di don Alfredo M. Morselli
Recentemente il Card. Kurt Koch[i], nel corso di una
conferenza svolta presso la facoltà teologica dell’università di Friburgo[ii], ha ribadito che “Non si
dia per scontato che l’attuale odierna prassi liturgica si fondi sui testi
conciliari: così, per esempio, nessun accenno da cui si deduca che il prete,
nell’Eucarestia, debba rivolgersi verso
i partecipanti alla celebrazione”[iii].
Il Card. Joseph
Ratzinger aveva scritto, in proposito, nel 2003:
Per
coloro che abitualmente frequentano la chiesa i due effetti più evidenti della
riforma liturgica del Concilio Vaticano Secondo sembrano essere la scomparsa
del latino e l'altare orientato verso il popolo. Chi ha letto i testi al
riguardo si renderà conto con stupore che, in realtà, i decreti del Concilio
non prevedono nulla di tutto questo.
Non
vi è nulla nel testo conciliare sull'orientamento dell'altare verso il popolo;
quel punto è stato sollevato solo nelle istruzioni postconciliari. La direttiva
più importante si ritrova al paragrafo 262 della Institutio Generalis
Missalis Romani, l'Introduzione Generale al nuovo Messale Romano
pubblicata nel 1969, e afferma: «L'altare maggiore sia costruito
staccato dalla parete, per potervi facilmente girare intorno e celebrare
rivolti verso il popolo (versus
populum)».
Le
Istruzioni Generali per il Messale, pubblicate nel 2002, mantenevano senza
modifiche questa formulazione, tranne per l'aggiunta della clausola
subordinata «la qual cosa è desiderabile ovunque sia possibile». In
molti ambienti questo venne interpretato come un irrigidimento del testo
del 1969, a indicare come fosse un obbligo generale erigere altari di
fronte al popolo “ovunque sia possibile”. Tale interpretazione venne tuttavia
respinta il 25 settembre 2000 dalla Congregazione per il Culto Divino, che
dichiarò come la parola "expedit” (“è desiderabile”) non
comportasse un obbligo, ma fosse un semplice suggerimento. La Congregazione afferma
che si deve distinguere l'orientamento fisico dall'orientamento spirituale.
Anche se un sacerdote celebra versus populum, deve sempre essere
orientato versus Deum per Iesum Christum (verso Dio attraverso Gesù
Cristo). Riti, simboli e parole non possono mai esaurire l'intima realtà del
mistero della salvezza, ed è per questo motivo che la ammonisce contro le
posizioni unilaterali e rigide in questo dibattito.
Si
tratta di un chiarimento importante. Mette in luce quanto vi è di relativo
nelle forme simboliche esterne della liturgia, e resiste al fanatismo che,
purtroppo, non è stato estraneo alle controversie degli ultimi quarant'anni[iv].
L’idea generalizzata secondo la quale c’è «un obbligo
generale erigere altari di fronte al popolo “ovunque sia possibile”» ha fatto
si che in quasi tutte le antiche chiese e cattedrali venisse costruito un nuovo
altare maggiore senza rimuovere l’antico.
Ci chiediamo se ciò in realtà è coerente con la nuova
normativa post-conciliare, o non sia piuttosto una forzatura, dovuta alle
errate convinzioni che un nuovo altare rivolto al popolo sia obbligatorio e che
questo non sia altro che l’indicazione del Vaticano II.
I – La prassi in contrasto con la normativa.
Vediamo cosa prescrive esattamente la normativa vigente:
Nelle
chiese già costruite, quando il vecchio altare è collocato in modo da rendere
difficile la partecipazione del popolo e non può essere rimosso senza
danneggiare il valore artistico, si costruisca un altro altare fisso,
realizzato con arte e debitamente dedicato. Soltanto sopra questo altare si
compiano le sacre celebrazioni. Il vecchio altare non venga ornato con
particolare cura per non sottrarre l'attenzione dei fedeli dal nuovo altare[v].
La prassi abituale è in contrasto con la normativa perché
questa prevede la possibilità di un secondo altare fisso soltanto in un caso particolare, ben definito (quando la
partecipazione del popolo è resa
difficile), mentre in pratica un nuovo altare è stato collocato in quasi
tutte le chiese antiche.
La gravità di questa generalizzazione
sta tutta nel suo presupposto implicito: con la celebrazione verso l’abside la
partecipazione attiva sarebbe sempre
resa difficile.
E qui notiamo un duplice errore: in primo luogo si dimentica
che partecipazione attiva nella liturgia è la partecipazione al Sacrificio di Cristo.
Scriveva il Card. Joseph Ratzinger nel 1999:
Il
concilio Vaticano II ci ha proposto come pensiero guida della celebrazione
liturgica l'espressione participatio
actuosa, partecipazione attiva di tutti all’Opus Dei, al culto divino. […] In
che cosa consiste, però, questa partecipazione attiva? Che cosa bisogna fare?
Purtroppo questa espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo
significato esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si
trattasse di far entrare concretamente in azione il numero maggiore di persone
possibile il più spesso possibile. La parola «partecipazione» rinvia, però, a
un'azione principale, a cui tutti devono avere parte. Se, dunque, si vuole scoprire
di quale agire si tratta, si deve prima di tutto accertare quale sia questa
«actio» centrale, a cui devono avere parte tutti i membri della comunità[vi].
E qual è l’azione della liturgia ?
La
vera azione della liturgia, a cui noi tutti dobbiamo avere parte, è azione di
Dio stesso[vii].
Il Card. Joseph Ratzinger non ha certo detto, nelle sue pur profonde
considerazioni, delle novità assolute. Questi stessi concetti erano già stati
espressi da Pio XII, nel discorso Vous Nous avez demandé:
La
liturgia della Messa ha come scopo di esprimere sensibilmente la grandezza del
mistero che vi si compie, e gli sforzi
attuali tendono a farvi partecipare i fedeli nel modo più attivo ed
intelligente possibile. Benché questo intento sia giustificato, v'è
pericolo di provocare una diminuzione della riverenza, se vien distolta
l'attenzione dall'azione principale, per rivolgerla alla magnificenza di altre
cerimonie.
Qual
è quest'azione principale del sacrificio eucaristico? Noi ne abbiamo parlato
espressamente nell'Allocuzione del 2 novembre 1954. Noi riferivamo in primo
luogo l'insegnamento del Concilio di Trento: «In divino hoc sacrificio, quod
in Missa peragitur, idem ille Christus continetur et incruente immolatur, qui
in ara crucis semel se ipsum cruente obtulit... Una enim eademque est
hostia, idem nunc offerens sacerdotum ministerio, qui se ipsum tunc in cruce
obtulit, sola offerendi ratione diversa (Conc. Trid.,
Sess. XXII, cap. 2)» [viii].
Commentiamo ora questo brano:
Giusti tutti gli sforzi che tendono a fare partecipare i
fedeli nel modo più attivo ed intelligente... Ma… attenzione! – dice il Papa –
, non si perda ciò che è principale, cioè la partecipazione all’Azione di
Cristo!
Da un lato rimpiangiamo un po’ i pericoli di 50 anni fa:
essere distolti dal cuore dell’azione liturgica dalla magnificenza delle
cerimonie; oggi i pericoli sono i tanti ben peggiori abusi, accomunati da un
comune denominatore: l’azione dell’assemblea viene a prevalere sull’azione di
Cristo, sulla sua Immolazione Sacramentale, sul suo offrirsi: è a questa offerta che dobbiamo più che
attivamente partecipare.
L’azione esterna, il fare, l’agire, non sono un valore
assoluto, ma lo sono in tanto quanto ci permettono di unirci al Santo
Sacrificio, tanto quanto ci permettono di essere quella gocciolina di acqua che
il Sacerdote mette nel vino: questo gesto esprime come tutta la nostra vita
viene sussunta nello stesso Sacrifico di Cristo, quel Sacrificio che realmente
si riattualizza sull’Altare.
Se dunque la partecipazione liturgica è soprattutto l’unione
al Sacrifico di Cristo, come è possibile che l’altare rivolto all’abside la
renda difficoltosa? E come è
possibile che per tanti secoli la Chiesa abbia creato difficoltà ai suoi figli in ciò che ha di più sacro? Eppure
questo è il presupposto oggettivo della prassi generalizzata.
Vediamo ora il II errore: concediamo all’espressione partecipazione un significato meno
tecnico, volendo indicare con essa semplicemente l’attenzione esteriore al
rito, la partecipazione ai canti, il coinvolgimento nella gestualità: anche in
questo caso, presupporre che, con l’altare rivolto verso l’abside, venga
universalmente resa difficile la
partecipazione del popolo (condizione necessaria – ricordiamo – per poter
collocare un secondo altare fisso) è sempre una forzatura.
Scriveva a questo riguardo il Card. Giacomo Lercaro, in un
documento ufficiale del Consilium ad
exequendam Consitutionem de Sacra Liturgia:
In
primo luogo, per una liturgia viva e partecipata non è necessario che l’altare
sia rivolto al popolo. Tutta la liturgia della parola, nella messa, si celebra
alle sedi o all’ambone, e dunque di fronte al popolo; per la liturgia
eucaristica, le installazioni di microfoni, ormai comuni, aiutano
sufficientemente alla partecipazione.
Inoltre
bisogna tener conto della situazione architettonica e artistica la quale, in
molti casi, è del resto protetta da severe leggi civili[ix].
II – Altre forzature e incongruenze
Un secondo altare a tutti i costi rivolto al popolo, assunto
nella prassi come principio della liturgia riformata, mal si concilia con altri
aspetti del rinnovamento liturgico e con altre norme. Almeno in due casi
troviamo di fronte a delle vere e proprie acrobazie giuridiche.
1° principio
disatteso: l’altare deve essere unico
Le norme in questo senso parlano chiaro; ecco un paio di
esempi:
L'unico
altare, presso il quale si riunisce come in un sol corpo l'assemblea dei
fedeli, è segno dell'unico nostro Salvatore Gesù Cristo e dell'unica Eucarestia
della Chiesa[x].
Nelle
nuove chiese si costruisca un solo altare che significhi alla comunità dei
fedeli l'unico Cristo e l'unica Eucaristia della Chiesa[xi].
Il noto liturgista, P. Matias Augé, per ribadire quanto –
secondo lui – siano inopportuni gli altari laterali in una chiesa, evoca tutto
il pathos di Sant’Ignazio d’Antiochia:
Accorrete
tutti come all’unico tempio di Dio, intorno all’unico altare che è l’unico Gesù
Cristo che procedendo dall’unico Padre è ritornato a lui unito” (Ai Magnesii
VII,1)[xii].
Ma se l’unicità dell’altare impedisce che si possa celebrare
rivolti al popolo, allora ecco che un secondo altare diventa lecito. Che fare
in questi casi: toglier le tovaglie e non adornare l’altare maggiore
precedente. Una sorta di sbattezzo
dell’altare.
Nel
caso in cui l'altare preesistente venisse conservato, si eviti di coprire la
sua mensa con la tovaglia e lo si adorni molto sobriamente, in modo da lasciare
nella dovuta evidenza la mensa dell'unico altare per la celebrazione[xiii]
Ma, chiediamoci, è forse la tovaglia che rende un altare
tale? Capolavori d’arte, adornati per secoli con tanta cura, con ricami, con
fiori, con ceri, con tovaglie, ora lasciati nudi
come non sono mai stati pensati da chi li ha fatti… e tutto perché l’altare
deve essere unico, anche quando sono due.
2° principio
disatteso: l’altare deve essere fisso
Conviene
che in ogni chiesa ci sia l'altare fisso, che significa più chiaramente e
permanentemente Gesù Cristo, pietra viva (Cf. 1Pt 2,4; Ef 2,20); negli altri
luoghi, destinati alle celebrazioni sacre, l'altare può essere mobile.
L'altare
si dice fisso se è costruito in modo da aderire al pavimento e non poter quindi
venir rimosso; si dice invece mobile se lo si può trasportare[xiv].
Quando però non si può celebrare rivolti al popolo, allora anche
questo principio è derogato: si faccia l’altare mobile, che però deve essere
definitivo.
L’altare
fisso della celebrazione sia unico e rivolto al popolo. Nel caso di difficili
soluzioni artistiche per l’adattamento di particolari chiese e presbitèri, si
studi, sempre d’intesa con le competenti Commissioni diocesane, l’opportunità
di un altare «mobile» appositamente progettato e definitivo[xv].
Qualora
non sia possibile erigere un nuovo altare fisso, si studi comunque la
realizzazione di un altare definitivo, anche se non fisso (cioè amovibile)[xvi].
Cosa vuol dire altare definitivo
e mobile: che sia trasportabile ma
che si sempre quello? Oppure che non sia murato definitivamente? Oppure che sia
trasportabile, ma lasciato sempre al suo posto?
Questa indicazione sa tanto di escamotage, per collocare in ogni caso un altare rivolto al popolo,
anche quando c’è già un altare maggiore e quando la Sovrintendenza ai beni
artistici non permette la costruzione di un nuovo altare fisso.
III – Last but not least…
Con la promulgazione della lettera motu proprio data «Summorum Pontificum» (2007) e della istruzione
«Universae Ecclesiae» (2011), avendo le S. Messe celebrate nella forma
ordinaria ed extra-ordinaria pari dignità, non si può pensare di progettare o
di riadattare gli edifici sacri come se l’antico rito non esistesse più.
Ogni chiesa deve prevedere la possibilità che in essa si possa
celebrare – decorosamente e rispettando esattamente le rubriche – anche secondo
l’antica forma del rito romano. Cosa che potrebbe non essere possibile se il
presbiterio fosse ingombrato dal nuovo altare, o se sullo stesso altare non si
potesse celebrare versus absidem, o
se a quello mancassero i requisiti prescritti, quali gradini, candelieri,
crocifisso, predella, opportune tovaglie etc.
Conclusioni.
In base a quanto detto, l’idea dell’altare a tutti i costi
rivolto al popolo, ritenuta generalmente – a torto – un principio conciliare per eccellenza, ha fatto sì che molte antiche
chiese venissero adeguate indebitamente con un secondo altare fisso. Stando
alla lettera della normativa, si tratta di un abuso: abuso pericoloso perché fa
intendere che il modo di celebrare per tanti secoli abbia reso difficile la
partecipazione del popolo alla liturgia.
Se il Concilio non ha mai parlato di celebrazione verso il
popolo, l’idea che l’altare a tutti i costi debba essere ad esso rivolto, e il
conseguente riadattamento forzoso degli antichi edifici di culto, non sarà forse uno dei tristi effetti di ciò
che Mons. Guido Pozzo, segretario della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, ha chiamato ideologia para-conciliare?
se il Santo Padre parla di due
interpretazioni o chiavi di lettura divergenti, una della discontinuità o
rottura con la Tradizione cattolica, e una del rinnovamento nella continuità,
ciò significa che la questione cruciale o il punto veramente determinante
all’origine del travaglio, del disorientamento e della confusione che hanno
caratterizzato e ancora caratterizzano in parte i nostri tempi non è il
Concilio Vaticano II come tale, non è l’insegnamento oggettivo contenuto nei suoi
Documenti, ma è l’interpretazione di tale insegnamento. […]
Sta ciò che possiamo chiamare l’ideologia
conciliare, o più esattamente para-conciliare, che si è impadronita del
Concilio fin dal principio, sovrapponendosi a esso. Con questa espressione, non
si intende qualcosa che riguarda i testi del Concilio, né tanto meno
l’intenzione dei soggetti, ma il quadro di interpretazione globale in
cui il Concilio fu collocato e che agì come una specie di condizionamento
interiore nella lettura successiva dei fatti e dei documenti. Il Concilio non è
affatto l’ideologia paraconciliare, ma nella storia della vicenda ecclesiale e
dei mezzi di comunicazione di massa ha operato in larga parte la mistificazione
del Concilio, cioè appunto l’ideologia paraconciliare[xvii].
Alla chiesa docente la risposta; a chi scrive, membro della
chiesa discente, la possibilità di porre rispettosamente la domanda.
_____________________
[i]
Attualmente presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità
dei Cristiani e della Commissione per le Relazioni Religiose con gli Ebrei.
[ii] http://www.oecumene.radiovaticana.org/ted/Articolo.asp?c=558608,
visitato l’8 febbraio 2012.
[iii] “Allerdings lasse sich nicht alles, was heute
liturgische Praxis sei, durch Konzilstexte begründen. So sei beispielsweise
nirgends die Rede davon, dass der Priester die Eucharistie den
Gottesdienstteilnehmern zugewandt leite”.
[iv] J. Ratzinger, prefazione a U. M. Lang, Rivolti al Signore. L’orientamento nella preghiera liturgica,
Siena: Cantagalli, 2006, p. 7.
[v] Ordinamento Generale del Messale Romano,
2010, § 303.
[vi]
Joseph Ratzinger, Introduzione alla
Spirito della Liturgia, Cinisello Balsamo: San Paolo, 2001, p.167.
[vii] Ibidem, p. 169.
[viii]
Discorso ai partecipanti al 1° Congresso internazionale di Liturgia Pastorale”,
del 22 settembre 1956: la traduzione è presa da: Insegnamenti Pontifici, vol VIII, Roma: Pia Società San Paolo,
1959/2, pp. 354-374, passim.
[ix] Consilium ad exequendam Constitutionem de Sacra
Liturgia, Lettre circulaire
aux Présidents des Conférences Episcopales L’heureux
dévelopment pour indiquer quelques problèmes qui ont été soulevés, 25
janvier 1966 : Notitiae 2
(1966), 157-161; EV 2, 610.
[x] Dedicazione
della chiesa e dell’altare, Premesse, § 158.
[xi] Ordinamento Generale del Messale Romano,
2010, § 303.
[xii] http://liturgia-opus-trinitatis.over-blog.it/article-gli-altari-laterali-69559200.html
[xiii] Nota
pastorale della Commissione Episcopale per la Liturgia - CEI L’adeguamento delle chiese secondo la
riforma liturgica, § 17. Molto più decoroso quanto prescrive l’ordinamento generale al § 303: “Il
vecchio altare non venga ornato con particolare cura per non sottrarre
l'attenzione dei fedeli dal nuovo altare”
[xiv] Ordinamento Generale del Messale Romano,
2010, § 298.
[xv] Principi e norme per l'uso del Messale Romano
Precisazioni della Conferenza Episcopale Italiana, § 14.
[xvi] L’adeguamento delle chiese… § 17.
[xvii] Aspetti della ecclesiologia cattolica nella
recezione del Concilio Vaticano II, conferenza di Mons. Guido Pozzo,
Segretario della Pontificia Commissione "Ecclesia Dei", fatta ai
sacerdoti europei della Fraternità San Pietro il 2 luglio 2010 a Wigratzbad;
cf. http://www.fssp.org/it/pozzo2010.htm, visitato l’8 febbraio 2012.
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