Pochi giorni
fa, lo scorso 3 giugno, la liturgia ha ricordato la memoria di S. Carlo Lwanga
e compagni martiri, uccisi, perché cristiani, in modo atroce sotto l’empio re Mwanga
II (1884-1903) tra il 15 novembre 1885 ed il 27 gennaio 1887. L’esempio di
questi santi martiri oggi è quantomeno attuale giacché seppero opporsi,
preferendo il martirio, alla dissolutezza dei costumi del loro sovrano,
rimanendo ben saldi nei principi della Legge di Dio, perché – ricorda la
Scrittura – i giudizi del Signore sono desiderabilia super aurum et lapidem pretiosum multum,
et dulciora super mel et favum stillantem (Ps. 19, 11).
L’ESEMPIO
E LA PROTEZIONE DEI SANTI MARTIRI UGANDESI DI FRONTE ALL’OMOSESSUALISMO CHE SI
FA PERSECUZIONE
La
vicenda dei martiri dell’Uganda si svolge sotto il regno di Mwanga, un giovane
re che, pur avendo frequentato la scuola dei missionari (i cosiddetti “Padri
Bianchi” del Cardinal Lavigerie) non è riuscito ad imparare né a leggere né a scrivere
perché “testardo, indocile e incapace di concentrazione”. Certi suoi
atteggiamenti fanno dubitare che sia nel pieno possesso delle sue facoltà
mentali ed inoltre, da mercanti bianchi venuti dal nord, ha imparato quanto di
peggio questi abitualmente facevano: fumare hascisc, bere alcool in gran
quantità e abbandonarsi a
pratiche omosessuali. Per queste ultime, si costruisce un fornitissimo harem
costituito da paggi, servi e figli dei nobili della sua corte.
Sostenuto
all’inizio del suo regno dai cristiani (cattolici e anglicani) che fanno
insieme a lui fronte comune contro la tirannia del re musulmano Kalema, ben
presto re Mwanga vede nel cristianesimo il maggior pericolo per le tradizioni
tribali ed il maggior ostacolo
per le sue dissolutezze. A sobillarlo contro i cristiani sono soprattutto
gli stregoni e i feticisti, che vedono compromesso il loro ruolo ed il loro
potere e così, nel 1885, ha inizio un’accesa persecuzione, la cui prima
illustre vittima è il vescovo anglicano Hannington, ma che annovera almeno
altri 200 giovani uccisi per la fede.
Il
15 novembre 1885 Mwanga fa decapitare il maestro dei paggi e prefetto della
sala reale. La sua colpa maggiore? Essere cattolico e per di più catechista,
aver rimproverato al re l’uccisione del vescovo anglicano e aver difeso a più riprese i
giovani paggi dalle “avances” sessuali del re. Giuseppe Mkasa Balikuddembè
apparteneva al clan Kayozi ed ha appena 25 anni.
Viene
sostituito nel prestigioso incarico da Carlo Lwanga, del
clan Ngabi, sul quale si
concentrano subito le attenzioni morbose del re. Anche Lwanga, però, ha il “difetto”
di essere cattolico; per di più, in quel periodo burrascoso in cui i missionari
sono messi al bando, assume una funzione di “leader” e sostiene la fede dei
neoconvertiti.
Il
25 maggio 1886 viene condannato a morte insieme ad un gruppo di cristiani e
quattro catecumeni, che nella notte riesce a battezzare segretamente; il più
giovane, Kizito, del clan
Mmamba, ha appena 14 anni. Il 26 maggio vengono uccisi Andrea
Kaggwa, capo dei suonatori del re e suo familiare, che si era
dimostrato particolarmente generoso e coraggioso durante un’epidemia, e Dionigi
Ssebuggwawo.
Si
dispone il trasferimento degli altri da Munyonyo, dove c’era il palazzo reale
in cui erano stati condannati, a Namugongo, luogo delle esecuzioni capitali:
una “via crucis” di 27 miglia, percorsa in otto giorni, tra le pressioni dei
parenti che li spingono ad abiurare la fede e le violenze dei soldati. Qualcuno
viene ucciso lungo la strada: il 26 maggio viene trafitto da un colpo di lancia
Ponziano Ngondwe, del clan Nnyonyi Nnyange, paggio reale, che aveva ricevuto il
battesimo mentre già infuriava la persecuzione e per questo era stato
immediatamente arrestato; il paggio reale Atanasio Bazzekuketta, del clan Nkima,
viene martirizzato il 27 maggio. Alcune ore dopo cade trafitto dalle lance dei
soldati il servo del re Gonzaga Gonga del clan Mpologoma, seguito poco dopo da
Mattia Mulumba del clan Lugane, elevato al rango di “giudice”, cinquantenne, da
appena tre anni convertito al cattolicesimo. Il 31 maggio viene inchiodato ad
un albero con le lance dei soldati e quindi impiccato Noè Mawaggali, un altro
servo del re, del clan Ngabi.
Il
3 giugno, sulla collina di Namugongo, vengono arsi vivi 31 cristiani: oltre ad alcuni
anglicani, il gruppo di tredici cattolici che fa capo a Carlo Lwanga (ritratti
nella foto che accompagna questo post ndr),
il quale aveva promesso al giovanissimo Kizito: “Io ti prenderò per mano, se
dobbiamo morire per Gesù moriremo insieme, mano nella mano”. Il gruppo di
questi martiri è costituito inoltre da: Luca Baanabakintu,Gyaviira Musoke e Mbaga Tuzinde, tutti
del clan Mmamba; Giacomo Buuzabalyawo,
figlio del tessitore reale e appartenente al clan Ngeye; Ambrogio
Kibuuka, del clan Lugane e Anatolio Kiriggwajjo,
guardiano delle mandrie del re; dal cameriere del re, Mukasa
Kiriwawanvu e dal
guardiano delle mandrie del re, Adolofo Mukasa Ludico,
del clan Ba’Toro; dal sarto reale Mugagga Lubowa, del
clan Ngo, da Achilleo Kiwanuka (clan Lugave) e da Bruno
Sserunkuuma (clan
Ndiga).
Chi
assiste all’esecuzione è impressionato dal sentirli pregare fino alla fine,
senza un gemito. E’ un martirio che non spegne la fede in Uganda, anzi diventa
seme di tantissime conversioni, come profeticamente aveva intuito Bruno
Sserunkuuma poco prima di subire il martirio: “Una fonte che ha molte sorgenti
non si inaridirà mai; quando noi non ci saremo più altri verranno dopo di noi”.
La
serie dei martiri cattolici elevati alla gloria degli altari si chiude il 27
gennaio 1887 con l’uccisione del servitore del re, Giovanni
Maria Musei, che spontaneamente confessò la sua fede davanti al
primo ministro di re Mwanga e per questo motivo venne immediatamente
decapitato.
Carlo
Lwanga con i suoi 21 giovani compagni è stato canonizzato da Paolo VI nel 1964
e sul luogo del suo martirio oggi è stato edificato un magnifico santuario; a
poca distanza, un altro santuario protestante ricorda i cristiani dell’altra
confessione, martirizzati insieme a Carlo Lwanga. Da ricordare che insieme ai
cristiani furono martirizzati anche alcuni musulmani.
Gianpiero
Pettiti
Fonte: Il Timone
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