prof. Toni Bux
Tralasciando tutto quello che appartiene alle estemporanee mediatiche, Vittorio Sgarbi ha da sempre avuto ben chiaro il rapporto misterioso che esiste tra l’arte ed il sacro.
Il libro si interroga su due aspetti fondamentali del rapporto tra sacro e arte contemporanea, ponendosi due domande:
- In che modo gli artisti contemporanei percepiscono il rapporto con il divino?
- Da dove nasce la difficoltà di rappresentare oggi i temi della cristianità, che per secoli son stati la prima fonte di ispirazione artistica?
Rivolgendo l’attenzione su quel rapporto drammatico tra artista – tradizione – fede, dove il rapporto tra fede e tradizione è inscindibile, perché solo attraverso la memoria storica dei padri della chiesa Cristo è presenza viva.
Partendo dall’attenta analisi di quello che riporta Papa Benedetto XVI nel suo libro “Teologia della liturgia”:
“… la fede ha a che fare con Dio, e solo dove la sua presenza si fa vicina, solo dove il timore reverenziale nei suoi confronti le intenzioni umane passano in seconda linea, si crea quella credibilità, quell’atmosfera degna della fede che fa sbocciare la fede”,
arrivando ad affermare che la fede è un elemento essenziale nella creazione di un edificio sacro, e in sua assenza, si manifesta l’impossibilità di realizzare arte e architettura credibile.
Un rapporto, quello tra arte e sacro, ormai mancante di “regole”, dove le indicazioni dettate dal Concilio Vaticano II, sono state interpretate con perfetto spirito di liberismo, una “umanizzazione della chiesa” che ha portato all’abolizione del latino dalla liturgia, una necessità di semplificazione che ha compromesso il mistero della Parola, con le quali l’autore è profondamente in disaccordo affermando quanto segue:
“…il latino ecclesiastico però non è solo una lingua, ma anche espressione di regole precise, di codici che vigevano nella pittura, così come nella scultura e nell’architettura…”.
Ritrovandosi in pieno accordo con il “Motu Proprio Summorum Pontificium” di Papa Benedetto XVI, attraverso cui è stato ripristinato il latino nelle cerimonie ufficiali, coniando l’espressione di “Forma Straordinaria del Rito Romano”, non intaccando il culto quotidiano e le funzioni ordinarie.
Quelle regole che portano a non smantellare altari, balaustre, riportando l’attenzione su Cristo Sacramentato e non sul sacerdote, rivolto verso il popolo per cercare un dialogo più stretto con quest’ultimo, dimenticando il vero senso del dialogo totale, quello con Dio.
Occasione che porta a citare l’introduzione dell’allora cardinale Ratzinger, nell’anno 2004, al libro di padre Uwe Michael Lang “Rivolti al Signore. L’orientamento nella preghiera liturgica”, nel quale si sostiene il ritorno e soprattutto la valenza dell’edificare l’edifico sacro con l’abside rivolto ad oriente, dove sorge il sole, il sorgere del sole è infatti metafora di Dio e della Risurrezione.
Il sacerdote guarda in quella direzione ed è guida e modello per i fedeli.
Egli è il primo fedele.
Egli precede i fedeli semplicemente perché ne è guida.
Chiarendo che l’uso di orientare l’altare verso il popolo non è affatto una Direttiva Conciliare ma una norma contenuta nella “Introduzione Generale” al Nuovo Messale Romano del 1969, dove si legge: ”L’altare maggiore sia costruito staccato dalla parete, per potervi facilmente girare intorno e celebrare rivolti verso il popolo (versum populum)”. Norma da non intendere come imposizione, perché nelle “Istruzioni Generali” per il Messale del 2002 viene specificato che questo cambiamento strutturale “è desiderabile ovunque sia possibile”.
Riflessioni che, attraverso l’esempio di interventi del tutto infelici, come quelli del Duomo di Pisa, di Reggio Emilia, alla chiesa di Foligno progettata dall’architetto Massimiliano Fuksas, arrivando ad interventi più in linea con la tradizione dell’arte sacra, come il grande cantiere della ricostruzione della cattedrale di Noto in Sicilia, attraverso i quali viene esplicitato il senso del titolo del libro “L’ombra del divino”, condizione in cui gli artisti si muovono quando si confrontano con il sacro.
Il rifarsi alla tradizione, una tradizione profondamente viva, ragionata, calandosi nel tempo e nello spazio, nell’ambiente e nei mezzi e cogliendone lo spirito.
Quella tradizione tramandata a noi attraverso la figura dei grandi maestri dell’arte e dell’architettura, fatta propria dagli artisti e architetti contemporanei, che attraverso la loro fede la rivelano a noi, una esperienza estetica già data in cui si percepisce ciò che è stato.
Condizione essenziale attraverso cui il progettare un edificio sacro non è puro esercizio formale – funzionale, cosa che ha fatto proliferare soprattutto nel secolo scorso migliaia di edifici sacri – depositi/garage, mentre uno spazio – sacro deve essere carico del Mistero della Chiesa “Corpo di Cristo e Tempio di Dio” nel suo cammino verso la pienezza della vita eterna e della gloria nel cielo.
In questo il libro Vittorio Sgarbi è rivelatore ad un pubblico, anche di fedeli, poco attenti al bello,
il bello quello della “bellezza divina”.
Dove si deve sentire la presenza del Mistero, perché la bellezza che si tocca con mano parla di noi.
Dio è bellezza e dove esiste lì è più semplice riconoscere la sua infinita presenza.
“L’OMBRA DEL DIVINO NELL’ARTE CONTEMPORANEA”
DI VITTORIO SGARBI
– EDIZIONE CANTAGALLI – 2011; Pag. 230
Nessun commento:
Posta un commento