Sono giunto
a conoscenza di recenti (quanto antichi) tentativi di diluire, tramite giri di
parole vuote e riferimenti ad una "teologia dei Padri" opportunamente
filtrata, il senso del dogma di Fede Cattolica nella presenza reale di Gesù
Cristo nelle specie eucaristiche.
L'occasione si è presentata con l'articolo di F.Martignano Il realismo
eucaristico al concilio di Trento e al concilio Vaticano II apparso su Rivista
di scienze religiose (n.2/2013, Monopoli).
Innanzitutto
è bene ricordare che le verità di Fede rimangono realtà non adeguate
all'intelletto umano, altrimenti non vi sarebbe bisogno della virtù della Fede
per crederle. Non sono realtà irrazionali, anzi se ne può parlare per mezzo di
concetti. Noi però non abbiamo il diritto di imporre a Dio i nostri schemi e
definire ciò che lui può fare e ciò che non può secondo il metro dell'ordinario
raziocinio.
Pensiamo
alla realtà della Trinità: tre Persone sono uguali, ma distinte. Il Soggetto,
però, è Dio: unico. Nella mente umana però, a persona corrisponde soggetto,
poiché la persona è un'entità individuale. Come anche ogni ente è uno. Dio però
è in tre Persone, ma Uno. La mente umana non è adeguata a concepire una cosa di
questo tipo. Infatti la realtà della Trinità si vive nella Fede ed è sorgente
inesauribile di amore. E l'agape che è Dio non è propriamente qualcosa
di comprensibile razionalmente e completamente, ma qualcosa che si sperimenta e
si vive e soprattutto si contempla.
Dalla conoscenza di un mistero di Fede, quindi, promana l'amore.
Ma adesso veniamo all'argomento principale.
Ecco
l'insegnamento del Concilio di Trento: «Non vi è infatti contraddizione tra il
fatto che lo stesso nostro Salvatore sieda sempre nei cieli alla destra del
Padre, secondo il modo naturale di esistere, e il fatto che, tuttavia, presente
sacramentalmente in molti altri luoghi, sia [praesens] presso di noi
nella sua sostanza, con quel modo di esistere che, difficile da esprimere a
parole, tuttavia possiamo comprendere con la nostra mente illuminata dalla
fede, come possibile a Dio e che anzi dobbiamo credere fermissimamente»[1].
Secondo me un qualunque semplice fedele non troverebbe alcuna difficoltà nel
capire e assimilare la dottrina contenuta in queste parole. Mentre notiamo che
alcuni teologi fanno molta fatica in questo. Questo è un cattivissimo segno.
L'elucubrazione
argomenta soprattutto a partire da una
distinzione tra termini[2].
Affrontiamo sintenticamente le difficoltà legate a questa questione, che
crediamo siano originate (come già S.S. Pio XI scriveva a riguardo delle cause
della diffusione del modernismo) da deboli basi filosofiche. Infatti nelle
nostre facoltà teologiche si insegna ormai la filosofia del Novecento (sulla
scorta di Karl Rahner) e non quella di san Tommaso, come prescrive la Chiesa.
a) Reale. Non è
sinonimo di "vero" e non si oppone a "immaginario" o
"falso". Nel linguaggio comune è evidentemente spesso così, ma noi
dobbiamo tener presente il linguaggio fortemente univoco della filosofia classica;
un linguaggio tanto preciso, e dunque scientifico, che nessun'altra filosofia
ha mai elaborato.
"Reale" si oppone dunque a "mentale". Un ente reale è una
cosa esistente al di fuori della mente; l'ente mentale è il concetto. Il
concetto non è falso o "distante" dalla realtà perché è mentale. Non
dobbiamo cadere in opinioni di stampo kantiano e, in genere, moderno che tanto
hanno fatto male alla cultura occidentale. Io posso avere il concetto di Gesù
Cristo nella mente: ciò significa semplicemente che Gesù Cristo, in quanto
reale, sussiste al di fuori della mia mente, ma grazie all'intelligenza, io
posso conservare nella mia mente la nozione di Gesù Cristo appresa a partire
dall'esperienza sensoriale[3].
Dire dunque che Gesù Cristo è "realmente presente" (nell'Eucaristia)
significa esattamente dire che egli, come se fosse una persona che cammina,
pensa, agisce, parla, ride, è lì, è presente, proprio in quelle specie.
E' presente realmente e quindi non è un concetto. E' presente, cioè è una sostanza.
b) Sostanza.
Non facciamoci ingannare dal pensiero moderno e dal linguaggio comune.
La sostanza non è il materiale o il composto chimico di cui una cosa è fatta. L'ente
reale è una sostanza, cioè è un'unità fondamentale intellegibile e di per sé
sussistente in quanto conclusa nella sua natura. In altre parole: è qualcosa
che posso distinguere da altro e a cui posso dare un nome, che corrisponde
appunto ad un concetto ben determinato. Dire che Gesù Cristo è presente come sostanza
nelle specie eucaristiche, significa dire che egli, come ente, come qualsiasi
altro ente, quindi come una qualsiasi persona, è lì, Egli è quelle apparenze
delle specie che noi vediamo.
Parlare, dunque, di transustanziazione significa dire che ciò che è
inzialmente pane e vino diventa qualcosa che non chiamo più "pane" e
"vino" (le sostanze del pane e del vino), ma esattamente qualcosa (o
meglio Qualcuno) che chiamiamo "Gesù Cristo" e che non è più
assolutamente il pane e il vino, nonostante ciò che appare alla vista.
Questa è una verità di Fede. Il nostro intelletto conosce attraverso
l'esperienza e da lì elabora il concetto, cioè una nozione vera della realtà.
Noi non possiamo ordinariamente pensare che una cosa, ad un'analisi chimica,
risulti di frumento, ma non lo sia in realtà. Eppure questo avviene con
la consacrazione delle specie eucaristiche durante la Messa. Che ciò piaccia o
no, questo insegna il Concilio di Trento.
c)
Exhistentia. E' scomponibile in "ek" e
"stasis", che vogliono dire "stare fuori". Indica la realtà
in quanto contigente, uscita dal nulla e perciò creata. A rigor di termini è
sbagliato dire che Dio "esiste", ma bisognerebbe dire che Dio è.
Ed infatti così si esprime san Tommaso nella Summa. Quanto a Cristo, il termine
è proprio perché Egli è vero uomo. Il fatto che il Concilio di Trento utilizzi
questo termine significa semplicemente che si sta riferendo ad un modo di
"stare" particolarmente tangibile, o anche, lo stare e basta. E'
normale che sia riferito allo stare di Cristo glorificato alla destra del Padre
con il suo corpo vero e reale ma anche risorto e immortale. Un modo di essere
"collocato", in forza della glorificazione, comunque non identico a
quello di cui facciamo esperienza.
d)
Praesens. L'autore oppone "presente" a
"esistente". Abbiamo chiarito che il termine "esistenza"
rende molto plasticamente e "sensorialmente" il fatto di essere
presente corporalmente in un luogo. Ed è vero che per la Dottrina cattolica
Cristo si rende presente in molteplici azioni della Chiesa, come quelle
liturgiche e specialmente nei Sette Sacramenti. Ma... la Dottrina è
molto chiara: Cristo vi è presente con la sua virtus: forza, potenza,
evidentemente salvifica, si intende: Cristo, glorificato alla destra del Padre,
opera continuamente la Redenzione nel mondo attraverso lo Spirito Santo.
Nell'Eucaristia, però, Cristo è presente realmente e sostanzialmente. Il
Concilio si esprime con le parole "presente con la sua sostanza".
Abbiamo già detto cosa significa il termine "sostanza". E' quindi
molto chiaro cosa intende il Concilio.
e) Sub specie
sacramenti. La disanima dell'autore si sposta sui termini
usati nella Summa theologiae. San Tommaso distingue un modo di essere di Cristo
in cielo in propria specie e sugli altari sub specie sacramenti[4].
L'autore vuole con questo suffragare l'idea che Cristo sarebbe presente
nell'Eucaristia "sacramentalmente" e quindi, implicitamente, come in
tutti gli altri Sacramenti. Ma san Tommaso sta dicendo semplicemente ciò che
abbiamo spiegato sub c) e d).
f)
Celebrazione. Eccoci al perno e alla "causa scatenante"
di tutto l'articolo[5].
L'autore interpreta le nozioni di cui sopra a partire da una teologia liturgica
determinata, che però non mi sembra ispirarsi esattamente a quanto la Chiesa ci
consegna[6].
Il Sacramento, ogni Sacramento, sarebbe, così, niente meno e niente più che una
celebrazione[7].
E' vero che il Sacramento dell'Eucaristia è inserito in una celebrazione; è
vero che così deve essere, perché la Liturgia Eucaristica perpetua nel tempo
l'atto di adorazione di Cristo al Padre sulla terra per mezzo della Chiesa. E'
tuttavia gratuito restringere il senso e il valore dell'Eucaristia al momento
della Santa Messa. La Chiesa ha sempre consegnato l'Eucaristia come viatico ai
malati che non potevano partecipare alla celebrazione, proprio perché potessero
essere rafforzati spiritualmente dalla sua consumazione. Ha anche con il tempo
incominciato a conservare l'Eucaristia in luoghi adeguati al fine di estendere
il momento di adorazione ad essa al di fuori della Messa. Ma una tendenza
archeologistica molto forte nella teologia attuale porta a pensare che tutto
ciò che è stato introdotto dopo il IV secolo è frutto di decadimento,
incrostazione ideologica, collusione tra Chiesa e Stato[8].
Questo atteggiamento porta ad una forte autoreferenzialità, a chiudersi al
confronto con la Chiesa.
L'Autore
termina proponendo, neanche tanto velatamente, di buttare a mare gran parte
della spiritualità degli ultimi dieci secoli[9]:
Egli aveva affermato precedentemente – seppur implicitamente – che l'Adorazione
del Santissimo Sacramento sarebbe solo una pratica che resiste al venire meno
di quella teologia che ne ha dato origine[10].
A parte concepire la teologia con ottica evoluzionistica e non organica (segno
che l'autore è condizionato da un approccio discontinuista), tali cose egli
crede di poter affermare, nonostante il Magistero ha continuato per tutto il XX
secolo e continua ancor oggi a raccomandare l'Esposizione ed Adorazione
eucaristica, possibilmente perpetua.
A questo
punto il semplice fedele, che segue l'indicazione di Gesù "dai frutti
riconoscete l'albero", storce il naso di fronte a manifeste distorsioni e
al palesamento della volontà di far evolvere la religione a cui è stato
abituato in qualcosa di più "progredito" o semplicemente più
"autentico"[11].
Compito
della Teologia non è cercare di elaborare complesse discussioni miranti a
stabilire sofisticate (o più che altro sofistiche) distinzioni, a spaccare il
capello in quattro, pensando, con questo, che la teologia vada
"avanti", per poi finire per ripetere vecchi errori. Essa ha il
compito di trasmettere intatta e in modo comprensibile e arricchente per tutti
la Dottrina di sempre, quella degli Apostoli. Questa non va
"interpretata" a partire da concezioni teologiche, ma al massimo a
partire dal solo Magistero... o tutt'al più dalle riflessioni dei
santi; a scanso di equivoci: quelli canonizzati, si intende...
La presenza
reale di Gesù Cristo nell'Eucaristia è il frutto più ragionevole e più
misteriosamente grande della logica dell'Incarnazione. Il Signore ha posto la
sua tenda tra noi, ha voluto che noi potessimo entrare in comunione totale con
Dio, non più apparendo con la sua gloria come faceva nella tenda del convegno o
nel tempio, ma presentandosi vivo e vero sotto i veli delle specie del pane e
del vino per potersi fare mangiare e diventare nostro, cosicché noi potessimo
accogliere integralmente la sua divinità in noi.
La Chiesa ha sempre creduto questo, ma perché invece alcuni cristiani sentono
la necessità di sminuire la portata di questa dinamica divina? Perché non ne avvertono
la conformità al disegno della sapienza divina, l'ordine e la ragionevolezza?
[1] DH 1636
[2] F.MARTIGNANO, Il realismo eucaristico al
concilio di Trento e al concilio Vaticano II, pagg. 446-456, in «Rivista di
scienze religiose», n.2/2013, Monopoli
[3] Dunque parziale e fuorviante appare la
disanima di pagg. 457-459 e la sconfessione del Magistero di Paolo VI, il quale
avrebbe commesso l'errore di non essersi collocato all'interno di una dottrina
definita, molto furbescamente, "misterica", con questo volendo
asserire che è quella dei Padri, dunque quella cattolica, al netto delle
incrostazioni successive. Paolo VI era cosciente dello slittamento semantico
del termine "reale" nelle lingue correnti e perciò ha dovuto
spiegare, appunto similmente a come stiamo facendo noi adesso, che un conto
sono le vere manifestazioni del Signore nella persona del sacerdote o
nelle azioni della Chiesa, altro è la sua presenza sostanziale
nell'Eucaristia.
[4] S. TOMMASO D'AQUINO, Summa theologiae,
III, q.76, a.5, ad.1
[5] F.MARTIGNANO, cit., pagg. 456-463
[6] Secondo l'Autore, avremmo noi ormai
abbandonato l'impostazione della L. Enciclica di S.S. Pio XII Mediator Dei,
la quale «considerava la liturgia nella prospettiva religiosa del culto»
(ibidem, pag. 463). Dunque per
l'A. il cristiano, mediante la Sacra Liturgia, non rende culto a Dio. Se ne
deriva che, sempre secondo Lui, nelle azioni liturgiche, neanche Gesù Cristo
rende culto al Padre mediante la Chiesa. E cosa sarebbe l'anamnesi tanto
sbandierata dall'A. se non (accanto ad altre cose) la contemplazione,
adorazione, lode di Dio da parte del cristiano per i mirabilia che Egli
ha operato, cioè l'unico vero atto di culto che un uomo può rendere al vero Dio
rivelatosi?
[7] ibidem, pag. 461: «è l'anamnesi che –
per così dire – fa passare la passione-morte di Cristo dall'essere una realtà
fisica all'essere una "realtà"
misterica. Pertanto il concetto di "presenza reale" di cui parla [la
Cost. Dogm.] Sacrosanctum Concilium 7 deve essere letto alla luce di
questa prospettiva misterico-anamnetica [...] il mistero di Cristo è una
"realtà" complessa non riducibile a categorie metafisiche, poiché la
realizzazione di questa salvezza diventa efficace nell'azione
rituale-anamnetica». Da notare l'uso delle virgolette quando si parla della
realtà sacramentale, che vuole palesemente comunicare l'idea che si sta
parlando di realtà in senso soltanto analogico.
[8] ibidem, pag. 465: «la concezione
figurale/tipologica dell'Eucaristia, propria della prima patristica». Se proprio vogliamo esaudire il desiderio
dell'A. di tornare ad una concezione "propria della prima
patristica", allora sarebbe meglio anche abbandonare i termini di sostanza,
processione, Trinità e ritornare alle prime forme del Credo.
Evidentemente l'A. non si rende conto che compito fondamentale della Teologia è
proprio quello di arrivare ad elaborare concettualizzazioni e terminologie che
esprimano più chiaramente il mistero e tengano così i fedeli lontani dagli
errori. E' questo ciò che vuole dire il Concilio Vaticano II quando parla di
una comprensione della Fede da parte della Chiesa che cresce nel tempo (cfr.
Cost. Dogm. Dei Verbum, n.8).
[9] ibidem, pag. 463: «...ci si è trovati
davanti ad un rito – fors'anche sfarzoso e solenne – che appariva come una
rappresentazione di qualcosa ormai irrimediabilmente lontana, come una
cerimonia solenne ma solo esteriore»
(citazione dell'A.). Si insinua forse che la Chiesa abbia per secoli perso la
retta Fede nella Sacra Liturgia, recuperandola soltanto grazie a quei teologi
che hanno (re)introdotto una prospettiva "misterica"? In ogni caso,
non consta il possesso da parte nostra di esami psicanalitici fatti sui
cristiani dei secoli precedenti.
[10] ibidem, pag. 449: «La devozione dunque
è sopravvissuta alle cause che l'hanno posta in essere» (citazione dell'A.).
[11] ibidem, pag. 464. Si ritiene del tutto
superato il concetto, centralissimo nella Teol. Sacramentaria cattolica, di ex
opere operato, perché esso porterebbe a non valorizzare la
"partecipazione attiva" (?) dei fedeli alla Sacra Liturgia. Meglio
tacere di altre fuorvianti approssimazioni.