Rubrica di teologia liturgica a cura di Don Mauro Gagliardi
di Nicola Bux*
Forse è cruciale comprendere il concetto di memoria per capire il tempo liturgico: esso non significa il ricordo del passato, ma la capacità dell’uomo, da Dio donata, di comprendere in unità nell’oggi il passato e il futuro. In effetti, l’uomo che perde la memoria, non solo dimentica il passato, ma non comprende chi egli è al presente, e tanto meno può proiettarsi nel futuro.
Poi, nel fluire del tempo vi sono le feste cristiane – festum sta a ricordare qualcosa a cui si accorre, ci si affretta, si celebra, ossia si frequenta numerosi – ma anche i giorni feriali nei quali non si è necessariamente in molti, eppure ugualmente si fa memoria di Cristo, il quale è oggi e sempre. Le feste sono in gran parte la continuazione e il compimento di quelle giudaiche, a cominciare dalla Pasqua.
Non basta commemorarle, o meglio le si commemora rendendo grazie – perciò le feste si celebrano essenzialmente con l’Eucaristia –, ma è necessario anche tramandarle alle nuove generazioni e conformare ad esse la propria vita. La moralità dell’uomo dipende dalla memoria di Dio, dice sant’Agostino nelle Confessioni: più si festeggia il Signore, potremmo dire, e più si diventa morali. Il tempo liturgico si rivela così tempo della Chiesa, collocato tra la Pasqua storica e l’avvento del Signore alla fine dei tempi. Il mistero di Cristo, attraversando il tempo, fa nuove tutte le cose. Perciò ogni volta che facciamo festa, riceviamo la grazia che ci rinnova e ci trasforma (cf. CCC, 1164).
Ma nel lessico teologico-liturgico c’è un avverbio temporale che racchiude bene il tempo liturgico: «oggi», in latino hodie, in greco kairòs. La liturgia, specialmente nelle grandi feste, afferma che Cristo oggi è nato, oggi è risorto, oggi è asceso al cielo. Non è una trovata: Gesù stesso diceva: «oggi è entrata la salvezza in questa casa...», «oggi sarai con me in paradiso». Con Gesù, Figlio di Dio, il tempo dell’uomo è «oggi», è presente. È lo Spirito Santo che fa questo, con la sua irruzione nel tempo e nello spazio. In Terra Santa, la liturgia aggiunge anche l’avverbio di luogo: «qui», hic. Lo Spirito di Gesù risorto fa entrare l’uomo nell’«ora» di Dio che è venuta in Cristo e che attraversa il cosmo e la storia. Con la citazione dello Pseudo-Ippolito, il Catechismo ricorda che, per noi che crediamo in Cristo, è sorto un giorno di luce, lungo, eterno, che non si spegnerà più: la Pasqua mistica (CCC, 1165).
Il giorno di Cristo, il giorno che è Cristo, costituisce il tempo liturgico. Chiunque segue Lui, si offre a Lui, si unisce al suo sacrificio vivente con tutto se stesso, compie l’opera di Dio, cioè fa liturgia.
Il tempo liturgico richiama la dimensione cosmica della creazione e della redenzione del Signore che ha ricapitolato in sé tutte le cose, tutto il tempo e lo spazio. Per questo la preghiera cristiana, la preghiera di coloro che adorano il vero Dio, è rivolta a Oriente, punto cosmico dell’apparizione della Presenza. E il tempo e lo spazio liturgici l’hanno fissato specialmente nella Croce, a cui rivolgersi per guardare al Signore. Come ripristineremo la percezione tra noi del tempo liturgico? Guardando a Cristo, principio e fine, alfa e omega dell’Apocalisse, che fa nuove continuamente tutte le cose. Proprio il simbolismo della Pasqua, con l’accensione del cero, sta a ricordarlo.
* Don Nicola Bux è Professore di Liturgia orientale a Bari e Consultore delle Congregazioni per la Dottrina della Fede, per le Cause dei Santi, per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti; nonché dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice.