Sante Messe in rito antico in Puglia

lunedì 7 maggio 2012

Responsabilità e promessa per tutti

Traduzione italiana della lettera che Benedetto XVI ha inviato a monsignor Robert Zollitsch, arcivescovo di Friburgo e presidente della Conferenza episcopale tedesca, a proposito della traduzione in tedesco delle parole «pro multis» nelle preghiere eucaristiche della messa.

Dal Vaticano, 14 aprile 2012

Eccellenza,
Venerato, caro Arcivescovo,
            In occasione della Sua visita del 15 marzo 2012, Lei mi ha fatto sapere che per quanto riguarda la traduzione delle parole «pro multis» nelle Preghiere Eucaristiche della Santa Messa ancora non c’è unità tra i Vescovi dell’area di lingua tedesca. Incombe, a quanto pare, il pericolo che per la pubblicazione della nuova edizione del  «Gotteslob» [libro dei canti e preghiere], attesa in tempi brevi, alcune parti dell’area di lingua tedesca vogliano mantenere la traduzione «per tutti», anche qualora la Conferenza episcopale tedesca convenisse a scrivere «per molti», così come richiesto dalla Santa Sede. Le avevo promesso che mi sarei espresso per iscritto riguardo a questa importante questione, al fine di prevenire una tale divisione nel luogo più intimo della nostra preghiera. La lettera che qui, per Suo tramite, indirizzo ai membri della Conferenza Episcopale Tedesca, sarà inviata anche agli altri Vescovi dell’area di lingua tedesca.
            Anzitutto, mi lasci spendere brevemente una parola sulle origini del problema. Negli anni sessanta, quando bisognava tradurre in tedesco, sotto la responsabilità dei Vescovi, il Messale Romano, esisteva un consenso esegetico sul fatto che la parola «i molti», «molti» in Isaia 53, 11s, fosse una forma di espressione ebraica per indicare la totalità, «tutti». La parola «molti» nei racconti dell’istituzione di Matteo e di Marco, sarebbe stata quindi un «semitismo» e avrebbe dovuto essere tradotta con «tutti». Questo concetto si applicò anche al testo latino direttamente da tradurre, in cui il «pro multis» avrebbe rimandato, attraverso i racconti evangelici, a  Isaia 53 e perciò sarebbe stato da tradurre con «per tutti». Questo consenso esegetico, nel frattempo, si è sgretolato; esso non esiste più. Nella traduzione ecumenica tedesca della Sacra Scrittura, nel racconto dell’Ultima Cena, si legge: «Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, che è versato per molti» (Mc  14, 24; cfr.  Mt 26, 28). Con questo si evidenzia una cosa molto importante: la resa di «pro multis» con «per tutti» non era affatto una semplice traduzione, bensì un’interpretazione, che sicuramente era e rimane fondata, ma tuttavia è già un’interpretazione ed è più di una traduzione.
            Questa fusione di traduzione e interpretazione appartiene, in un certo senso, ai principi che, subito dopo il Concilio, guidarono la traduzione dei libri liturgici nelle lingue moderne. Si era consapevoli di quanto la Bibbia ed i testi liturgici fossero lontani dal mondo del parlare e del pensare dell’uomo d’oggi, così che anche tradotti essi sarebbero rimasti ampiamente incomprensibili ai partecipanti alla liturgia. Era un’i m p re - sa nuova che i testi sacri fossero resi accessibili, in traduzione, ai partecipanti alla liturgia, pur rimanendo, tuttavia, a una grande distanza dal loro mondo; anzi, in questo modo, i testi sacri apparivano proprio nella loro grande distanza. Così, ci si sentì non solo autorizzati, ma addirittura in obbligo di fondere già nella traduzione l’interpretazione, e di accorciare in questo modo la strada verso gli uomini, il cui cuore ed intelletto si voleva fossero raggiunti appunto da queste parole.
            Fino ad un certo punto, il principio di una traduzione contenutistica e non necessariamente letterale del testo di base rimane giustificato. Dal momento che devo recitare le preghiere liturgiche continuamente in lingue diverse, noto che, talora, tra le diverse traduzioni, non è possibile trovare quasi niente in comune e che il testo unico che ne è alla base, spesso è riconoscibile soltanto da lontano. Vi sono state poi delle banalizzazioni che rappresentano delle vere perdite. Così, nel corso degli anni, anche a me personalmente, è diventato sempre più chiaro che il principio della corrispondenza non letterale, ma strutturale, come linea guida nella traduzione, ha i suoi limiti. Seguendo considerazioni di questo genere, l’Istruzione sulle traduzioni  «Liturgiam authenticam», emanata dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti il 28 marzo 2001, ha posto di nuovo in primo piano il principio della corrispondenza letterale, senza ovviamente prescrivere un verbalismo unilaterale. L’acquisizione importante che è alla base di questa Istruzione consiste nella distinzione, a cui ho già accennato all’inizio, fra traduzione e interpretazione. Essa è necessaria sia nei confronti della parola della Scrittura, sia nei confronti dei testi liturgici. Da un lato, la parola sacra deve presentarsi il più possibile come essa è, anche nella sua estraneità e con le domande che porta in sé; dall’altro lato, è alla Chiesa che è affidato il compito dell’interpretazione, affinché — nei limiti della nostra attuale comprensione — ci raggiunga quel messaggio che il Signore ci ha destinato. Neppure la traduzione più accurata può sostituire l’interpretazione: rientra nella struttura della rivelazione il fatto che la Parola di Dio sia letta nella comunità interpretante della Chiesa, e che fedeltà e attualizzazione siano legate reciprocamente. La Parola deve essere presente quale essa è, nella sua propria forma, forse a noi estranea; l’interpretazione deve misurarsi con la fedeltà alla Parola stessa, ma al tempo stesso deve renderla accessibile all’ascoltatore di oggi.
            In questo contesto, è stato deciso dalla Santa Sede che, nella nuova traduzione del Messale, l’espressione «pro multis» debba essere  tradotta come tale e non insieme già interpretata. Al posto della versione interpretativa «per tutti» deve andare la semplice traduzione «per molti». Vorrei qui far notare che né in Matteo, né in Marco c’è l’articolo, quindi non «per i molti», ma «per molti». Se questa decisione è, come spero, assolutamente comprensibile alla luce della fondamentale correlazione tra traduzione e interpretazione, sono tuttavia consapevole che essa rappresenta una sfida enorme per tutti coloro che hanno il compito di esporre la Parola di Dio nella Chiesa. Infatti, per coloro che abitualmente partecipano alla Santa Messa questo appare quasi inevitabilmente come una rottura proprio nel cuore del Sacro. Essi chiederanno: ma Cristo non è morto per tutti? La Chiesa ha modificato la sua dottrina? Può ed è autorizzata a farlo? È qui in atto una reazione che vuole distruggere l’eredità del Concilio? Per l’esperienza degli ultimi 50 anni, tutti sappiamo quanto profondamente i cambiamenti di forme e testi liturgici colpiscono le persone nell’animo; quanto fortemente possa inquietare le persone una modifica del testo in un punto così centrale. Per questo motivo, nel momento in cui, in base alla differenza tra traduzione e interpretazione, si scelse la traduzione «molti», si decise, al tempo stesso, che questa traduzione dovesse essere preceduta, nelle singole aree linguistiche, da una catechesi accurata, per mezzo della quale i Vescovi avrebbero dovuto far comprendere concretamente ai loro sacerdoti e, attraverso di loro, a tutti i fedeli, di che cosa si trattasse. Il far precedere la catechesi è la condizione essenziale per l’entrata in vigore della nuova traduzione. Per quanto ne so, una tale catechesi finora non è stata fatta nell’area linguistica tedesca. L’intento della mia lettera è chiedere con la più grande urgenza a Voi tutti, cari confratelli, di elaborare ora una tale catechesi, per parlarne poi con i sacerdoti e renderla contemporaneamente accessibile ai fedeli.
            In una tale CATECHESI si dovrà forse, in primo luogo, spiegare brevemente perché nella traduzione del Messale dopo il Concilio, la parola «molti» venne resa con «tutti»: per esprimere in modo inequivocabile, nel senso voluto da Gesù, l’universalità della salvezza che proviene da Lui. Ma poi sorge subito la domanda: se Gesù è morto per tutti, perché nelle parole dell’Ultima Cena Egli ha detto «per molti»? E perché allora noi ci atteniamo a queste parole di istituzione di Gesù? A questo punto bisogna anzitutto aggiungere ancora che, secondo Matteo e Marco, Gesù ha detto «per molti», mentre secondo Luca e Paolo ha detto «per voi». Così il cerchio, apparentemente, si stringe ancora di più. Invece, proprio partendo da questo si può andare verso la soluzione. I discepoli sanno che la missione di Gesù va oltre loro e la loro cerchia; che Egli era venuto per riunire da tutto il mondo i figli di Dio che erano dispersi (Gv 11, 52). Il «per voi», rende, però, la missione di Gesù assolutamente concreta per i presenti. Essi non sono degli elementi anonimi qualsiasi di un’enorme totalità, bensì ogni singolo sa che il Signore è morto proprio «per me», «per noi». «Per voi» si estende al passato e al futuro, si riferisce a me del tutto personalmente; noi, che siamo qui riuniti, siamo conosciuti ed amati da Gesù in quanto tali. Quindi questo «per voi» non è una restrizione, bensì una concretizzazione, che vale per ogni comunità che celebra l’Eucaristia e che la unisce concretamente all’amore di Gesù. Il Canone Romano ha unito tra loro, nelle parole della consacrazione, le due letture bibliche e, conformemente a ciò, dice: «per voi e per molti». Questa formula è stata poi ripresa, nella riforma liturgica, in tutte le Preghiere Eucaristiche.
            Ma, ancora una volta: perché «per molti»? Il Signore non è forse morto per tutti? Il fatto che Gesù Cristo, in quanto Figlio di Dio fatto uomo, sia l’uomo per tutti gli uomini, sia il nuovo Adamo, fa parte delle certezze fondamentali della nostra fede.  Su questo punto vorrei solamente ricordare tre testi della Scrittura: Dio ha consegnato suo Figlio «per tutti», afferma Paolo nella Lettera ai Romani (Rm 8, 32). «Uno è morto per tutti», dice nella Seconda Lettera ai Corinzi, parlando della morte di Gesù (2 Cor 5, 14). Gesù «ha dato se stesso in riscatto per tutti», è scritto nella Prima Lettera a Timoteo (1 Tm 2, 6). Ma allora, a maggior ragione ci si deve chiedere, ancora una volta: se questo è così chiaro, perché nella Preghiera Eucaristica è scritto «per molti»? Ora, la Chiesa ha ripreso questa formulazione dai racconti dell’istituzione nel Nuovo Testamento. Essa dice così per rispetto verso la parola di Gesù, per mantenersi fedele a Lui fin dentro la parola. Il rispetto reverenziale per la parola stessa di Gesù è la ragione della formulazione della Preghiera Eucaristica. Ma allora noi ci chiediamo: perché mai Gesù stesso ha detto così? La ragione vera e propria consiste nel fatto che, con questo, Gesù si è fatto riconoscere come il Servo di Dio di Isaia 53, ha dimostrato di essere quella figura che la parola del profeta stava aspettando. Rispetto reverenziale della Chiesa per la parola di Gesù, fedeltà di Gesù alla parola della «Scrittura»: questa doppia fedeltà è la ragione concreta della formulazione «per molti». In questa catena di fedeltà reverenziale, noi ci inseriamo con la traduzione letterale delle parole della Scrittura.
            Come abbiamo visto anteriormente che il «per voi» della traduzione lucano-paolina non restringe, ma concretizza; così ora possiamo riconoscere che la dialettica «molti» — «tutti» ha il suo proprio significato. «Tutti» si muove sul piano ontologico — l’essere ed operare di Gesù comprende tutta l’umanità, il passato, il presente e il futuro. Ma di fatto, storicamente, nella comunità concreta di coloro che celebrano l’Eucaristia, Egli giunge solo a «molti». Allora è possibile riconoscere un triplice significato della correlazione di «molti» e «tutti». Innanzitutto, per noi, che possiamo sedere alla sua mensa, dovrebbe significare sorpresa, gioia e gratitudine perché Egli mi ha chiamato, perché posso stare con Lui e posso conoscerlo. «Sono grato al Signore, che per grazia mi ha chiamato nella sua Chiesa ...» [canto religioso «Fest soll mein Taufbund immer stehen», strofa 1]. Poi, però, in secondo luogo questo significa anche responsabilità. Come il Signore, a modo suo, raggiunga gli altri — «tutti» — resta, alla fine, un mistero suo. Senza dubbio, però, costituisce una responsabilità il fatto di essere chiamato da Lui direttamente alla sua mensa, così che posso udire: «per voi», «per me», Egli ha patito. I molti portano responsabilità per tutti. La comunità dei molti deve essere luce sul candelabro, città sul monte, lievito per tutti. Questa è una vocazione che riguarda ciascuno, in modo del tutto personale. I molti, che siamo noi, devono sostenere la responsabilità per il tutto, consapevoli della propria missione. Infine, si può aggiungere un terzo aspetto. Nella società attuale abbiamo la sensazione di non essere affatto «molti», ma molto pochi — una piccola schiera, che continuamente si riduce. Invece no — noi siamo «molti»: «Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua», dice l’Apocalisse di Giovanni (Ap  7, 9). Noi siamo molti e rappresentiamo tutti. Così ambedue le parole «molti» e «tutti» vanno insieme e si relazionano l’una all’altra nella responsabilità e nella promessa.
            Eccellenza, cari confratelli nell’Episcopato! Con tutto questo, ho voluto indicare le linee fondamentali di contenuto della catechesi per mezzo della quale sacerdoti e laici dovranno essere preparati il più presto possibile alla nuova traduzione. Auspico che tutto questo possa servire, allo stesso tempo, ad una più profonda partecipazione alla Santa Eucaristia, inserendosi così nel grande compito che ci aspetta con «l’Anno della fede». Posso sperare che la catechesi venga presentata presto e diventi così parte di quel rinnovamento liturgico, per il quale il Concilio si è impegnato fin dalla sua prima sessione.
            Con la benedizione e i saluti pasquali,
            Mi confermo Suo nel Signore

            BENEDICTUS P P. XVI

4 commenti:

  1. Finalmente si comincia a mettere in rilievo la "esattezza" del latino, lingua sacra, e la "inesattezza" delle lingue volgari, nelle quali i testi liturgici (Messale e lezionari) e i canti gregoriani sono tradotti.
    Proprio vero il detto "tradurre è tradire"!

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  2. Sono d'accordo e non vedo l'ora che Sua Santità dica anche una parola definitiva sulla messa in Latino nella quale avviene la transustanziazione

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    1. Non so esattamente a cosa il commentatore anonimo allude quando auspica che "Sua Santità [Benedetto XVI] dica anche una parola definitiva sulla messa in Latino nella quale avviene la transustanziazione", ma una cosa è certa: questa lettera del Papa è destinata a fare scuola! In ballo, come ho già detto nel precedente commento, non c'è solo il "pro multis", ma una miriade di testi e preghiere in latino, la cui traduzione andrebbe rivista, o - come io auspico - tralasciata, perchè, in qualche modo, desacralizzante. Un esempio fra tutti? L'inno del "Te Deum" in italiano: è, per una usare un'espressione ratzingeriana, una "danza vuota intorno al vitello d'oro, che siamo noi". Infatti, l'incipit di quest'inno è: "Noi ti lodiamo, Dio; ti proclamiamo Signore"; come se la Sua signoria dipendesse da noi: poveri illusi! Invece, l'originale latino conserva tutto il suo fascino, che esprime profonda adorazione: "Te Deum laudamus; Te Dominum confitemur", Te come Dio lodiamo; Te come Signore confessiamo. In questi termini l'inno del "Te Deum" è una vera e propria professione di fede che la comunità dei credenti fa nel suo Signore e Dio, piuttosto che in se stessa, rifuggendo dall'essere idolatrica.

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  3. Sto leggendo "L'ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani" (ed. Feltrinelli 2007) di Umberto Galimberti, che a pagina 23 così scrive: "Malato è anche il 'lògos' frantumato in lingue regionali quando dovrebbe portare con sé, come dice il suo nome, l'unità della ragione".
    Meditate gente, meditate!

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