venerdì 13 dicembre 2013

Urge una nozione più chiara del concetto di autorità

di Vincenzo Sasso


La Chiesa Cattolica, stabilita da Gesù Cristo come colonna a fondamento della verità (1Tm 3,15), è stata nutrita ed è costantemente nutrita dall'insegnamento dei santi, di coloro che hanno fatto della loro vita un monumento vivente al Cristo risorto, che hanno conformato il loro pensiero a quello di Cristo (1Co 2,16), mediante la conformazione a quello della Chiesa (1Co 1,10). Possiamo quasi dire che l'insegnamento dottrinale proposto costantemente ai fedeli da parte del Magistero non inventa cose originali, ma non interviene che a dare una conferma della bontà oggettiva di quanto essi hanno detto e operato. 
Tra i santi spiccano i Padri della Chiesa, appartenenti al periodo fondativo della Dottrina della Chiesa, e i Dottori, la cui dottrina è particolamente indicata dalla Chiesa per via della sua limpidezza. Questi gruppi rappresentano i due pilastri su cui si regge la teologia. Infatti le persone appartenenti a queste due categorie sono additate come auctoritates nella ricerca teologia, cioè persone il cui pensiero ha un valore perenne ed è dunque da tenere constantemente in considerazione.

Ma che cosa comporta questo per i teologi? I teologi rispettano davvero l'indicazione autorevole della Chiesa? A me sembra che oggi sia di moda un po' quell'atteggiamento di qualche azienda: <<Rispettiamo la legge alla lettera, se proprio dobbiamo, in modo da rimanere nella legalità e da poter presentare il nostro prodotto con questo marchio di garanzia. Così l'acquirente si fiderà di noi, anzi inizierà a pensare che quel marchio di garanzia serva a certificare prodotti di questo tipo. Così non andrà più in cerca di altri prodotti: avrà trovato il suo autentico bene nel possesso di questi>>. Specie quando si è in cerca di buon cibo, si sta attenti alle etichette. I cattolici vanno in cerca di ciò che porta l'etichetta del cattolico. A causa di una scarsa formazione e della fragilità umana che porta al conformismo, spesso essi identificano come cattolico ciò che semplicemente riflette l'opinione dominante nella Chiesa, ancorché la più diffusa o la più largamente sponsorizzata. Questo però succede perché si è pervertito il senso delle "cose" universalmente riconosciute come marchi distintivi del pensiero cattolico. Ora cercherò di spiegarmi meglio e di argomentare.

Qual è sostanzialmente il metodo attuato dai teologi oggi? Studiare gli autori antichi per avere delle piattaforme su cui poi innovare, creare nuovi termini e cambiare i concetti, rivoluzionare le norme del dogma e quelle della morale. E' con questo presentano il proprio pensiero come se fosse in continuità con la Chiesa di sempre: basta che gli antichi autori vengano citati e presentati come tappa della Dottrina della Chiesa; poi non importa se si asserisce che erano dei misogini, autoritasti, che non conoscevano nulla di scienza ed erano influenzati da teorie filosofiche di vario genere che non permettevano loro di aderire alla verità contenuta nella Scrittura e che, di conseguenza, è del tutto lecito, anzi doverso, prendere spesso le distanze da quanto scrivevano. Così il richiamo al gloriosissimo passato della Chiesa diventa una sorta di excusatio non petita atta soltanto a sostenere posizioni fondamentalmente innovative e, se non conformiste, comunque più in linea con la cultura (laica) attuale rispetto a quelle, dure e insopportabili, degli autori antichi.

La tendenza della teologia contemporanea è quella di relativizzare il pensiero di tutti i grandi uomini che ci hanno preceduto. L'atteggiamento cattolico è invece quello di farsi guidare da coloro che la Chiesa ci addita a modelli e tirar fuori dal tesoro della loro sapienza cose antiche e nuove. Non importa se date proposizioni si inserivano in un contesto culturale molto diverso da quello attuale e che riteniamo da noi distante e "superato": i santi hanno avuto una penetrazione speciale del mistero di Dio. Ora, Dio non muta e dunque neanche i suoi decreti. Dunque, se la nozione di Dio e dei suoi decreti che ebbero i santi fu giusta, corretta e vera, anche oggi è giusta, corretta e vera. Come siamo sicuri del fatto che i santi dissero cose vere? In forza dell'autorità del Magistero, che ha conferito autorità ai santi. Cosicché noi dobbiamo anche oggi continuare a richiamarci spesso alla loro dottrina. 

Ma non è finita qui. Infatti: <<La Chiesa esercita il suo Magistero ordinario non soltanto dichiarando espressamente la dottrina da tenersi per Fede, ma anche mediante la dottrina implicitamente contenuta nella prassi, ossia nella vita stessa della Chiesa.>>  (SISTO CARTECHINI S.I., Dall'opinione al Domma. Valore delle Note Teologiche, Civiltà Cattolica, Roma 1953). Sicché, ad esempio, con troppa leggerezza si condannano tanti atteggiamenti che la Chiesa ebbe (e i santi ebbero) nel passato molto lontani dal pensiero odierno, ad esempio la politica di intolleranza – che assunse nei vari periodi storici diverse forme – verso gli eretici e gli infedeli sostenuta nei secoli e incoraggiata o vissuta attivamente da molti santi, o ancora il sostegno a regimi che potremmo ritenere "illiberali", qualifica, d'altronde, che richiama una categoria la cui corrispondenza con la Dottrina sociale della Chiesa è molto discutibile.

La verità è che noi giudichiamo la Chiesa a partire dai contenuti sempre molto opinabili del nostro orientamento culturale, tanto che il Magistero è arrivato ad esprimersi molto chiaramente sul problema, facendo chiarezza: <<l’esigenza critica non va identificata con lo spirito critico, che nasce piuttosto da motivazioni di carattere affettivo o da pregiudizio>> (Istruzione Donum veritatis, 9). Oggi è molto in voga questo atteggiamento tra i fedeli. Perciò si parla di "scisma silenzioso", cioè di perseveranza nella Fede, magari anche tramite la partecipazione liturgica, ma dissenso nella pratica di vita da quanto la Chiesa ha sempre insegnato, soprattutto in tema di morale sessuale. Dobbiamo però chiederci se tale tendenza non è piuttosto favorita dall'attuale pensiero dominante in teologia (e quindi dai pastori stessi), piuttosto che contrastata. Al contrario, la vita di Fede è un continuo sforzo a conformarsi al pensiero di Cristo tramite l'obbedienza all'unica Istituzione che ha ricevuto da Dio un carisma certo di verità. Carisma stabile, permanente e indefettibile.

Non è gratuito, anzi è necessario, rintracciare la motivazione più profonda dei comportamenti umani nelle cause più eminentemente spirituali; allora, possiamo sostenere che il vizio che anima la teologia contemporanea erronea è semplicemente uno: la superbia. Essa allontana l'uomo da percepire sé stesso con distanza critica, essa lo porta a sentirsi più santo o più intelligente di chi gli sta intorno e l'ha preceduto, essa lo porta al rifiuto dell'autorità di Dio impiegata nella Rivelazione o, molto più subdolamente, a fare di questa Rivelazione un recipiente adeguato per le sue convinzioni più estemporanee, le quali non sono altro che mode del tempo presente, spacciate per verità cristiana, da cui l'Apostolo ci mette in guardia: <<Jesus Christus heri, et hodie: ipse et in sæcula. Doctrinis variis et peregrinis nolite abduci. Optimum est enim gratia stabilire cor, non escis: quæ non profuerunt ambulantibus in eis>> (Heb 13,8-9).

lunedì 9 dicembre 2013

A tutti i Coetus Fidelium che si avvalgono del Motu Proprio Summorum Pontificum

Gratia vobis et pax a Deo Patre nostro et Domino Iesu Christo!



Confortati dall’esito del secondo Pellegrinaggio Internazionale Summorum Pontificum, raccogliendo l'esortazione di tanti fedeli - di recente ribadita anche dal Coordinamento Toscano Benedetto XVI - Vi scriviamo per promuovere un più stretto legame tra i Coetus Fidelium che, in tutta Italia, si sono costituiti per dare applicazione al Motu Proprio Summorum Pontificum.

Siamo convinti, infatti, che sia ormai tempo di creare e consolidare un forte e fraterno coordinamento fra tutti i Coetus. Vorremmo che davvero nascesse un più intenso movimento spirituale che rinvigorisse l'unione morale e la comunione di intenti che già ci uniscono; e che tutti noi - che crediamo nell'inestinguibile fecondità e nella perenne giovinezza della liturgia tradizionale - riuscissimo a costituirci quale Popolo del Summorum Pontificum, per mettere il nostro entusiasmo e la nostra azione a disposizione di tutta la Chiesa.

Un più diffuso senso di appartenenza comune, al quale in tanti aspiriamo, è indispensabile perché la presenza di ciascuno di noi nella Chiesa – nelle associazioni cattoliche, nelle confraternite, nelle parrocchie, nelle diocesi – possa consolidare ed incrementare la diffusione della liturgia tradizionale, mostrarne l’ineguagliabile splendore e, soprattutto, la perfetta espressione della fede cattolica tutta intera.

Crediamo che il modo migliore per rispondere a quanti – specie fra i nostri Pastori – pensano che il messale del B. Giovanni XXIII stia a cuore solo a pochi fedeli estraniati dalla vita della Chiesa, sia mostrare concretamente la nostra unità: occorre superare l’attuale situazione in cui ciascun gruppo vive nella sua isola felice (o nel suo fortino assediato) e aiutare i fratelli a riscoprire il senso profondo della vera adorazione, colmando, ben radicati nella Chiesa, il vuoto liturgico e dottrinale che oggi l’affligge; un compito al quale ci apprestiamo non già per nostri meriti (che sono miseri e insufficienti), ma in virtù della liturgia tradizionale che ci è stata affidata dal Motu Proprio e che – per quanto ad alcuni possa apparire paradossale – risulta lo strumento principale che la lungimiranza di Papa Benedetto XVI ha posto nelle mani dei fedeli laici per concorrere al rinnovamento della Chiesa.

Il nostro unico obiettivo: la diffusione della Santa Messa tradizionale, la sua promozione, la sua corretta celebrazione, la sua difesa!
Il nostro programma: dimostrare concretamente che non siamo soli nell’amore per la sacra liturgia e che, ben fieri ciascuno della propria storia, delle proprie radici e della propria identità, apparteniamo tutti ad un unico Popolo radunato dal MP Summorum Pontificum. Un popolo “normale”, che vuole avere una vita religiosa “normale” nelle parrocchie, nelle confraternite, nelle associazioni; che chiede cura pastorale piena e completa, come spetta “normalmente” ad ogni fedele; che ha la gioia di aver (ri)trovato il tesoro della liturgia tradizionale e si sforza di operare perché questo tesoro venga (ri)scoperto da tutti. Un Popolo che, proprio perché è tale, sa aiutarsi reciprocamente e fraternamente, sostenere fattivamente i propri sacerdoti e ritrovarsi intorno ad alcune iniziative spirituali comuni (il Popolo si manifesta soprattutto pellegrinando e raccogliendosi sotto il manto di Maria) e che finalmente vuole essere riconosciuto per quello che è, che non può e non vuole rinunciare ad esserlo e che può e vuole esserlo ovunque: una parte vitale e feconda della Chiesa.

Per realizzare questo programma non intendiamo proporre modelli preconfezionati, anche se sappiamo che ogni efficace attività di coordinamento ha bisogno di una pur minima struttura. Dopo due anni di lavoro, è giunto il tempo di un primo serio bilancio, per comprendere cosa ha funzionato, cosa deve essere sviluppato, cosa deve essere corretto: vorremmo discuterne con tutti Voi. La Provvidenza ci ha concesso di maturare un'utile esperienza, di conoscere i problemi di Coetus diffusi in tutta Italia, e vorremmo che questa esperienza portasse frutto per tutti.

Non chiediamo a nessuno un’adesione preventiva, non vogliamo rilasciare tessere né vantare primogeniture: il primo passo che vorremmo compiere in un rinnovato cammino comune è conoscerci e sapere chi siamo, dove siamo. Per questo invitiamo tutti, ma specialmente i rappresentanti dei Coetus ed i fedeli che promuovono, curano e difendono la celebrazione della S. Messa, a voler prendere contatto con noi per concordare incontri su base regionale, per cercare di mettere in comune le energie spirituali e le capacità organizzative, per esaminare il modo migliore di conseguire tale risultato. Lo potrete fare raggiungendo alcuni amici, individuati per singoli territori (onde agevolare gli incontri) agli indirizzi e-mail che trovate qui sotto. Vi preghiamo di farlo al più presto!
Ci è grato diffondere questo appello oggi, nel giorno che la Chiesa dedica all’Immacolata Concezione di Maria Santissima, alla cui particolare e materna protezione ci affidiamo.

In Jesu et Maria, i promotori regionali del Coordinamento Nazionale del Summorum Pontificum:

Federico Baldelli Purrone (Lazio), Giuseppe Capoccia (Basilicata, Campania, Puglia), Andrea Carradori (Marche), Marcello Derudas (Sardegna), Francesco Forlin (Umbria), Massimiliano Gaj (Liguria, Piemonte, Valle d’Aosta), Cristiano Gobbi (Friuli – Venezia Giulia, Trentino – Alto Adige, Veneto), Renato Manzo (Abruzzo, Molise), Francesco Palamara (Calabria), Daniele Premoli (Lombardia), Marco Sgroi (Emilia – Romagna), Rosario Tantillo (Sicilia occidentale: Agrigento, Caltanissetta, Palermo, Trapani), Giovanni Turturice (Sicilia orientale: Catania, Enna, Messina, Ragusa, Siracusa)

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Indirizzario e-mail (vogliate scrivere, per piacere, all’indirizzo assegnato alla Vostra regione. La mail sarà ricevuta dal corrispondente promotore regionale):

mercoledì 4 dicembre 2013

Solennità dell'Immacolata Concezione: Santa Messa a Monopoli


Sabato 7 dicembre
Solennità
dell'Immacolata Concezione




Celebrazione della Santa Messa nella forma "straordinaria" del Rito Romano, col Messale del 1962 del Beato papa Giovanni XXIII, secondo le disposizioni del Motu Proprio "Summorum Pontificum" di S.S. Benedetto XVI

Santa messa "cantata" con l'esecuzione delle antifone proprie e di altri mottetti. All'organo il diplomando Pierluigi Mazzoni





- Monopoli -
Chiesa S. Francesco d'Assisi
piazza Vittorio Emanuele
ore 19,30




domenica 17 novembre 2013

Sic nos Tu visita, sicut Te colimus

di Daniele Premoli


In questi ultimi tempi è tornato di particolare attualità il tema della Riforma della Chiesa: le strutture della Chiesa andrebbero riviste, così come la sua disciplina e, secondo alcuni, persino la dottrina. E così un po’ tutti, dal panettiere al teologo di spicco, ipotizzano quella che dovrebbe essere la nuova forma della Chiesa. C’è però un “grande dimenticato” in tutti questi discorsi, probabilmente anche giusti e importanti: il Signore Gesù.

L’agile volumetto di S.E. mons. Athanasius Schneider, vescovo del Kazakhstan, “Corpus Christi. La Santa Comunione e il rinnovamento della Chiesa”, recentemente pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana, si pone l’obiettivo di rimettere al centro dell’attenzione Gesù Cristo, «il più povero e il più indifeso nella Chiesa», specialmente nel momento della Santa Comunione.

Mons. Schneider inizia la sua riflessione narrando la straordinaria storia di Peter Schmidtlein (1967-1973), bambino di origine tedesca, deportato con la sua famiglia nel Kazakhstan. Colpito da un tumore al cervello, Peter ricevette il permesso di comunicarsi all’età di quattro anni, colpendo sacerdoti e vescovi per la sua consapevolezza di questo grande Sacramento. Si tratta di una storia realmente commovente (che muove), particolarmente per la devozione e il rispetto con il quale un bambino di quattro anni tratta e si lascia trasformare da quella piccola Ostia, che evidentemente è incommensurabilmente più di un semplice pezzo di pane.

Segue un capitolo sulla Santa Messa dove, sempre accompagnato dall’esempio dei santi, il lettore viene aiutato a riflettere sulla grandezza della Messa. Essa infatti, come afferma il beato card. Newman, «non è semplicemente una formula di parole, è una grande azione, la più grande azione che ci possa essere sulla terra. È l’evocazione dell’Eterno. Egli si rende presente sull’altare in carne e sangue, davanti al quale gli angeli si prostrano e i demoni tremano». Il centro della Messa è dunque Cristo stesso, presente nel Pane e nel Vino consacrati.

Tuttavia, ai nostri giorni, l’Eucaristia viene trattata con un «sorprendente minimalismo nei gesti d’adorazione e riverenza». Chi scrive ha assistito personalmente al Pontificale in occasione della festa del Santo Patrono di una grande Diocesi, dove al momento della comunione due diaconi, senza nemmeno accorgersene, hanno fatto cadere un’Ostia. Qualcuno potrebbe obiettare che – fortunatamente – questo accade poco spesso. Me lo auguro e potrei anche convenire. Rimane comunque vero che, nella maggioranza delle Chiese, Nostro Signore viene trattato come un oggetto qualunque, e la distribuzione della S. Comunione appare più che altro come la distribuzione del cibo comune: fatta frettolosamente, quasi che il problema principale sia di non allungare troppo la celebrazione. Appare dunque verosimile il dialogo, immaginato da mons. Schneider a p. 44, tra un musulmano e un cattolico. Afferma l’ipotetico interlocutore: «Se voi trattate il vostro Dio e il vostro Santissimo in maniera tanto banale, non ci credete veramente [alla Presenza Reale, NdR]. Non riesco a convenire con lei sul fatto che veramente ci crediate».

«Grandi santi riformatori e veri evangelizzatori nella storia della Chiesa hanno detto: il progresso spirituale di un’epoca della Chiesa si misura al modo di riverenza e devozione verso il Sacramento dell’Altare. San Tommaso d’Aquino lo ha espresso in modo più conciso: “Sic nos Tu visita, sicut Te colimus”. E questo vale anche per il nostro tempo: il Signore visiterà la Chiesa di oggi con le speciali grazie del vero rinnovamento auspicato dal beato Giovanni XXIII e dai Padri del grande Concilio Vaticano II nella misura in cui Egli sarà venerato e amato in modo visibile».

Si potrebbe dissentire sulle implicazioni pratiche proposte da mons. Schneider; tuttavia la sua diagnosi è sostanzialmente corretta. Un ottimo libro per riflettere su come ci rapportiamo con l’Eucaristia e aumentare la nostra fede.

martedì 12 novembre 2013

La grande quercia è caduta, ovvero in memoria di Domenico Bartolucci

di Giannicola D'Amico


“Dov'era l'ombra, or sè la quercia spande
morta, né più coi turbini tenzona.
La gente dice: Or vedo: era pur grande!” (G. Pascoli)





All’età di 96 anni Domenico Bartolucci, Cardinale e Direttore perpetuo della Cappella Sistina - ma per tutti coloro che l’avevano conosciuto semplicemente “il Maestro” - è spirato alle prime ore dell’11 novembre, festa di S. Martino, nella sua casa romana di via Monte della Farina, al Palazzo di S. Andrea.

Poche settimane fa era scomparso, anch’egli vegliardo, mons. Luciano Migliavacca, storico maestro di cappella del Duomo di Milano: con loro sembra chiudersi un’epoca.

Domenico Bartolucci, affiancato fin dal 1953 al mitico, ma anziano e sofferente, Lorenzo Perosi, alla morte di questi aveva ereditato la direzione della Sistina, nominatone da Papa Pacelli “direttore perpetuo”, mentre mantenne la direzione contemporanea della Cappella Liberiana in S. Maria Maggiore, succeduto anni prima a Licinio Refice, fino al 1971.

Nato a Borgo San Lorenzo, in provincia di Firenze, il 7 maggio 1917, fu ordinato sacerdote nel 1939 dal card. Elia Dalla Costa, per poi trasferirsi a Roma dove perfezionare gli studi musicali iniziati nel capoluogo toscano, rimanendo però sempre incardinato nel clero fiorentino.
Direttore della Cappella Sistina fino al 1997, donde esercitò un altissimo magistero musicale, è stato considerato il più autorevole interprete di Palestrina nel Novecento, per poi continuare l’attività concertistica e compositiva (al suo attivo una vastissima messe di musica perlopiù sacra e liturgica, ma anche sinfonica e strumentale), fino oltre i novant’anni, assistito da una salute invidiabile e dalla sua consueta tetragona volontà di toscano d’altri tempi.

Stimato profondamente da Joseph Ratzinger per il suo rispetto della Liturgia, per il suo attaccamento alla Tradizione e per il livello impareggiabile delle sue composizioni in cui la moderna impostazione neo-modale si fondeva con le tre radici della sua ispirazione (il gregoriano, Palestrina e la cantabilità verdiana), fu creato Cardinale nel Concistoro del 20 novembre 2010 da Benedetto XVI al quale offrì un memorabile concerto in Castel Gandolfo il 31 agosto 2011 (di cui riferimmo).

Portiamo nel cuore le parole che Bartolucci indirizzò a Benedetto XVI il 24 giugno 2006 in occasione di un concerto polifonico da lui diretto nella Cappella Sistina in omaggio al nuovo Pontefice: “Beatissimo Padre, tutti conoscono l’amore grandissimo di Vostra Santità per la liturgia e quindi per la musica sacra. L’arte musicale è quella che più di tutte ha beneficiato della Liturgia della Chiesa: le cantorie hanno rappresentato la sua culla, grazie alla quale essa ha potuto formare il linguaggio che oggi ammiriamo. Gli esempi più belli che la fede dei secoli passati ci ha consegnato e che dobbiamo mantenere vivi sono proprio il canto gregoriano e la polifonia: di essi occorre una pratica costante che possa vivificare e animare degnamente il culto divino”.

Le cantorie oggi non esistono quasi più, sia come luogo architettonico, sia come luogo di perpetuazione della sapienza musicale e liturgica dei nostri Padri, al servizio di Dio.

Oggi scompare anche il loro più autorevole, appassionato e vigoroso cantore.

Sapremo continuare la “buona battaglia”?

domenica 10 novembre 2013

Opera di Dio e attività dell'uomo

Recensione al testo di Alcuin Reid, «Lo sviluppo organico della liturgia. I principi della riforma liturgica e il loro rapporto con il Movimento liturgico del XX secolo prima del Concilio Vaticano II» (Cantagalli, 432 pagine, 22 euro)

di Daniele PREMOLI


«Homines per sacra immutari fas est, non sacra per homines»: gli uomini devono venire trasformati dalle cose sante, e non le cose sante dagli uomini. Queste parole, con le quali Egidio da Viterbo inaugurò il Concilio Lateranense V (1512-1517), sembrano sintetizzare il motivo ispiratore del Movimento Liturgico, quantomeno delle origini.
Recentemente, l’editrice Cantagalli ha pubblicato uno studio di dom Alcuin Reid, “Lo sviluppo organico della Liturgia”, che presenta, in modo approfondito e completo, il pensiero di quanti hanno contribuito alla crescita del Movimento Liturgico e alle varie Riforme Liturgiche che si sono susseguite nel corso della storia.
Il testo, suddiviso in tre parti, prende in esame la storia del Rito Romano dalle origini sino al Concilio Vaticano II, cercando infine di stabilire quali siano i criteri ai quali ci si dovrebbe attenere negli interventi sulla Liturgia.

La prima parte ricostruisce le Riforme Liturgiche dall’epoca apostolica sino alle soglie del Pontificato di Pio X, agli inizi del XX sec. Sebbene breve e necessariamente sintetica, vale la pena prestare particolare attenzione al capitolo riguardante la riforma del Breviario Romano compiuta nel XVI sec. dal card. Quignonez. Questi, su richiesta del Papa, operò una riforma basata sul principio del ritorno all’Antichità (intesa come epoca dei Padri) e dell’utilità pastorale; egli, insomma, «spazza via tutto e si mette a costruire un edificio nuovo secondo un progetto nuovo»[1]. Paolo III, il Papa del Concilio di Trento, pubblicò il breviario nel 1535-36; è significativo tuttavia come questo venne criticato a più riprese da studiosi ed ecclesiastici, fino ad essere proscritto dalla stessa autorità che l’aveva approvato. Gli stessi Pontefici della Riforma Tridentina, dunque, rifiutarono l’archeologismo come criterio per la Riforma Liturgica: Pio V si rifece ai Riti presenti duecento anni prima, e non risalì ad un’antichità stereotipata. Questo episodio permette anche una valutazione dei limiti e dell’importanza dell’autorità papale in materia liturgica: il papa, come scrisse magistralmente l’allora card. Ratzinger, «non può fare quello che vuole, e proprio per questo può opporsi a coloro che intendono fare ciò che vogliono… Nei confronti della liturgia ha il compito di un giardiniere e non di un tecnico che costruisce macchine nuove e butta via quelle vecchie»[2].

La seconda parte presenta il periodo compreso da Pio X al 1948, anno successivo la promulgazione dell’Enciclica Mediator Dei di Pio XII. Vengono qui indicati i principali esponenti del Movimento Liturgico, partendo da quello che ne fu il vero ideatore: dom Laumbert Beauduin. Apprendiamo così che, al contrario di quanto è stato largamente affermato successivamente al Concilio Vaticano II, il Movimento Liturgico non aveva come scopo principale quello di modificare i Sacri Riti, per renderli più vicini ai contemporanei. Dom Beauduin «sapeva troppo bene che su quel venerabile monumento chiamato liturgia c’erano ragnatele a cui, un giorno o l’altro, bisognava dare una spolverata. Ma non lo considerava l’elemento essenziale, o comunque lui non si occupava di quello… Considerava la liturgia un dato della tradizione che prima di tutto dovevamo cercare di comprendere»[3]. Sono anche gli anni degli interventi liturgici, come quelli di Pio X e Pio XII sul Breviario; ma, nonostante le prime proposte di riforma (come quelle di Guardini), ancora nel 1947 si affermava come prioritario che «noi tutti, noi per primi, compiamo la liturgia come è nei libri e ci conformiamo ad essa. Autoriforma e perfezione». Questo sarebbe stato un grande risultato, raggiunto il quale «ci prostreremo ai piedi del Santo Padre e gli chiederemo la riforma»[4].

Il terzo capitolo, il più esteso, affronta la seconda parte del Pontificato di Pio XII, giungendo sino alle soglie del Vaticano II. Esso si apre con una constatazione quanto mai attuale: «Come fanno costoro a costruire una basilica quando ignorano a cosa serve una chiesa; un santuario, quando non sanno che cosa sia il culto; un altare, per un Dio ignoto?»[5]. Il proposito iniziale del Movimento Liturgico, quello di avvicinare gli uomini a Dio, veniva sostituito dalla visione “pastorale”: adattare la Liturgia alle esigenze del popolo. Reid esamina i due significati del termine “pastorale”: se, per alcuni aspetti, esso assume un significato positivo, perché «permette al popolo di capire e penetrare la ricchezza della tradizione liturgica oggettiva, che a sua volta può venire un po’ semplificata o adeguata per facilitare tale incontro»[6] (risultando così in continuità con i propositi iniziali del Movimento); d’altra parte può fornire un pretesto per ridurre la liturgia «a quello che, secondo i riformatori, sarà immediatamente accessibile al popolo. E questo non è in armonia con gli scopi fondamentali del Movimento Liturgico»[7]. Ma, come già obiettavano alcuni contemporanei, «i cambiamenti ipotizzati sono proprio desiderati da un numero considerevole di fedeli o se eventualmente autorizzati, produrrebbero risultati visibili? […] Fermano veramente l’emorragia? Producono un maggior numero di convertiti alla Chiesa? Qualunque accusa si possa muovere alla forma della Messa come la conosciamo, per lo meno è qualcosa che si è sviluppata naturalmente e ci dovrebbero essere ragioni fortissime per accedere alle richieste di quella che a molti sembra una riforma radicale. È facile dare addosso a ciò che si definisce l'ossificazione della liturgia da Trento in poi, ma non c'è niente di troppo guasto in una liturgia che ha prodotto tanti santi in ogni condizione di vita»[8]. Riprende vigore la tentazione dell’archeologismo, considerando lo sviluppo liturgico come «continui rimodellamenti e aggiunte, tali da offuscare il progetto della struttura – tanto che non possiamo più sentirci veramente di casa in essa perché non la capiamo più»[9], come scrisse uno dei massimi liturgisti, Jungmann. Ma, come nota Reid, questa fu esattamente la tentazione di Quignonez e dei gallicani. Può darsi che questo metodo, a breve periodo, risulti vincente, come in effetti accadde in passato; tuttavia, «è interessante il calo di entusiasmo … perché fa pensare che la popolarità delle riforme sia dovuta in certa misura alla loro novità»[10]. Inoltre si continuerebbe a trasformare la Liturgia, rendendola opera dell’uomo, più che opera di Dio. In realtà, «chi è soddisfatto della situazione attuale, chi vive la liturgia come gli è data dalla Chiesa di Roma, non si lamenta e non dice niente. Non dobbiamo preoccuparci anche della maggioranza che è soddisfatta? Non sono altrettanti, o forse anche più, di quelli che si lagnano?»[11].

L’unica via da percorrere è dunque quella di iniziare una paziente opera di rieducazione: un lavoro certamente lungo ed impegnativo, ma che è urgente iniziare. In conclusione, afferma Reid, «la liturgia cattolica non è affatto un’espressione soggettiva della fede che si possa cambiare a volontà in base alle mode o ai desideri contemporanei. La liturgia cattolica è piuttosto un elemento singolarmente privilegiato, oggettivo e costitutivo della tradizione cristiana»[12]. La caratteristica imprescindibile del suo sviluppo è dunque la sua crescita organica e coerente con il passato. Senza mai dimenticare, come afferma il card. Ratzinger nella sua prefazione (scritta poco prima di diventare Benedetto XVI), che «se la liturgia appare anzitutto come il cantiere del nostro operare, allora vuol dire che si è dimenticata la cosa essenziale: Dio. Poiché nella liturgia non si tratta di noi, ma di Dio. La dimenticanza di Dio è il pericolo più imminente del nostro tempo. A questa tendenza la liturgia dovrebbe opporre la presenza di Dio»[13].


NOTE:

[1] A. Reid, Lo sviluppo organico della liturgia. I principi della riforma liturgica e il loro rapporto con il Movimento liturgico del XX secolo prima del Concilio Vaticano II, Cantagalli, Siena 2013, p. 31.
[2] J. Ratzinger, Prefazione in A. Reid, Lo sviluppo organico…, cit., p. 7.
[3] Hellriegel, Survey of the Liturgical Movement, pg. 22, cit. in A. Reid, Lo sviluppo organico…, p. 84.
[4] A. Reid, Lo sviluppo organico…, cit., p. 138.
[5] Chute, Obsolent or Obsolescent, cit. in A. Reid, Lo sviluppo organico…, p. 161.
[6] A. Reid, Lo sviluppo organico…, cit., p. 237.
[7] Ibid.
[8] Ibid., p. 210.
[9] J. A. Jungmann, The Early Liturgy. To the Time of Gregory the Great, University of Notre Dame Press, Notre Dame 1959, p. 1.
[10] Ibid., p. 241.
[11] Congregatio Sacrorum Rituum. Sectio Historica, Memoria sulla riforma liturgica: Supplemento IV, pg. 101, cit. in A. Reid, Lo sviluppo organico…, p. 265.
[12] A. Reid, Lo sviluppo organico…, cit., p. 341.
[13] J. Ratzinger, Prefazione, cit., p. 9.

martedì 22 ottobre 2013

Un sostituto procuratore tra killer e Dio. In nome delle regole

Intervista di Linda Cappello al "nostro" Giuseppe Capoccia
da "Gazzetta del Mezzogiorno", 13/10/2013

In anni lontani - solo per fare un esempio - le indagini sull’omicidio di mafia della piccola Angelica Pirtoli e di sua madre. In tempi più recenti - praticamente oggi - l’inchiesta sul duplice omicidio di Campi Salentina. E l’arresto dei tre presunti killer.
In un caso e nell’altro, a guidare le indagini c’è il sostituto procuratore Giuseppe Capoccia. La ricerca dei killer, insomma è il suo mestiere. Ma non si occupa solo di delitti. Da qualche anno la ricerca è diventata anche ricerca di Dio. Con una «vocazione » al rito in latino.

Dottor Capoccia, come mai un pubblico ministero, abituato ad indagare su rapine, droga e omicidi… si interessa di messa antica e di canto gregoriano?

Me lo sono chiesto anch’io e continuo a chiedermelo spesso. Nei miei ricordi, ci sono lunghi anni di una Fede ridotta al minimo; poi qualcosa riaffiora. Sono tornato a messa ma ogni domenica mi sentivo insoddisfatto e confuso. Allora mi sono messo a cambiare chiesa: ogni volta una messa diversa dall’altra ma sempre la stessa confusione. Neanche a Roma, dove c'è l’imbarazzo della scelta, riuscivo a trovare una chiesa dove ritornare: tanto chiasso, tanta orizzontalità. Poi, un giorno, l’invito di un collega: “Vieni a Gesù e Maria”, il nome di una chiesa in via del Corso dove si celebra la messa antica: venni folgorato.
Non avevo mai assistito alla messa in latino: non la conoscevo. Anzi, non ne avevo neanche mai sentito parlare. Ecco cosa cercavo da almeno 10 anni: la Messa di sempre.

E come si è ritrovato alla guida di un pellegrinaggio internazionale?

Io credo che nulla accada per caso; uno fa il suo dovere, si rende disponibile, mette a disposizione i propri talenti, sta in mezzo agli altri e poi, tu non sai come, ti ritrovi delegato generale di un Pellegrinaggio internazionale, con il peso - ma un peso entusiasmante - di dover rappresentare tanti altri che comunque sono minoranza scarsamente tollerata, relegata nelle periferie della Chiesa.

Quali sono questi fedeli "relegati” nelle periferie della Chiesa?
 
Il pellegrinaggio è quello del popolo Summorum Pontificum: in sostanza, dei fedeli che, senza etichette, sono legati alla messa antica, detta comunemente messa in latino. E' un popolo formato da tanti che desiderano riavvicinarsi al culto e che, animati di un forte desiderio del sacro, vi trovano una liturgia più degna, più sacra, più solenne. Soprattutto è un popolo giovane: sulla pagina Facebook del Pellegrinaggio rileviamo migliaia di contatti e la fascia di età più numerosa è tra 18 e 34 anni. Spesso, purtroppo, è un popolo che non può vivere la sua fede pienamente perché non trova la messa antica nella sua parrocchia. Per questo il pellgrinaggio di sabato 26 ottobre in San Pietro a Roma assume un significato emblematico:  per anni si è pensato che ci fossero solo i Francesi ad essere tradizionalisti, poi soltanto gli Europei e adesso si scopre, grazie al motu proprio Summorum Pontificum che dalle Filippine al Sudamerica, dall’Australia alla Finlandia si tratta di una realtà universale. Niente di strano visto che il messale di San Pio V è stato il messale della Chiesa universale per secoli.

Questa messa era sparita dopo il Concilio, no?

Nei fatti sì. Nel 2007, quando Papa Benedetto ha restituito alla Chiesa universale la messa antica, in Italia c’erano soltanto una ventina di celebrazioni domenicali. Oggi se ne celebrano stabilmente circa 150: tra queste c’è la messa celebrata a Lecce dal 2009. Se penso agli inizi ancora sorrido: che ingenuo che ero. Non immaginavo che tanti mi avrebbero frapposto diffidenza, ostacoli, maldicenze anche cattive e inaspettate. Poi - sa com’è - le indagini più difficili sono e più appassionanti diventano. E quanto più il percorso è disseminato di difficoltà (anche dolose), maggiore è l’impegno che ci metti. E tanti sono gli amici che ti sostengono. 

Che c'entra la liturgia antica, fatta di silenzi, di adorazione e di canto gregoriano, con il suo mestiere?

Trovo grande analogia tra il mio mestiere di investigatore e la liturgia antica: nelle indagini devi essere attento ai dettagli ma non perdere mai di vista l’obiettivo, la ricostruzione in cui tutto possa trovare una spiegazione, possa andare a posto come in un puzzle rompicapo. Solo che per raggiungere l'obiettivo finale, devi avere passione per ogni dettaglio, né scordarti le regole, altrimenti è tutto inutilizzabile...
Così è la Messa in latino: trovi tutta, ma proprio tutta la tua fede, ma ne ritrovi anche i dettagli, tutti i dettagli.
C’è un altro aspetto di profonda affinità con il mio lavoro: il rito. Nel processo ci sono le regole, e se non le rispetti il processo è nullo; eppure non si tratta di formalismi. Le regole sono a tutela di tutti i soggetti coinvolti. E così è per il Messale tradizionale: così c’è scritto, così si fa nella Messa. Ed è tutela per i fedeli, ma è tutela soprattutto dei diritti di Dio ad essere adorato come Lui ha disposto; diritti che vengono spesso calpestati quando si inventa o addirittura si improvvisa la liturgia: quando nel corso delle indagini qualcuno commette scorrettezze, cerca di volgere le regole a proprio vantaggio, cambia le carte in tavola, si insorge e talvolta si grida allo scandalo. Perchè, se siamo così attenti ai diritti, siamo diventati tanto sciatti per i diritti di Dio? 

Ma in Puglia, dove viene celebrata la Messa antica?

Cominciamo da Lecce: ogni domenica alle 11 - anche d’estate - nella chiesa di San Francesco di Paola. Ufficialmente c’è a Bari, Taranto, Monopoli, Barletta, Ugento. Poi vi sono altre località che però - mi consentirete - non intendo rendere note perchè i sacerdoti ed i fedeli che vi partecipano potrebbero essere esposti a spiacevoli ritorsioni da parte di qualche superiore troppo zelante nel tentare di far sparire una norma universale della Chiesa qual è il Summorum Pontificum: alla faccia dell’accoglienza.

giovedì 17 ottobre 2013

"Cambiare" la Liturgia?

di Nicola Bux
da Chiesa Espresso on line



Oggi è più che manifesto il dissenso sulla natura della liturgia. È essa opera di Dio, in cui egli ha competenza, ha i suoi diritti? Oppure è intrattenimento umano dove fare ciò che noi vogliamo?

Le ombre, gli abusi e le deformazioni – termini usati da Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI ed effetti della bramosia di innovazione – hanno messo all'angolo la tradizione per cui “ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e dar loro il giusto posto” (così Benedetto XVI nella lettera di presentazione ai vescovi del motu proprio "Summorum pontificum").

Senza "traditio" – la consegna di ciò che abbiamo ricevuto, come scrive l'Apostolo – non si sviluppa organicamente il nuovo. Il dissenso si può risolvere solo comprendendo che la liturgia è sacra, cioè appartiene a Dio ed egli vi è presente e opera.

Ma a chi compete salvaguardare i diritti di Dio sulla sacra liturgia? Alla Sede Apostolica e, a norma di diritto, al vescovo ed entro certi limiti alle conferenze episcopali compete “moderare” la liturgia: così recita il testo latino della costituzione liturgica del Concilio Vaticano II (n. 22, § 1-2).
Che vuol dire “moderare”? Confrontando altri passi del Vaticano II, significa salvaguardare la legittima diversità delle tradizioni in campo liturgico, spirituale, canonico e teologico: si pensi alle liturgie occidentali come la romana e l'ambrosiana e alle numerose liturgie orientali ritenute all'interno dell'unica Chiesa cattolica.

Il termine può essere tradotto anche “regolare”, il che presume che l'operazione avvenga "sotto la direzione" di un'autorità suprema. Da un altro documento del Vaticano II, il decreto sull'ecumenismo (Unitatis redintegratio n. 14), sappiamo che i redattori del testo intendevano "moderante" come "sotto la presidenza", o in francese: "intervenant d’un commun accord" (la traduzione francese è stata fatta dagli estensori del decreto). La formula limita gli interventi romani "ad extra" al sorgere di uno screzio grave circa la fede o la disciplina.
La sacralità della liturgia, dunque, spinge la costituzione liturgica conciliare a tirare le conseguenze: “Perciò nessun altro, assolutamente, anche se sacerdote, aggiunga, tolga o muti alcunché di sua iniziativa, in materia liturgica”(n. 22 § 3).
Il Catechismo della Chiesa Cattolica ha ulteriormente precisato che “anche la suprema autorità della Chiesa [ossia il papa - ndr] non deve modificare la liturgia arbitrariamente, ma solo in obbedienza alla fede e con rispetto religioso per il mistero della liturgia” (n. 1125).

Ha scritto Joseph Ratzinger nella prefazione al libro di Alcuin Reid "Lo sviluppo organico della liturgia", Cantagalli, Siena, 2013:
“Mi sembra molto importante che il Catechismo, nel menzionare i limiti del potere della suprema autorità della Chiesa circa la riforma, richiami alla mente quale sia l'essenza del primato, così come viene sottolineato dai concili Vaticano I e II: il papa non è un monarca assoluto la cui volontà è legge, ma piuttosto il custode dell'antica Tradizione [una delle due fonti della divina rivelazione – ndr), e il primo garante dell'obbedienza. Non può fare ciò che vuole, e proprio per questo può opporsi a coloro che intendono fare ciò che vogliono. La legge cui deve attenersi non è l'agire 'ad libitum', ma l'obbedienza alla fede. Per cui, nei confronti della liturgia, ha il compito di un giardiniere e non di un tecnico che costruisce macchine nuove e butta quelle vecchie. Il 'rito', e cioè la forma di celebrazione e di preghiera che matura nella fede e nella vita della Chiesa, è forma condensata della Tradizione vivente, nella quale la sfera del rito esprime l'insieme della sua fede e della sua preghiera, rendendo così sperimentabile, allo stesso tempo, la comunione tra le generazioni, la comunione tra coloro che pregano prima di noi e dopo di noi. Così il rito è come un dono fatto alla Chiesa, una forma vivente di 'paradosis'".

È questo un invito alla riflessione per quanti mettono in giro la voce che papa Francesco stia per “cambiare” la liturgia.
Nel XVII secolo, in Russia, il tentativo del patriarca Nikon di cambiare i libri liturgici ortodossi produsse uno scisma. Nel secolo scorso anche tra i cattolici lo scisma di mons. Lefebvre fu dovuto in buona parte all'aver toccato la liturgia e ne soffriamo tuttora le conseguenze.

mercoledì 9 ottobre 2013

Volgendoci indietro e guardando avanti

di Helmut Ruckriegel *
da  UNA VOCE, n. 2, 3, 4/2012





Il primo ministro britannico dell’Ottocento, Benjamin Disraeli, era noto come eccellente oratore, ma un giorno il capo dell’Opposizione di Sua Maestà alla Camera dei Comuni disse, con quella specie di balbettio che è parte del curriculum di Oxford, che il primo ministro potrebbe fare ancor meglio “se qualche volta avesse qualche esitazione !”.

Io non posso permettermi il lusso di balbettare e di avere esitazioni, poiché è difficile condensare 46 anni – questa è l’età della nostra Federazione – in circa 30 minuti, ma ci proverò.
Compirò il mio 87° compleanno esattamente tra due settimane, per cui mi darete credito di conoscere la Chiesa prima e dopo il Vaticano II. Innanzitutto una parola di precauzione: ciò che dirò è la mia opinione personale, non voglio implicare il nostro movimento, non ho mostrato il mio manoscritto al nostro presidente in precedenza, per cui egli è innocente per ogni critica ch’io possa dirigere all’alto clero, vivo o defunto …

“Die alte Kirche ist mir lieber” – La vecchia Chiesa mi è cara – è il titolo del libro di un vescovo ausiliare tedesco. Molto spesso quel titolo è reso al tempo imperfetto: “la vecchia Chiesa mi era cara”, ma allora il nostro vescovo protesta, egli insiste dicendo che la vecchia Chiesa c’è ancora, esiste in questo giorno e in quest’epoca. E se è così, lo è soprattutto per opera della Divina Provvidenza e per la promessa fatta a san Pietro, e anche grazie ai movimenti come il nostro, principalmente movimenti laici.

Possiamo affermare ciò in tutta modestia, ma anche con un po’ di orgoglio, poiché il Santo Padre stesso dà ai laici una pacca sulla spalla, anzi due: nella sua lettera ai vescovi che accompagnava il motu proprio Summorum Pontificum del 7 luglio 2007 il Papa ammette che è grazie ai laici se il vecchio rito non è stato dimenticato, e anche l‘istruzione Universae Ecclesiae del 30 aprile 2011 mette in rilievo la parte che i comuni fedeli hanno avuto nel conservare la Messa di san Pio V.
Mi ricordò di ciò il Postcommunio di domenica scorsa, festa di Cristo Re - dove si dice di noi cristiani “qui sub Christi Regis vexillis militare gloriamur”, cioè “che ci gloriamo di militare sotto il vessillo di Cristo Re” che noi onoriamo nella nostra liturgia definita da padre Faber: “la cosa più bella da questa parte del cielo”.

Ma lasciatecelo dire: senza la tenacia di un altro movimento che combatte sotto il nome di San Pio X e la sua prole, la Fraternità Sacerdotale di San Pietro, non ci saremmo mai trovati qui dove siamo oggi.
Ed ora facciamoci tre domande: da dove abbiamo iniziato? A che punto siamo oggi? E dove ci stiamo dirigendo?

1. Da dove abbiamo iniziato?
Soltanto una persona che aveva almeno 10 anni nel 1965 – l’anno in cui Una Voce apparve – può avere delle reminiscenze, ancorché vaghe, di come la Chiesa appariva prima dei cambiamenti generati dal Concilio Vaticano II e dopo di esso. Quel cattolico avrebbe ora quasi 60 anni.
Osservandola dal di fuori era una Chiesa all’altezza del successo, rispettata nel mondo come la più alta autorità morale. Fino agli anni Sessanta la grande maggioranza dei cattolici, circa l’ottanta per cento, andava a Messa la domenica e si confessava regolarmente, di solito prima di ricevere la Santa Comunione.
Secondo G. K. Chesterton, mi pare, i cattolici erano gli unici che sapevano ciò in cui credevano.
C’era abbondanza di preti, i monasteri e i conventi erano pieni e non c’era mancanza di vocazioni. Tutto ciò è cambiato dopo il 1965, quando terminò il Concilio.
Cinque anni più tardi, esattamente l’otto dicembre 1970, si dice in un documento quanto segue: “I cattolici sono confusi da un mucchio di ambiguità, incertezze e dubbi che concernono l’essenza della fede. I dogmi della SS. Trinità e della Cristologia, il mistero dell’Eucaristica e la Presenza Reale, la natura della Chiesa come istituzione della salvezza, la funzione sacerdotale … il valore della preghiera e dei sacramenti, il carattere vincolante della legge morale e della teologia, come per esempio le promesse matrimoniali e la sacralità della vita umana, perfino l’autorità divina della Sacre Scritture non è risparmiata dall’essere messa in dubbio da una critica radicale … Siamo testimoni della tendenza a creare una nuova Cristianità che si allontana dalla tradizione apostolica, una Cristianità vuota di ogni elemento religioso”.

Non era il “vescovo ribelle” mons. Lefebvre che descriveva così la situazione, ma il papa Paolo VI nella sua lettera apostolica Quinque iam annos.
Noi siamo grati a quel Papa per il suo meraviglioso Credo del Popolo di Dio, e per la sua enciclica Humanae Vitae che si è rivelata profetica. E’ strano però che egli abbia mancato di vedere il collegamento che c’era tra lo sconvolgimento liturgico, la virtuale distruzione della liturgia, che è seguita al Vaticano II e il dissesto che egli stesso descrisse.
Il Papa regnante, Benedetto XVI, d’altra parte, è convinto che “la crisi della Chiesa d’oggi è causata dalla decomposizione della liturgia”.

Quand’era ancora cardinale, Joseph Ratzinger dichiarò: ”Nulla come la quasi completa proibizione del precedente messale nel 1970 si era mai verificato nella storia prima di allora. “Le conseguenze non potevano essere che tragiche”. “Come si può fidarsi della Chiesa presente se essa disprezza tutto il suo passato? “si chiede Ratzinger. “E si può fidarsi di una Chiesa che si mette in discussione, non potrebbe essa proibire domani quello che impone oggi?”. Il cardinale attaccava l’intolleranza che incontravano coloro che desideravano la vecchia liturgia, mentre la tolleranza per le più avventurose e incredibili trovate liturgiche era quasi illimitata. “I fedeli che desideravano la forma tradizionale della liturgia erano trattati come lebbrosi mentre i loro desideri avrebbero dovuto essere soddisfatti molto più generosamente”, ed egli non riusciva proprio a comprendere quest’opposizione dei vescovi.

Quando la Federazione Internazionale Una Voce fu fondata a metà degli anni Sessanta non era ancora questione di un nuovo rito della Messa, ma principalmente questione della lingua e della musica sacra. I cattolici erano comunque allarmati di fronte ai segni di distruzione che si manifestavano in ciò che era stato per loro sacro per più di un millennio e che doveva essere eliminato.

La Messa era soggetta agli esperimenti più incredibili.
L’iniziativa di fondare Una Voce sorse, tra tanti luoghi, in Norvegia e per breve tempo la sua sede fu a Oslo, per essere poi spostata a Parigi, dove il dr. Eric de Saventhem divenne il suo primo presidente. Il nostro amico Jacques Dhaussy entrò fin dal primo momento, mentre io fui reclutato dopo il mio ritorno da New York dal dr. De Saventhem, che mi accolse con un “benvenuto a bordo !”.
Verso la fine del secolo, Saventhem ebbe un eccellente successore nella persona del gallese Michael Davies, per onorare adeguatamente il quale mi occorrerebbe un’altra mezzora, perciò permettetemi soltanto di lodare il suo spirito combattivo e le sue numerose pubblicazioni a sostegno della nostra causa, come La nuova Messa di papa Paolo VI e, per favore non spaventatevi, una Apologia pro Marcel Lefebvre, per citare solo due di esse.

Una Voce fece la sua prima apparizione nel numero dell’aprile 1965 della rivista Musica Sacra, dove si presentò come un “movimento internazionale di laici il cui scopo è la rivitalizzazione della liturgia latina e del canto gregoriano in tutto il mondo … immediatamente”. Si diceva in quell’articolo: “Dei cattolici dall’Africa, America, Asia, da vari Paesi in Europa e perfino dall’Oceania si sono riuniti in quest’opera”.
E già in quella prima pubblicazione Una Voce si riferiva alla Sacrosanctum Concilium, la costituzione sulla sacra liturgia del Vaticano II, dove il latino e il canto gregoriano, assieme alla polifonia sacra (n.116), avevano il posto principale.

Abbiamo sentito ieri quanto estesamente il movimento Una Voce abbia diffuso nel mondo le sue attività a tutt’oggi.
A quel tempo non avevamo luccicanti periodici come Mass of Ages dall’Inghilterra, The Latin Mass dagli USA o Dominus vobiscum dalla Germania, per citarne solo qualcuno. Eravamo senza mezzi finanziari e per molti anni il dr. De Saventhem ci mantenne in attività con i suoi fondi privati. Ho conservato come prezioso memoriale tutti i notiziari ciclostilati – ingrigiti con l’età, come capita a me ora – che noi in Germania pubblicammo tra il 1965 e il 1970 come voce della nostra filiale nazionale di Una Voce e sono certo che questo modello era simile negli altri Paesi.
Quando – si diceva nel nostro primo numero – i Paesi del mondo si avvicinano grazie ai commerci, alla radio e alla televisione, noi di Una Voce vogliamo impedire la formazione di frontiere linguistiche nella Chiesa e l’errore fatale di una moltitudine di liturgie nazionali. Nel nome scelto di Una Voce, preso dal prefazio della domenica della SS. Trinità, il latino come lingua della liturgia in tutto il mondo era diventato il motto del nostro movimento.

Enormi ostacoli si presentarono fin dall’inizio.
I soci di Una Voce furono diffamati, ridicolizzati e accusati di disobbedienza. Non servì a nulla far notare che noi non trovavamo nulla nei documenti del Concilio per giustificare gli enormi cambiamenti che erano in diretta contraddizione della costituzione liturgica. Parecchi Padri del Concilio dichiararono che non avrebbero mai dato il loro consenso a quella costituzione se avessero saputo come sarebbe stata interpretata in seguito.

Ben presto i preti cominciarono a dire tutti i testi della Messa in vernacolo, ancora contro i chiari precetti della costituzione. Papa Paolo VI, che aveva tentato di arginare la marea e che aveva detto che naturalmente il Canone doveva rimanere in latino, alla fine permise questo cambiamento, e una volta ancora non era stato il laicato a chiedere queste modifiche.
Col cuore triste, il Papa concesse anche l’uso di ricevere la comunione sulla mano, perché era stato comunque introdotto, deplorandone le conseguenze per la fede. Siamo ora gli unici cristiani della successione apostolica che lo fanno. E lo stesso si verifica quando i sacerdoti che celebrano il Santo Sacrificio dell’altare guardano la congregazione invece di guardare, assieme ai fedeli, verso est, come fanno tutti gli ortodossi e tutti i cristiani orientali.

I vescovi erano o impotenti contro questo delirio di innovazioni o riluttanti ad interferire – alcuni addirittura incoraggiavano questi abusi – o temevano l’opposizione dei loro nuovi comitati liturgici e di quelli dietro a loro. “La crisi della Chiesa è una crisi dei vescovi” dichiarava il card. Seper, a quel tempo prefetto della Congregazione della fede.

Ma il peggio doveva venire quando la nuova Messa di Paolo VI fu incondizionatamente imposta nel 1970.
I fedeli ebbero impressione che d’allora in poi la vecchia Messa fosse finita e proibita. Padre Joseph Gelineau sj, uno dei periti del Concilio che era rimasto a Roma in seguito per vedere che il partito progressista controllasse la situazione, dichiarò l’antico rito “distrutto”. La natura del nuovo rito, sosteneva, era differente.

Quando il nostro presidente, il dr. Eric de Saventhem, chiese ad un alto prelato se la vecchia liturgia era proibita, ottenne la seguente risposta: ”Il Santo Padre – vale a dire Paolo VI – desidera che sia celebrata quella nuova”. Il dr. de Saventhem chiese per tre volte, ma ottenne sempre la stessa risposta evasiva. E come Gelineau, l’arcivescovo Benelli spiegò che il nuovo rito era il rito di una nuova ecclesiologia.
Una nuova Chiesa? Dio ce ne guardi! Papa Benedetto XVI ha chiarito in modo inequivocabile che non si deve desumere una tale differenza tra la Chiesa di prima e dopo il Concilio Vaticano II.

Due mesi fa in Germania orientale sono stato testimone di una pretesa funzione cattolica dove tutti i testi ufficiali della liturgia erano assenti. Canzoni tedesche avevano preso il posto del Kyrie, del Gloria, del Sanctus e dell’Agnus Dei; non si disse il Credo, sostituito da un inno che era lontano dall’esprimere il Credo apostolico o quello niceno. Mi chiesi se quella era la forma ordinaria del rito romano che il Papa Benedetto vorrebbe mettere allo stesso livello della Messa del vecchio rito, ora chiamato straordinario: sono certo che Sua Santità non sarebbe d’accordo.

Negli anni che seguirono la sospensione del vecchio rito la Federazione Una Voce intraprese innumerevoli interventi a tutti i livelli con i vescovi, e a Roma stessa, rendendo nota all’autorità la sofferenza dei fedeli privati del nutrimento spirituale con il quale erano cresciuti: il provincialismo di una comunità che fu universale e unita da un linguaggio universale, l’incoraggiamento del particolarismo e la tendenza alla frammentazione in chiese nazionali, la mancanza di cattolicità, gli abusi che sono subentrati alle dignitose funzioni divine e la tragica perdita anche dei valori culturali.

“Il latino – recitava il titolo di un quotidiano tedesco – è diventato una lingua morta soltanto dopo il Concilio Vaticano II”.

In molti luoghi furono lanciate proteste contro questa distruzione: una delle più spettacolari fu un appello pubblicato sul Times di Londra il 6 luglio 1971, che paragonava tale distruzione alla demolizione delle cattedrali costruite per la celebrazione della vecchia Messa. Non soltanto dei cattolici come Graham Green, ma anche persone di altre affiliazioni religiose come Philip Toynbee, Vladimir Ashkenazi, Robert Graves, Yehudi Menuhin, Agatha Christie, Nancy Mitford and Joan Sutherland, per citarne alcuni, fece notare alla Santa Sede “la spaventosa responsabilità cui incorrerebbe nella storia dello spirito umano rifiutando alla Messa tradizionale di sopravvivere”. E la figura imponente del patriarca ecumenico di Costantinopoli Athenagora implorò a Paolo VI :”Santo Padre per favore non cambiate la liturgia!”.

Benché Roma non intendesse deflettere dal cammino scelto, i capi della Federazione Internazionale Una Voce, in tutta umiltà, mantennero la loro posizione. E in palese contrasto con la realtà furono intonati inni a lode dei “frutti” che erano stati raccolti dall’albero delle cosiddette riforme. Tutto ciò era frustrante, specialmente per il dr. de Saventhem, il quale nondimeno continuò i suoi interventi presso la Curia romana, alla quale aveva accesso.
Poi, nel 1984, Roma dovette ammettere apertamente che la questione della vecchia Messa non era chiusa definitivamente, come si faceva apparire dopo il 1970, quando il Novus Ordo era divenuto legge comune per la Chiesa latina. Quattuor abhinc annos, firmato dal nostro amico il card. Augustin Mayer, dichiarò fragorosamente che “il problema continua”.

Avevamo un nuovo Papa.
Per Paolo VI la questione della liturgia era stata, abbastanza stranamente, un ingrediente essenziale di tutto il Concilio Vaticano II e non vi era dubbio che egli aveva voluto quella liturgia per segnare la fine di quella tridentina, mentre Giovanni Paolo II, che non era un grande liturgista, non vedeva alcun problema nella coesistenza, fianco a fianco, delle due forme del rito. Era solo una questione di disciplina, egli disse all’arcivescovo Lefebvre, il francese “ribelle”, in un’udienza concessa poco tempo dopo la sua elezione al seggio di san Pietro.
Ma quando filtrò in Curia la notizia che Sua Santità intendeva concedere alla vecchia Messa uno status uguale, ebbe luogo una specie di sollevazione: il card. Knox protestò aspramente, rifiutando ogni cooperazione da parte del suo dicastero e decidendo di compilare quel sondaggio che avrebbe dato i risultati desiderati. Soltanto meno del 2% dei cattolici desideravano la liturgia tradizionale, sostenne il cardinale, una percentuale che ci ricordava i risultati delle elezioni nell’impero sovietico, mentre le Federazione Una Voce si rivolse ai sondaggi neutrali Gallup, che avevano prodotto risultati opposti.

Di fronte a quella ribellione del card. Knox, il Papa cedette, ma non del tutto. Egli decise per un approccio passo dopo passo e così nacque l’Indulto del 1984.

In un discorso alla riunione di Una Voce Germania nell’ottobre del 1984, il dott. de Saventhem analizzò il documento, che poteva essere interpretato, egli disse, in vari modi, in modo positivo o negativo. Innanzitutto, egli dichiarò, era certo che da quel momento in avanti la vecchia Messa, nella forma del messale romano del 1962, era di nuovo parte della tradizione liturgica cattolica. Secondariamente le filiali nazionali della Federazione Una Voce dovevano mettersi in contatto con i vescovi diocesani per scoprire se noi eravamo considerati interlocutori validi. In terzo luogo, egli come presidente della Federazione Internazionale Una Voce, sarebbe andato a Roma per chiarire quei punti dell’indulto che erano ambigui. Eric de Saventhem terminò il suo discorso citando Louis Salleron: “Il diritto alla celebrazione della vecchia Messa è ostacolato da una quantità di condizioni. Ma un passo in avanti è stato fatto e non può più essere annullato. Ci saranno certamente lotte, resistenze e cavilli: troppo tardi perché la vecchia Messa è stata restituita alla Chiesa”.

Gli anni seguenti furono ancora di ardua lotta.
I permessi per la celebrazione della Messa tradizionale, se c’erano, erano concessi solo malvolentieri; noi eravamo ignorati, diffamati e ostracizzati. La vecchia Messa, laddove era concessa, fu marginalizzata: ci vorrebbe troppo tempo per elencare tutti i cavilli che Louis Salleron aveva predetto. Rimanemmo una Chiesa nelle catacombe.
La signora Rheinschmitt, che con la sua organizzazione era diventata un’attivissima alleata di Una Voce Germania, fece notare a quel tempo che secondo la sua esperienza i luoghi dove si era ottenuta la vecchia liturgia erano trattati come gli ambienti dove si riunivano i drogati per le loro orge.

Poi, la consacrazione a Ecône dei quattro vescovi da parte di mons. Lefebvre il 30 giugno 1988 produsse il motu proprio Ecclesia Dei adflicta. Ma nonostante l’auspicio del Santo Padre Giovanni Paolo II “che il desiderio di tutti coloro che si sentivano legati alla tradizione latina della Chiesa latina fosse rispettato”, tale auspicio e tale desiderio furono largamente ignorati dall’episcopato.

Ancora una volta, i soci di Una Voce avevano davanti a loro degli anni frustranti.
“Il voto con i piedi dei fedeli” che era cominciato nel momento in cui iniziavano gli esperimenti liturgici dopo il Concilio, continuò, per cui il presidente de Saventhem, in un instante di scoramento dopo l’esperienza negativa di quattro anni, parlò del “deprimente e detestabile” indulto del 1984 oltre al quale il motu proprio Ecclesia Dei adflicta del 1988 offriva nulla più che la promessa di una generosa attuazione.
Perché così poco e perché non seguire il suggerimento della commissione di quegli otto cardinali del dicembre 1986, che aveva concluso che quell’indulto era impraticabile e doveva essere sostituito da un nuovo regolamento, cioè: ogni sacerdote che celebrava l’Eucaristia doveva essere libero di scegliere tra il messale del 1970, contenente il nuovo rito e il messale del 1962 con l’ultima edizione del rito tridentino, non aveva importanza se con i fedeli o senza, sine aut cum populo?

2. A che punto siamo oggi?
Siamo giunti alla seconda parte delle nostre considerazioni.
Con l’elezione al soglio di san Pietro del card. Joseph Ratzinger, è sorta una situazione totalmente nuova. Il nuovo papa, che come cardinale non aveva lasciato dubbi riguardo a che posizione liturgica tenesse e che aveva ripetutamente celebrato nel suo Paese natale e altrove secondo il rito tradizionale, è naturalmente la stessa persona di prima, soltanto con una quasi sovrumana responsabilità per la Chiesa universale, sulla cattedra di San Pietro. Le dure critiche che come cardinale, come prefetto della Sacra Congregazione della Fede e come autore di non pochi libri e pubblicazioni, aveva diretto contro la quasi distruzione della liturgia nel periodo successivo al Vaticano II, sono agli atti. Ma, come la vedo io, papa Benedetto XVI, come nuovo Papa, deve tener conto della Chiesa nel suo complesso e della resistenza di quelli che sembrano essere ancora molti vescovi che palesemente si oppongono alla Chiesa così come si presentava prima del Vaticano II, specialmente nel suo atto più nobile, il Sacrificio della Messa. Da qui gli sforzi del Papa per colmare il divario tra le due Chiese immaginarie: la sua insistenza sull’ermeneutica della continuità.

Noi siamo convinti che questo divario possa essere colmato riportando la forma classica della Messa ad un posto d’onore nella vita liturgica della Chiesa e io personalmente sono certo che Sua Santità non risparmierà alcun sforzo per agire in questo senso.
E" sperabile che con il passar del tempo quest’azione rivolta a sanare le ferite che ancora bruciano sarà apprezzata anche da coloro che ancora si oppongono. Ma potrebbe accadere che il suo alto ufficio di ammaestrare i fedeli e di governare la loro vita liturgica non gli permetterà di attendere fino a che l’ultimo oppositore abbia visto la luce.

Cosa abbiamo ottenuto finora? Si potrebbe dire che il mp Summorum Pontificum del 7 luglio 2007, a dispetto dell’opposizione, come l’esito del conclave del 19 aprile 2005, è esso stesso un altro miracolo e di nuovo un’impresa quasi sovrumana, come anche una prova di grande coraggio e di attaccamento alla tradizione da parte del Santo Padre. E" una legge per tutta la Chiesa, non per un gruppo limitato, un fatto che è sottolineato dal titolo Universae Ecclesiae, l’istruzione del 30 aprile 2011 per l’attuazione del motu proprio. La Pontificia Commissione Ecclesia Dei è un superiore gerarchico dei vescovi e delle loro conferenze e come tale è autorizzata a dirigere e a correggere le loro attività. Roma è al corrente della loro resistenza, perciò i reclami possono essere diretti a quella commissione. Il Summorum Pontificum e la Lettera ai vescovi che l’accompagna stabiliscono che l’Usus Antiquior e l’Usus Modernus, ora denominati forme straordinaria e ordinaria della Messa, si fondano sulla stessa fede. Il Papa rifiuta l’opinione di coloro che vedono una contraddizione tra le due edizioni del messale romano.

Ma il Papa non risparmia alcuno sforzo per avvicinare il più possibile il messale di Paolo VI a quello che noi usiamo, nella editio typica promulgata dal beato papa Giovanni XXIII (1962).
Molti “liturgisti” hanno tentato di svalutare la vecchia Messa, la sua struttura e la sua teologia, pretendendo che la nuova Messa fosse superiore alla teologia di quella vecchia. Il Santo Padre dice: NO, le due forme non sono opposte l’una all’altra, ma stanno fianco a fianco.

E inoltre: la vecchia Messa deve essere accessibile a tutti i fedeli, è un tesoro di tutta la Chiesa che – indipendentemente dal desiderio di coloro che la desiderano – deve essere conservata;
conservata non come un pezzo da museo, ma per l’utilizzazione nella vita reale e anche come correttivo, poiché la Messa di Papa Paolo VI può beneficiare da questa contiguità, dalla sacralità della forma “straordinaria”.
Dobbiamo condividere una lugubre prospettiva? Forse sì, poiché soltanto un giorno dopo l’apparizione dell’Universae Ecclesiae il portavoce della Conferenza Episcopale tedesca ha reso noto che non c’era “nulla di nuovo” in quel documento, volendo dire: tutto va avanti come al solito.

Ma il mondo cattolico è più grande di un singolo Paese e noi siamo qui come Foederatio Internationalis Una Voce, per cui rincuoriamoci, facciamo il nostro lavoro, stiamo vicini al successore di san Pietro, sosteniamo Sua Santità pregando con fervore che Iddio conceda successo ai suoi sforzi. E un lungo regno!
Malgrado tutto noi possiamo rilevare un considerevole, se non grande, miglioramento per ciò che riguarda la diffusione della forma “straordinaria”. Nel mio stesso Paese i luoghi dove è celebrata sono aumentati rapidamente da quando il Summorum Pontificum è entrato in vigore: il loro numero è quadruplicato. Gli orari e i luoghi di queste celebrazioni sono ora annunciati nelle bacheche delle parrocchie, laddove prima la loro esistenza era tenuta nascosta ai fedeli.

Una Voce Germania e Pro Missa Tridentina provvedono affinché ai congressi e ai raduni cattolici una Messa tradizionale sia celebrata fianco a fianco con la forma ordinaria. Eppure, a tutt’oggi, nessun vescovo a capo di una diocesi in Germania ha mai celebrato secondo il vecchio rito. L’istituzione delle conferenze episcopali sta reprimendo quei vescovi che sarebbero disposti a farlo: sembra che essi abbiano delegato i loro diritti indipendenti alla burocrazia dittatoriale della maggioranza.
 Congratuliamoci con i Paesi dove questa situazione è diversa. 

3. Dove ci stiamo dirigendo?
Giunti alla terza parte, la più breve di questa esposizione, dichiaro che: se avessimo avuto entrambe le forme del rito romano fianco a fianco sin dall’inizio (come aveva suggerito al quel tempo mons. Klaus Gamber, un liturgista molto stimato dal card. Ratzinger), non avremmo avuto bisogno di preoccuparci. Sono certo che la nuova Messa sarebbe stata in una posizione minoritaria, la gente sarebbe rimasta con quello che era stato il rito immemorabile in uso per più di un millennio. E la Chiesa non avrebbe sofferto le perdite che deploriamo.

Ma 40 anni di oppressione hanno lasciato le loro tracce. La maggior parte dei cattolici al mondo oggi non ha alcuna conoscenza della vecchia forma, di conseguenza, come possono conoscere e amare ciò che hanno perduto? Così come si fa appello alla Chiesa nel suo complesso per iniziare una nuova evangelizzazione per la fede, non rimane altro per i gruppi uniti sotto il vessillo della Federazione Internazionale Una Voce che diffondere la conoscenza della liturgia primordiale, ben sapendo che non c’è modo migliore per propagare la fede.

Alla nuova generazione questa liturgia si presenta come una vera rivelazione: poco hanno conosciuto del tesoro che la Chiesa ha in deposito per il bene di tutta la loro esistenza. Un’ardua lotta ci attende ancora, una sfida per combattere le forze di una mentalità protestante, che si è sparsa sulla Chiesa cattolica dal tempo del Vaticano II.
Questa mentalità si trova ovunque. Il cardinale di Vienna, che è lungi dall’essere un prelato dalla mentalità tradizionale, recentemente suggeriva che coloro i quali pretendono a gran voce cose non cattoliche nella Chiesa farebbero forse meglio ad abbandonarla e unirsi ai protestanti.

Ma lasciate che la Chiesa cattolica rimanga cattolica!
Una domanda finale, forse difficile: ha bisogno il movimento Una Voce di una prelatura personale per salvaguardare ciò che è stato ottenuto per la tradizione?
Capisco questo desiderio di sicurezza. Dopo tutto, una volta nel 1998 noi presentammo, su consiglio della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, una proposta per quel fine a una persona vicino al Papa Giovanni Paolo II, e Leo Darroch si diede molto da fare affinché arrivasse al Santo Padre.

Ma Papa Benedetto sembra voler prendere un’altra linea.
Quando, decenni fa, noi considerammo la questione, prematuramente ammetto, avevamo una tendenza contraria alla prelatura personale, per la semplice ragione che ciò poteva portare a una Chiesa dentro la Chiesa; avremmo potuto diventare un gruppo separato, qualcosa di esotico e “diverso” laddove la maggioranza dei cattolici andava per un’altra strada. No, dicemmo noi, noi vogliamo che ogni altro cattolico goda di ciò che noi consideriamo il meglio.
Ma anche quelli che desiderano la sicurezza legale hanno una finalità.

Perciò che ne pensate dell’idea seguente?
Noi dovremmo considerare il termine “straordinario” per la Messa come un titolo d’onore, che significa: nelle occasioni ordinarie la forma “ordinaria” – se celebrata strettamente secondo le rubriche e fedele al latino originale – può bastare per quelli che la preferiscono. Ma nelle occasioni straordinarie la forma “straordinaria” dovrebbe essere resa normativa. Quali sono le occasioni straordinarie? Penserei alle grandi feste della nostra fede, come il Natale, la festa dell’Incarnazione, Pasqua come festa della Resurrezione e come tale la festa delle feste e la Pentecoste come festa dello Spirito Santo. Perciò noi potremmo batterci perché la forma straordinaria diventi quella appropriata, almeno per la Messa solenne cantata. E non è ogni domenica una piccola Pasqua?
In tale giorno la Messa principale dovrebbe pure essere celebrata in questa forma, mentre le altre Messe potrebbero aver luogo nella forma ordinaria.

Io oserei perfino suggerire che una Messa papale è sempre “straordinaria” a suo modo, così quale sarebbe la conseguenza? Mi rendo conto che ciò suona quasi utopistico, e che il Santo Padre rispose negativamente quando un mio amico gli chiese di cominciare a celebrare occasionalmente nel modo tradizionale: dopo tutto come card. Ratzinger lo aveva fatto cosi frequentemente.

Non molto, puntualizzò il Papa, egli aveva fatto quello che poteva: ora toccava ai vescovi fare la loro parte. Ma il tempo va avanti: chi avrebbe osato prevedere anche solo due anni fa, come ha detto il nostro presidente, che un cardinale avrebbe celebrato per Una Voce una Messa secondo la forma straordinaria nella cappella del SS. Sacramento nella basilica di S. Pietro, com’è avvenuto ieri?
Noi sappiamo che ha del miracoloso ciò che Sua Santità ha realizzato in pochi anni contro montagne di opposizioni, eppure, se davvero il rito ordinario e quello straordinario sono entrambi forme legittime dell’unico rito romano, allora sembrerebbe la cosa più naturale che in ogni chiesa entrambe le forme fossero regolarmente presenti. Ogni esitazione a compiere ciò non conferma e giustifica coloro – nel campo progressista e in quello tradizionalista – che vedono in questa asserzione di esserci un solo rito un’invenzione per evitare di ammettere che una breccia è stata davvero aperta alla tradizione? Quarant’anni fa la Federazione Una Voce non avrebbe nemmeno sognato che un giorno alla Messa tradizionale sarebbe stato riconosciuto lo stesso status legale della Messa di Paolo VI. Chiunque lo avesse predetto sarebbe stato accusato di vagheggiare un’utopia.

Ma quest’utopia si è realizzata, è diventata realtà.
Pertanto diamoci da fare per rendere il riconoscimento legale ad una realtà da vivere e da praticare.
Ci vorrà del tempo. E soltanto se ciò avviene noi potremmo mirare a un’altra utopia: la visione della forma straordinaria che scambia i ruoli con quella ordinaria, diventando di nuovo la forma principale nella Chiesa. Chissà, tra quarant’anni non potrebbe quest’utopia cominciare a diventare la nuova realtà?




* S. E. Helmut Ruckriegel, ambasciatore tedesco, è presidente emerito di Una Voce Germania. Il presente articolo è tratto dalla conferenza pronunciata alla XX assemblea generale della federazione internazionale tenuta a Roma il 5 e 6 novembre 2011. Traduzione dall’inglese a cura di Mario Seno.