzasse i cuori? Meglio, cento volte meglio, un'opera d'arte mancata che non un'anima perduta; meglio ignorare una gloria della terra che ignorare la gloria di Dio.
Ma oggi, più che altro, il pericolo è costituito piuttosto da coloro che, non sapendo raggiungere in arte la bellezza, vogliono emergere con la mostruosità, con la stranezza, emula della caricatura e dell'arte dei primitivi con lo scempio delle cose e delle persone sante.
Sembra che un folle rancore devasti l'uomo che non riesce a raggiungere le altezze del passato, ma è rancore contro se stesso; ed è la giusta pena per aver obliato, o addirittura disprezzato i fini sublimi del dono di Dio. Orbene, a quel modo che non ci è permesso di mutilarci fisicamente, così non ci è consentito di calunniarci con l'arte e aiutar per tal via la disgregazione della persona umana.
Siamo, o non siamo immagine di Dio? E se si, che può imbrattarla o deformarla? Più ancora, chi può imbrattarla e deformarla nei Santi, nella Madonna o perfino in Quegli che è speciosus forma prae filiis hominum?
Non si dica che vogliamo comprimere l'arte: sta di fatto che, nei secoli, anche con tutte le giuste esigenze dei sacri canoni, chi più ha fatto lavorare l'arte è stata per l'appunto la Chiesa; e oggi ancora, solo che certi artisti accettassero di non essere altrettanti semidei, ma figli di Dio e come tali lavorassero con la luce della fede e con l'ardore dell'amore cristiano, la casa di Dio sarebbe casa loro e l'arte sarebbe nello stesso istante più umana e più cristiana.

domenica 12 febbraio 2012

Don Nicola Bux su Radio Maria


giovedì 16 febbraio 2012, ore 18,00: torna su Radio Maria l'appuntamento mensile di don Nicola Bux con la rubrica "Chiesa e Liturgia".

lunedì 6 febbraio 2012

Il latino vincolo di unità fra popoli e culture


di Uwe Michael Lang

L'unità culturale e politica del mondo mediterraneo fu un fattore provvidenziale nella diffusione della fede cristiana. In particolare, la diffusione della lingua greca nei centri urbani dell'Impero Romano favorì l'annuncio del Vangelo. Il greco parlato a Oriente e Occidente non era l'idioma classico, bensì la koiné semplificata, il linguaggio comune delle varie nazioni della parte orientale del mondo mediterraneo: Grecia, Asia Minore, Siria, Palestina ed Egitto. 

La koiné greca era anche la lingua del proletariato urbano in Occidente che vi era emigrato dai territori orientali dell'Impero. Roma era divenuta una città multi-etnica e multi-culturale. In essa viveva anche una consistente popolazione ebraica, che sembra parlasse principalmente il greco. La lingua delle prime comunità cristiane a Roma era il greco. Ciò risulta evidente dalla Lettera ai Romani di Paolo e dalle prime opere letterarie cristiane che videro la luce a Roma, per esempio la Prima Lettera di Clemente, il Pastore di Erma e gli scritti di Giustino. 

Nei primi due secoli si avvicendarono parecchi papi con nomi greci e le iscrizioni tombali cristiane erano composte in greco. Durante questo periodo, greca era anche la lingua comune della liturgia romana. 

Lo spostamento verso il latino non cominciò a Roma, ma nell'Africa settentrionale, dove i convertiti al cristianesimo erano in maggioranza nativi di lingua madre latina piuttosto che immigrati greco parlanti. Verso la metà del terzo secolo questa transizione era molto avanzata: membri del clero romano scrivevano a Cipriano di Cartagine in latino; latina era anche la lingua in cui Novaziano compose il suo De trinitate e altre opere, citando una versione latina esistente della Bibbia. Nessun riferimento si fa qui alla cosiddetta Traditio Apostolica, attribuita a Ippolito da Roma, a causa dell'incertezza sulla data, sull'origine e sul vero autore. 

Sembrerebbe che nella seconda metà del terzo secolo il flusso immigratorio dall'Oriente verso Roma diminuisse. Questo cambio demografico comportò un peso crescente dei nativi latino parlanti nella vita della Chiesa di Roma. Ciò nonostante il greco continuò ad essere usato nella liturgia romana, almeno a un certo livello, fino alla seconda metà del IV secolo; questo si evince da una citazione greca della preghiera eucaristica nell'autore latino Mario Vittorino, risalente al 360. 

Intorno a quell'epoca, comunque, la transizione al latino era in fase molto avanzata; ciò risulta molto evidente da un autore altrimenti sconosciuto che scrive fra il 374 e il 382, il quale sostiene che la preghiera eucaristica a Roma si riferisce a Melchisedek come summus sacerdos - un titolo che ci suona familiare dal più tardo Canone della messa.

La più importante risorsa per la storia della prima liturgia latina è Ambrogio di Milano. Nel suo De sacramentis, una serie di catechesi per i neo battezzati tenute intorno al 390, egli cita estesamente la preghiera eucaristica usata a quell'epoca a Milano. I passaggi citati sono le forme più antiche delle preghiere Quam oblationem, Qui pridie, Unde et memores, Supra quae, e Supplices te rogamus del Canone Romano. Altrove, nel De sacramentis, Ambrogio sottolinea il suo desiderio di seguire l'uso della Chiesa romana in tutto; per questa ragione, possiamo ritenere con certezza che questa preghiera eucaristica fosse di origine romana. Anche nei sermoni di Zeno, vescovo di Verona dal 362 al 372, ci sono tracce che attestano la diffusione geografica di questa forma originaria del Canone Romano.

La formulazione letterale delle preghiere citate da Ambrogio non è sempre identica al Canone che Gregorio Magno promulgò alla fine del VI secolo ed è giunto fino a noi con poche modifiche di scarso rilievo rispetto ai libri liturgici più antichi, specialmente il vecchio Sacramentario Gelasiano, risalente alla metà dell'VIII secolo, ma ritenuto eco di usi liturgici più antichi. 

In ogni caso le differenze fra questi due testi sono di gran lunga inferiori alle loro somiglianze, dato che i quasi trecento anni intercorrenti fra di essi furono un periodo di intenso sviluppo liturgico.

Il passaggio dal greco al latino nella liturgia romana avvenne gradualmente e fu completato sotto il pontificato di Damaso I (366-384). Da allora in poi la liturgia a Roma fu celebrata in latino, con l'eccezione di poche reminiscenze dell'uso più antico, come il Kyrie eleison nell'Ordo e le letture in greco nella messa papale.

Stando a Ottato di Milevi, che scrive intorno al 360, c'erano più di quaranta chiese a Roma prima dell'editto di Costantino. Se questa informazione è vera, sarebbe ragionevole opinare che ci fossero comunità latino parlanti nel III secolo, se non prima, che celebravano la liturgia in latino, in particolare la lettura della Sacra Scrittura. 

I Salmi erano stati cantati in latino sin dalle origini e l'antica versione usata nella liturgia aveva acquisito una tale aura di sacralità che Girolamo la corresse soltanto con molta cautela. In seguito egli tradusse il Salterio dall'ebraico non per uso liturgico, come disse, ma per fornire un testo agli studiosi e al dibattito. Christine Mohrmann suggerisce che la liturgia battesimale fosse tradotta in latino sin dal II secolo. Nessuna certezza si può avere su questi punti, ma è chiaro che ci fu un periodo di transizione e che esso fu lungo. 
Mohrmann introduce una distinzione utile fra, primo, "testi di preghiera", dove la lingua è soprattutto un mezzo di espressione, secondo, testi "destinati a essere letti, l'Epistola e il Vangelo", e, terzo, "testi confessionali", come il credo. Nei testi di preghiera ci troviamo di fronte a modi di esprimersi; negli altri primariamente a forme di comunicazione. 
Recenti ricerche su lingua e rito, come l'opera di Catherine Bell, confermano l'intuizione di Mohrmann che la lingua ha differenti funzioni in differenti parti della liturgia, che vanno oltre la mera comunicazione o informazione. Queste riflessioni teoretiche ci aiutano a capire lo sviluppo della prima liturgia romana: quelle parti in cui gli elementi di comunicazione erano prevalenti, come la lettura delle Scritture, furono tradotte prima, mentre la preghiera eucaristica continuò ad essere recitata in greco per un periodo molto più lungo. 

La "sociolinguistica" - una disciplina accademica relativamente nuova - ci mette in guardia sul fatto che la scelta di una lingua rispetto a un'altra non è mai questione neutrale o trasparente. Di conseguenza è importante considerare il cambio dal greco al latino nella liturgia romana nei suoi contesti storici, sociali e culturali.

Gli storici dell'antichità hanno indicato che la formazione di lingua latina liturgica fece parte di uno sforzo a largo raggio di cristianizzazione della cultura e della civiltà romana.

Nella seconda metà del IV secolo i vescovi più influenti in Italia, soprattutto Damaso a Roma e Ambrogio a Milano, erano impegnati a cristianizzare la cultura dominante dei loro giorni. Nella città di Roma c'era una forte presenza pagana e specialmente l'aristocrazia continuava ad aderire ai vecchi costumi, anche se nominalmente erano divenuti cristiani. Roma non era più il centro del potere politico, ma la sua cultura continuava ad avere radici nella mentalità delle sue elites. 

Il IV secolo è ora considerato un periodo di rinascimento letterario, con un rinnovato interesse per i "classici" della poesia e della prosa romane. Gli imperatori del IV secolo coltivarono questa Latinitas, e ci fu una riscoperta del latino anche ad Oriente. Con tenacia caratteristica, Roma mantenne le sue antiche tradizioni. 

In relazione a ciò, i papi del tardo IV secolo promossero un progetto consapevole e comprensivo di appropriazione dei simboli della civiltà romana da parte della fede cristiana. Parte di questo tentativo fu l'appropriazione di spazio pubblico tramite impegnativi progetti edilizi. Dopo che gli Imperatori della dinastia di Costantino avevano dato il via con le monumentali basiliche del Laterano e San Pietro, come pure con le basiliche dei cimiteri fuori delle mura urbane, i papi continuarono questo programma edilizio che avrebbe trasformato Roma in una città dominata da chiese. 
Il progetto più prestigioso fu la costruzione di una nuova basilica dedicata a San Paolo sulla Via Ostiense, sostituendo il piccolo edificio costantiniano con una nuova chiesa simile per dimensioni a San Pietro. Un altro aspetto importante fu l'appropriazione del tempo pubblico con un ciclo di feste cristiane lungo il corso dell'anno al posto delle celebrazioni pagane (vedi il calendario Filocaliano dell'anno 354). La formazione del latino liturgico fece parte di questo sforzo omnicomprensivo di evangelizzare la cultura classica. 
Christine Mohrmann ravvisa in essa il fortuito combinarsi di un rinnovamento della lingua, ispirato dalla novità della rivelazione, e di un tradizionalismo stilistico fermamente radicato nel mondo romano. Il latino liturgico ha la gravitas romana ed evita l'esuberanza dello stile di preghiera dell'Oriente cristiano, che si ritrova anche nella tradizione gallicana. Questa non fu un'adozione della lingua "vernacola" nella liturgia, dato che il latino del Canone Romano, delle collette e dei prefazi della messa, fu rimosso dall'idioma della gente comune. Essa era una lingua fortemente stilizzata che difficilmente avrebbe capito un cristiano medio di Roma della tarda antichità, considerato specialmente che il livello di istruzione era molto basso rispetto ai nostri tempi. Inoltre lo sviluppo della Latinitas cristiana può avere reso la liturgia più accessibile alla gente di Milano o Roma, ma non necessariamente a coloro la cui lingua madre era il gotico, il celtico, l'iberico o il punico. 

È possibile immaginare una Chiesa occidentale con lingue locali nella sua liturgia, come in Oriente, dove, in aggiunta al greco, erano usati il siriano, il copto, l'armeno, il georgiano e l'etiope.

Ad ogni modo la situazione in Occidente era fondamentalmente differente; la forza unificatrice del papato era tale che il latino divenne l'unica lingua liturgica. Questo fu un fattore importante per favorire la coesione ecclesiastica, culturale e politica.

Il latino liturgico fu sin dai primordi una lingua sacra separata dalla lingua del popolo; tuttavia la distanza divenne maggiore con lo sviluppo delle culture e delle lingue nazionali in Europa, per non menzionare i territori di missione. 

"La prima opposizione al latino liturgico - ha scritto Christine Mohrmann - coincise con la fine del latino medievale come "seconda lingua viva", che fu rimpiazzato da una lingua veramente "morta", il latino degli umanisti. E l'opposizione dei nostri giorni al latino liturgico ha qualcosa a che fare con l'indebolimento dello studio del latino - e con la tendenza al "secolarismo"" ("The Ever-Recurring Problem of Language in the Church", in Études sur le latin des chrétiens, IV, Roma, 1977). 

Il Concilio Vaticano II volle risolvere la questione estendendo l'uso del vernacolo nella liturgia, soprattutto nelle letture (Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, art. 36, n. 2).

Allo stesso tempo, esso sottolineò che "l'uso della lingua latina ... sia conservato nei riti latini" (Sacrosanctum Concilium, art. 36, n. 1; cfr anche art. 54). I Padri conciliari non immaginavano che la lingua sacra della Chiesa occidentale sarebbe stata rimpiazzata dal vernacolo.

La frammentazione linguistica del culto cattolico nel periodo post-conciliare si è spinta così oltre che la maggioranza dei fedeli oggi può a stento recitare un Pater noster insieme agli altri, come si può notare nelle riunioni internazionali a Roma o a Lourdes.

In un'epoca contrassegnata da grande mobilità e globalizzazione, una lingua liturgica comune potrebbe servire come vincolo di unità fra popoli e culture, a parte il fatto che la liturgia latina è un tesoro spirituale unico che ha alimentato la vita della Chiesa per molti secoli. Infine, è necessario preservare il carattere sacro della lingua liturgica nella traduzione vernacola, come fa notare l'istruzione della Santa Sede Liturgiam authenticam del 2001.

(©L'Osservatore Romano - 15 novembre 2007)