mercoledì 23 maggio 2012

Il canto gregoriano: un estraneo in casa sua

di Fulvio Rampi* 

Il titolo che ho voluto dare al mio intervento è l’amara sintesi conclusiva della riflessione ecclesiale – sarebbe più corretto dire “mancata riflessione” – post-conciliare in merito al canto gregoriano. Mi sono detto molte volte che sarebbe molto più facile parlare del canto gregoriano se la "Sacrosanctum Concilium", al famoso art. 116, si fosse espressa più o meno così: 
“La Chiesa, pur apprezzando da sempre le alte qualità artistiche ed espressive del canto gregoriano, non lo riconosce come canto proprio della Liturgia romana: perciò, nelle azioni liturgiche, pur senza escluderlo, non gli si riservi il posto principale”. 

Tutti si sarebbero affrettati a dargli una bella medaglia, ad apprezzarne il valore musicale in quanto fondamento della musica occidentale; insomma, pressocché tutti sarebbero ancora oggi concordi nel considerarlo una grande figura culturale del passato, insigne testimone della liturgia della Chiesa, ma irrimediabilmente superato da nuove istanze liturgiche alle quali non sarebbe più in grado di rispondere in modo appropriato. Nel riconoscergli gli onori meritati con un servizio di tanti secoli, sarebbe la Chiesa stessa ad assegnargli un nuovo posto conveniente – ma non più il principale – nella sua liturgia. Sarebbe ragionevole, più semplice, certamente più comodo. 

La prassi liturgico-musicale post-conciliare, sappiamo, ha perfino ampiamente superato nella realtà la triste fantasia del falso articolo 116 che mi sono permesso di inventare. Già stupirebbero le spaventose aridità liturgico-musicali in risposta al suddetto ipotetico dettato conciliare. Ma il tutto assume connotati scandalosi – in senso etimologico – alla luce del vero articolo conciliare: “La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana: perciò, nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale”

La Chiesa, nella sapienza della sua Tradizione, non ha mai avuto dubbi sul canto gregoriano: il testo della SC non fa che porre il sigillo su una realtà indiscutibile, su una consegna definitiva, dunque su un impegno di ricomprensione che non può mai venir meno. Una ricomprensione che, proprio perché fondata su una consegna definitiva, non può più permettersi domande sbagliate. La domanda: “gregoriano sì o no?” è sbagliata e non esige risposta, già data in modo definitivo dalla Chiesa. Nell’articolo conciliare che ho citato, la Chiesa, in fondo, ribadisce sostanzialmente un’ovvietà: faccio notare che si pone l’accento sul fatto che il canto gregoriano appartiene alla Liturgia della Chiesa, dunque gli viene assegnata una categoria di giudizio che trascende il puro fatto artistico. La Chiesa non si è mai identificata in un’opera d’arte, in uno stile architettonico o in un repertorio musicale. Con il canto gregoriano non ha fatto un’eccezione (anche se così potrebbe sembrare), nel senso che non ha mai giudicato il gregoriano dal punto di vista artistico, ma lo ha associato intimamente al suo vero tesoro: la Parola di Dio. Questa solo è sua, nel senso che alla Chiesa ne spetta l’interpretazione. 

Dunque, parlando di canto gregoriano, c’è innanzitutto in discussione non tanto un dato musicale, quanto piuttosto un elemento ecclesiale fondativo, che è precisamente il rapporto fra Chiesa e Parola. È su questo concetto, funzionale alla comprensione del complesso fenomeno che va sotto il nome generico di canto gregoriano, che sosteremo nella nostra riflessione. 

Dal documento conciliare emerge l’invito non alla rimozione, ma alla ricomprensione del canto liturgico e innanzitutto del canto gregoriano. Ciò significa promuovere finalmente una nuova riflessione ecclesiale forti non solo di un sicuro deposito della Tradizione, ma di sempre nuove acquisizioni provenienti da vari ambiti di studio e di ricerca (la paleografia e la semiologia gregoriana, la modalità; e poi la patristica, la liturgia, la teologia, la storia dell’arte...) che concorrono senza preconcetti, in modo serio e non ideologico a dar corpo e concretezza al principio vitale del "Nova et vetera", che è il respiro della Tradizione della Chiesa. Continuità e rottura non vanno riferite all’oggetto (nella fattispecie il gregoriano), bensì alla sua rinnovata comprensione, a sua volta frutto di nuove modalità di accostamento, maturate in modo particolare nell’arco dell’ultimo secolo. Alla luce dell’ultimo Concilio, si impone davvero un ripensamento del canto gregoriano – dunque, a partire da questo, di tutta la musica liturgica – secondo un rapporto complementare e non antitetico fra continuità e rottura, dove l’una (la continuità) garantisce l’efficacia e la retta intenzione dell’altra (la rottura). 

La vera continuità, data dal suo essere per sempre il canto proprio della liturgia, impone la rottura, il superamento, la "ablatio" di prassi magari consolidate e di tutto ciò che, col tempo, ha finito per coprirne ed offuscarne la vera natura e la forza espressiva. Se per continuità si intendesse il puro ripristino di una prassi preconciliare o la difesa di comprensioni e concezioni cristallizzate nonché impermeabili a qualsiasi “provocazione” proveniente dai molti ambiti accademici della ricerca musicale, anche la rottura seguirebbe la medesima logica, limitandosi ad una opposizione uguale e contraria, orientata a far coincidere il ripensamento con la rimozione. Di fatto, il dibattito post-conciliare si è sostanzialmente appiattito e impoverito nella contrapposizione – dai contorni fatalmente ideologici – fra un gregoriano comunque indiscutibile e un gregoriano da eliminare tout-court.

La domanda malposta, di cui si è appena detto, ha prodotto vari disastri e ha suscitato altre domande altrettanto false e non meno devastanti che hanno interessato concetti alti e principi sacrosanti quali, ad esempio, la "participatio actuosa", miseramente ridotta ad amara barzelletta. Si è via via prodotta e consolidata una situazione paradossale, in ordine alla quale perfino la normale esecuzione di una normale antifona gregoriana, da sempre auspicabile e raccomandata, si è fatta di colpo pericolo per la liturgia. Da dato oggettivo di canto "proprio" (ufficiale, per capirci) della Chiesa, la presenza del gregoriano nella liturgia è passata ad essere regolata dalla più aleatoria soggettività, ossia dalla benevolenza o dall’avversione del celebrante, del liturgista, del parroco, del vescovo di turno. Ciò che sorprende è la disinvoltura ecclesiale con la quale viene normalmente accolto e assecondato tale grave malinteso. Mi pare che in nome del tanto invocato “spirito del Concilio” si sia di fatto semplicemente capovolta la “lettera”. Tutto ciò è stato prodotto a partire da una domanda sbagliata. 

Per tornare a far domande giuste – e, come si è detto, necessarie – sul gregoriano e su tutta la musica liturgica con le sue nuove prospettive, bisogna innanzitutto fare un passo indietro, nel senso cioè di tornare a riaffermare, come prima cosa, ciò che, in verità, è da sempre scontato. Nell’attuale situazione, riaffermare un’ovvietà è già una grande novità, ma è un primo passo vero – anche se triste e imbarazzante – per recuperare un’infinità di terreno perduto. 

Allora chiediamoci quale sia questo terreno perduto, dove stia, in sostanza, la motivazione profonda che fa del gregoriano una vera “perla preziosa”. Al di là di semplificazioni mortificanti o di preconcetti di vario tipo, andiamo per una volta al sodo e facciamoci la domanda al tempo stesso più semplice e più impegnativa: cos’è il canto gregoriano? Vi sono vari livelli di risposta, ciascuno dei quali definisce gradualmente il percorso di conoscenza della sua vera identità. 

1. La risposta più semplice sta in ciò che abbiamo detto finora: il canto gregoriano è il canto proprio della liturgia della Chiesa Cattolica. Conviene tenere sempre presente questo punto di partenza: la prima qualità del gregoriano è di ordine ecclesiale e conferisce a questo repertorio (chiamiamolo così) una categoria di giudizio che trascende la pura dimensione artistica e rimanda direttamente al rapporto speciale fra Chiesa e Parola di Dio. La Chiesa ha posto in una relazione unica il canto gregoriano con la Parola, al punto di identificare in esso il proprio pensiero su quella Parola, la propria riflessione, la propria interpretazione, la propria esegesi. La Chiesa ci dice, insomma, che quando cantiamo il gregoriano esprimiamo precisamente il suo pensiero su quei testi. Ci dice innanzitutto questo. Non solo questo, ma innanzitutto questo. C’è molto di più, si intende, ma intanto abbiamo la garanzia di “respirare” con la Chiesa e di farci ammaestrare dalla sua interpretazione della Scrittura. Basterebbe questo a definire il canto gregoriano un vero simbolo della Chiesa Cattolica. 

2. Un secondo livello di risposta è questo: il gregoriano è – aggiungiamo qualcosa – la versione sonora dell’interpretazione della Parola. Spunta il dato sonoro del gregoriano: l’interpretazione della Parola si fa suono, prende vita come evento musicale, si fa suono della Parola. Comprendiamo bene quale conseguente responsabilità venga affidata al suono, concepito essenzialmente come veicolo di senso, di significato. Ecco l’ulteriore passaggio: l’interpretazione della Parola diventa suono. Dunque: la Chiesa accoglie il suono “consacrandolo” a parte integrante dell’evento liturgico e ne fa “veicolo di senso”, ovvero molto di più che semplice “abbellimento” di un testo”. Questo è un passaggio decisivo. Il testo cantato deve coincidere con il testo spiegato; la spiegazione del testo sta in quella precisa organizzazione di suoni. Il canto gregoriano diventa dunque la spiegazione della Parola come vuole la Chiesa attraverso un preciso progetto sonoro. 

3. Una risposta ancor più completa alla nostra domanda iniziale è la seguente: il gregoriano è la contestualizzazione liturgica dell’interpretazione sonora della Parola. Significa che la Parola non va soltanto interpretata e cantata, ma va soprattutto contestualizzata: la Parola diventa cioè evento liturgico, collocandosi per questo al cuore dell’esperienza ecclesiale. Attenzione: la Parola non è posta semplicemente all’interno della liturgia, ma diventa essa stessa liturgia. Il “canto proprio della liturgia” è davvero “liturgia propria in canto”. 

Fermiamoci un istante e guardiamo il percorso che molto brevemente abbiamo seguito. Siamo partiti dalla Parola, ossia da una consegna alla Chiesa; un dono o, se si vuole, un talento da non sotterrare, ma da trafficare, da far fruttare, da rielaborare e infine da riconsegnare. La riconsegna è un evento sonoro che ne comunica il senso e che assurge a liturgia. Il dato musicale, la componente artistica è funzionale, anzi, coincide con questo progetto esegetico. In altre parole, il gregoriano trasmette il pensiero della Chiesa su quel testo e soprattutto mostra non solo come lo stesso testo è stato compreso, ma come conviene celebrarlo. Su quel testo viene solennemente pronunciato l’amen, ne viene in sostanza riconosciuta la verità. 

4. A questo punto occorre aggiungere subito un’altra considerazione in questo nostro cammino di comprensione e in risposta alla domanda iniziale: la natura liturgica del gregoriano sta nella sua capacità di strutturarsi in stili e forme precise. Questo ulteriore passaggio merita una premessa, così sintetizzabile: non si dà liturgia senza forma. La liturgia è l’esatto contrario dell’improvvisazione. La forma non è apparenza, ma, al contrario, rivela la sostanza, ne è il segno, la prova, la garanzia. Possiamo perfino spingerci ad affermare che, in verità, non esistono i canti gregoriani, bensì le forme gregoriane proprie di ogni canto. Ciascuna forma si presenta, pur nella varietà delle movenze melodico-ritmiche, secondo una precisa natura strutturale: addirittura la forma stessa – altro passo importante nel nostro cammino – è intimamente associata al momento liturgico. 

Così se mi riferisco, ad esempio, a un introito (canto d’ingresso), definisco automaticamente momento, forma, stile di quel brano. Definisco, nella fattispecie, non solo il canto che apre la celebrazione eucaristica, ma sottintendo che si tratta di una salmodia antifonata (forma) in stile semiornato (stile compositivo). Un introito è questo, è nato così, ha questa forma, questo stile, questo stampo: non può che essere così, altrimenti non è un introito. Se dico graduale, offertorio, responsorio o qualsiasi altra forma gregoriana, identifico sempre strutture precise, non composizioni o canti generici. 

Mi si consenta un inciso personale sulla situazione di oggi. Mi chiedo se è legittimo e che senso può avere disattendere sistematicamente il presupposto, consegnatoci dalla tradizione liturgica attraverso l’antica monodia, che regola da secoli il rapporto fra forma musicale e momento liturgico. Penso, ad esempio, ai canti dell’"Ordinarium Missae", in particolare il Gloria e il Credo che, a causa di una ormai diffusa ed inarrestabile ansia assemblearista, sono divenuti ciò che non sono mai stati, ossia forme responsoriali. Per far cantare l’assemblea, con l’illusione e il grave malinteso di promuoverne la partecipazione attiva, si sono piazzati in modo indiscriminato ritornelli facili (spesso banali) in ogni angolo della celebrazione: il misero risultato finale è un appiattimento su improbabili forme responsoriali totalmente estranee alla natura di momenti liturgico-musicali da sempre pensati dalla Chiesa in altro modo. 

Tornando a noi, abbiamo potuto fin qui osservare come il testo, per farsi liturgia, debba subire passaggi obbligati e ordinati. Questa è la radice del canto liturgico: la Chiesa con il canto gregoriano scolpisce per sempre nella pietra questa necessità; la Chiesa stessa, si badi, non dice che bisogna cantare solo il gregoriano, ma attraverso il gregoriano ci consegna per sempre una necessità di percorso. Dobbiamo essere consapevoli che ignorare o smentire nella prassi un principio ordinatore, significa contraddire di fatto il pensiero della Chiesa in merito al canto liturgico. 

5. A questo punto, come se non bastasse, bisogna, per così dire, “calare l’asso”. Sì, perché sono convinto che la cosa più importante di tutto questo percorso non sia ancora stata detta. La vera forza del canto gregoriano, infatti, sta altrove, ossia – allo stesso modo di ciò che succede per la Sacra Scrittura – nella visione d’assieme. Un brano gregoriano, pur possedendo tutte le caratteristiche stilistico-formali appena ricordate, pur avendo subìto questa sorta di complessa “lavorazione” della quale ho finora parlato, sarebbe poca cosa se non fosse inserito in un progetto globale, di enormi dimensioni, che abbraccia tutto l’anno liturgico e che si nutre di relazioni, di allusioni, di rimandi, in una parola di formule. Non posso cantare il gregoriano senza sapere, o almeno senza mettere in conto che ogni brano è parte viva dell’intero repertorio, col quale è posto in una relazione senza la quale il valore intrinseco del brano stesso ne risulterebbe fortemente sminuito. Solo nel gioco di relazioni, di rimandi, di allusioni più o meno velate posso cogliere, tanto nel Grande Codice della Scrittura quanto negli antichi codici liturgico-musicali, il senso di un episodio, di un’affermazione, di un frammento musicale più o meno esteso. 

Il gregoriano vive di queste relazioni: la sua matrice culturale, che lo colloca nel tempo della tradizione orale, non può che rivelarsi attraverso la prodigiosa tecnica mnemonica. Il gregoriano è davvero il canto della memoria. Ecco un’altra possibile definizione in risposta alla nostra prima domanda. L’intero repertorio, l’intero enorme progetto, così minuziosamente pensato e costruito, è affidato alla memoria. Non è questa la sede per un’analisi del percorso storico del gregoriano, ma giova almeno ricordare che le più antiche testimonianze scritte – risalenti ai secoli X e XI – offrono testimonianza di un repertorio sterminato nel quale è la memoria a determinare le relazioni. Ogni brano gregoriano è un frammento del tutto, e tale frammento si scopre funzionale ad un globale progetto esegetico. Mi pare di poter accostare il gregoriano all’immagine paolina ben nota del corpo umano, in cui nulla vive per sé, ma tutto è in relazione.  

Ci siamo spinti un po’ avanti e abbiamo intravisto prospettive vertiginose nella elaborazione di un testo sacro. Abbiamo dato uno sguardo d’assieme dall’alto e abbiamo visto ciò che personalmente amo paragonare ad una grande cattedrale. Cosa possiamo dire di fronte ad una cattedrale? Certamente è fondamentale conoscerne il materiale, le tecniche di costruzione, come è fondamentale conoscere le caratteristiche del testo nel canto gregoriano, dalla sua provenienza alle sue qualità fonetiche, alla sua pronuncia fondata sul valore sillabico e così via. Cosa sarebbe, tuttavia, una cattedrale privata del suo progetto globale, del suo valore simbolico e allusivo? Il materiale, prima grezzo, poi elaborato, è in ultima analisi funzionale ad una forma creata a sua volta da proporzioni perfette e sorretta dal concetto di ordine, presupposto ineliminabile anche nel canto gregoriano. È l’ordine che crea la forma e offre le chiavi di lettura di un progetto. In fondo, come non pensare alla stessa Creazione che, così come emerge dal racconto della Genesi, ci appare come il risultato di un “fare ordine” con infinita sapienza? 

Il gregoriano, come ho detto, si presenta davanti a noi con le forme di una grande cattedrale ed è al centro della nostra città, della musica liturgica. È così, oggettivamente così. La difficoltà e la complessità di un nuovo inizio nella musica liturgica non possono giustificare giudizi sommari, progetti tanto sconsiderati quanto mediocri che contraddicono in radice la storia della cultura ecclesiale; cultura che si è sempre nutrita dei migliori prodotti del pensiero dell’uomo. Il gregoriano, nella sua qualità saliente di “voce della Chiesa”, non è ancora stato studiato a sufficienza; la Chiesa stessa, dichiarandolo “suo”, ci assicura che esso non ha esaurito le sue potenzialità e che da questo tesoro, che abbiamo scoperto essere eco della Parola di Dio, siamo chiamati a trarre “cose nuove e cose antiche”. 

Se avremo pazienza e desiderio sincero di accostarlo e di ascoltarlo, ci insegnerà a quali altezze può condurre la "lectio divina" sulla Parola. Sì, il gregoriano è la forma musicale della "lectio divina" della Chiesa. Come potremmo infatti definire la “lavorazione” del testo sacro, di cui si è detto finora, se non accostando le sue fasi ai diversi gradi della "lectio divina", a partire dalla "ruminatio" per giungere a vertiginose vette contemplative? Mi chiedo: come cambierebbero le odierne riflessioni sul canto liturgico se partissero da un accostamento serio e libero al canto gregoriano? 

Solo un ingenuo può pensare che il canto sacro sia esclusivamente il canto gregoriano. Ma non accorgersi o togliere di mezzo il canto gregoriano equivale a togliere una cattedrale da una città e da una diocesi. Non solo, equivale piuttosto a togliere di mezzo il presupposto per rendere feconda ogni riflessione sulle nuove proposte di musica liturgica; questo perché la Chiesa col gregoriano ci ha detto una volta per tutte che l’intima natura del canto sacro sta principalmente nel trasformare la Parola di Dio in evento liturgico. Ogni altra prospettiva, anche legittima, è secondaria. È un obiettivo raggiunto con il gregoriano, è una testimonianza che sta lì davanti a noi. 

Il canto gregoriano è tutto questo, ed è stato perfino capace di orientare le forme del canto popolare. L’immenso patrimonio del cosiddetto canto gregoriano popolare è in realtà un frutto maturo di un lungo percorso secolare che si radica nella intima natura ecclesiale della antica monodia liturgica. Con i secoli si può sostituire il gregoriano, ma non si può sostituire il pensiero di fondo che lo ha determinato. Certamente il gregoriano è il prodotto artistico figlio del suo tempo, e come tale superabile, ma senza che per questo ne venga cancellata l’impronta indelebile data per sempre dalla Chiesa. Agostino direbbe, in riferimento al piano di Dio, “Muti il disegno, ma non il progetto”. Una riflessione ecclesiale che in merito alla musica liturgica non affronti seriamente la questione gregoriana è moneta falsa che compra merce falsa. 

Conclusione

Ma, concretamente, cosa si può fare? Cosa possono fare una parrocchia, una cattedrale, una piccola "schola cantorum" o un grande coro? Quali sono le nostre potenzialità, quali sono le nostre risorse, quali sono le nostre energie? Ritorniamo tutti nelle nostre comunità dove ci attendono mille problemi concreti da gestire che, normalmente, tolgono spazio a possibili nuove riflessioni. E poi, anche condividendo queste osservazioni, come le possiamo incarnare in un contesto ecclesiale non disposto, salvo rare eccezioni, a prendere in considerazione simili prospettive liturgico-musicali? Si ha spesso la netta sensazione che dove non domina l’ideologia regni comunque l’indifferenza, per certi versi un male ancora peggiore. In un panorama complessivamente desolante, che fare? Da dove iniziare? Che atteggiamento adottare? 

Ecco, c’è un atteggiamento che mi pare possa valere per tutte le realtà, indipendentemente dalle loro potenzialità e dalla situazione specifica: si tratta della fiducia nei confronti del gregoriano. Fidarsi del gregoriano significa confidare innanzitutto nel fatto che la Chiesa ha dichiarato “sua” una cosa buona. Una cosa buona che, come tale, è a nostro vantaggio, è per il nostro bene. 

Il primo passo concreto è la volontà di entrare con fiducia da una porta che si è fatta oggettivamente molto stretta. Certo, il gregoriano è difficile, non regala emozioni facili, non promette risultati immediati e a basso costo. Non si fa conoscere subito, non dà confidenza a chiunque, e a chi lo vuole incontrare suggerisce la pazienza di un incontro vero e profondo: “venite e vedrete”, che potremmo parafrasare in “studiate e capirete”. Non giudichiamolo fuori dalla realtà di oggi: siamo noi fuori dal pensiero della Chiesa. Non consideriamolo irraggiungibile: per chi lo vuole incontrare, i mezzi e gli strumenti ci sono, basta cercarli; esso si mostra poco a poco e regala emozioni che nulla hanno a che fare col vago senso di spiritualismo, di misticismo o di atmosfere rarefatte, troppo spesso associate impropriamente al canto gregoriano. Ci vorrà tempo, i risultati tarderanno ad arrivare, a causa di una fatica che, nell’attuale situazione di diffuso “sospetto”, si è fatta doppiamente pesante. 

Detto questo, perché non accettare, nella Chiesa, questa sfida impossibile? Avere fiducia nel gregoriano significa volergli riservare il posto principale, prima ancora che nella liturgia, nel nostro cuore. È il cuore della Chiesa che lo deve riconoscere come dono, come grazia, come suo tesoro e non come ingombro. È lo sguardo che deve cambiare, e alla Chiesa è chiesto di più che al mondo della cultura. 

Nei Conservatori e negli ambienti musicali – posso testimoniarlo personalmente – il gregoriano è molto apprezzato: è riconosciuto come linguaggio musicale che ha dato origine alla cultura musicale dell’Occidente. Il canto gregoriano non ha difficoltà ad “affermarsi” nel mondo musicale, segno che anche dal punto di vista squisitamente artistico – che ci siamo proposti addirittura di non considerare in questa riflessione – il canto proprio della liturgia romana non ha mai avuto complessi di inferiorità e sa farsi rispettare. Ma, lo ripeto, alla Chiesa – ed è precisamente lì il vero problema – oggi è richiesto molto di più. La Chiesa non può nascondere il canto gregoriano, ma non può neppure solamente apprezzarlo per ciò che ha rappresentato in passato: essa è chiamata soprattutto ad amarlo. Ad amarlo oggi, a ritrovare oggi le vere motivazioni per ritenerlo nuovamente suo, a stupirsi e a ringraziare con gioia per tanta autentica bellezza, a riconoscerlo nuovamente come forma ottimale della propria fede, a riportarlo per questo al centro della santa liturgia, culmine e fonte della vita in Cristo. 

Ho iniziato questa mia riflessione citando un articolo del magistero che, per fortuna, non esiste. Vorrei concludere allo stesso modo, ma con una sostanziale differenza. Da un documento di fantasia che, pur fotografando una situazione reale, non vorremmo mai nella realtà, passo a suggerirne un altro che, al contrario, non fotografa affatto la situazione attuale e vorremmo invece leggere. Eccolo: 

“È fatto obbligo ad ogni chiesa cattedrale, basilica o santuario di dotarsi di una 'schola gregoriana' stabile, anche di pochi elementi, a voci maschili o femminili, in grado di eseguire le parti proprie in canto gregoriano almeno nelle principali solennità e festività dell’anno liturgico. La direzione della 'schola gregoriana' è da affidarsi unicamente ad un maestro che abbia conseguito un titolo specifico nell’ambito del canto gregoriano, che gli studi più recenti hanno felicemente restituito alla sua integrità e purezza”. 

Quest’ultima riga non è mia, ma è copiata dal motu proprio di Pio X "Tra le sollecitudini" (1903). A più di un secolo di distanza, possiamo parlare di una nuova "ablatio" che, lungo tutto il secolo XX, ha continuato a restituire nuova integrità e nuova purezza al canto gregoriano. L’auspicio è che la Chiesa si accorga, finalmente, di ciò che è stato fatto. Con il motu proprio di Pio X si era data concretezza ad un nuovo percorso e ad una nuova stagione. Ora, per i vertici istituzionali della Chiesa, come per tutti noi, è il tempo dei fatti. 


* Relazione tenuta il 19 maggio 2012 a Lecce nel convegno: "Colloqui sulla musica sacra. Cinquant'anni dal Concilio Vaticano II alla luce del magistero di Benedetto XVI". L'autore è gregorianista e docente al conservatorio di musica di Torino 

1 commento:

  1. E' amaro e mortificante dover ammettere che il canto gregoriano sia divenuto - da cinquant'anni a questa parte - "un estraneo in casa sua". Purtroppo è così e, ahimè!, noi appassionati gregorianisti ci sentiamo spiazzati da chi ci impone i nuovi (dis)gusti liturgico-musicali, che non fanno altro che allontanare la gente dalle chiese. A nostra volta, ci sentiamo derisi quando proponiamo qualche inno eucaristico o antifona mariana in latino all'interno di una Liturgia. Veniamo subito visti come antiquati e, ancor peggio, reazionari. Inutile convincere questa gente di essere in errore, dal momento che il canto gregoriano, e per testo e per melodia, è davvero “canto proprio della liturgia romana" al quale si deve riservare "il posto principale” (SC 116).
    Una soluzione? Riproporre la forma straordinaria del Rito Romano, che altro non è che la stessa liturgia gregoriana, in cui, come mi disse una volta un santo monaco dell'Abbazia della Madonna della Scala di Noci (BA), c'è tutta la pìetas christiana.

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