Oggi ricorre il sesto anniversario della promulgazione del Motu Proprio Summorum Pontificum. Vogliamo tenere viva l’attenzione sull’importanza epocale di questo documento, riportando per intero l’articolo pubblicato il 16 novembre 2012 sul numero 1287 de Il Venerdì di Repubblica, a pagina 37. E ci fa piacere farlo per i toni di approvazione con cui l’articolista, Filippo Di Giacomo, ne parla… ben conoscendo gli orientamenti ideologici della sua testata giornalistica, alquanto critica verso la Chiesa di Roma.
LA MESSA È IN LATINO:
L’APERTURA DEL PAPA SPIAZZA I LEFEVRIANI
di Filippo Di Giacomo
(tratto da Il Venerdì di Repubblica del 16 novembre 2012, n. 1287, p. 37)
Tanto tuonò, ma non piovve. Quando Benedetto XVI promulgò il motu proprio Summorum Pontificum, si sperò che il torto potesse essere corretto. Il documento infatti, permetteva ai fedeli desiderosi di celebrare la vita liturgica secondo la forma «extra ordinaria», cioè quella secolare in uso prima delle riforme, di essere sciolti dall’obbligo di un’autorizzazione preventiva da parte dei propri vescovi. Nella Chiesa, si celebrano liturgie eucaristiche variamente acculturate e tradotte in lingue di ogni continente, dunque non si capiva perché solo a coloro che chiedevano di celebrarla in latino, con gli stilemi liturgici dell’Occidente cristiano, dovessero essere inflitte restrizioni non attuate per nessun altro «esperimento liturgico».
Per chi prima di giudicarlo l’ha anche letto, il motu proprio Summorum Pontificum risulta un documento chiaramente ispirato al pluralismo del Concilio Vaticano II, caratteristica non sempre attribuibile a diversi documenti dell’era wojtylana. Il documento papale porta la data del 7 luglio 2007, ma in Francia, nel numero del 5 luglio dello stesso anno, quindi in anticipo sulla pubblicazione del testo pontificio, Témoignoge Chrétien, il più vivace settimanale europeo di informazione religiosa, pubblicava nella lingua di Cicerone (e senza errori, mentre ai latinisti di curia era sfuggito un «conditiones» al posto di «condiciones») un manifesto di «resistenza» contro la decisione di Benedetto XVI.
I motivi? Il rito della tradizione cattolica presupporrebbe uno sguardo negativo verso il mondo non cattolico, basato sul convincimento che la Chiesa sia l’unica detentrice della verità; il biritualismo permesso da papa Ratzinger segnerebbe la vittoria dei tradizionalisti e la sconfitta dei conciliaristi. I primi sarebbero presto in condizione di imporre le nomine episcopali; anzi, e peggio, «episcopos Galliae cras regent», domani governeranno l’episcopato francese. In realtà, ciò che dopo cinque anni appare chiaro è un fatto certo: Benedetto XVI ha tolto di mano ai lefevriani l’esclusiva della messa tridentina presentata volentieri come celebrazione identitaria. L’editorialista di Témoignage Chrétien concludeva il suo scritto dicendo: «Juvet fortuna omnes qui repugnabunt», buona fortuna a chi vorrà resistere. L’iniziativa ha causato ai fedeli che hanno fatto ricorso alle disposizioni papali una quantità di ingiurie e pessime accoglienze in diverse diocesi. Tuttavia il 3 novembre [2012], con una messa celebrata in San Pietro, hanno concluso una tre giorni romana fatta di pellegrinaggi e preghiere.
Qualche giorno prima, il 29 ottobre, dalle fila dei lefevriani è stato espulso il vescovo negazionista Richard Williamson: un calcio che val bene una messa, anche se in latino.
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