Seconde nozze, San
Teodoro Studita
e scisma moechianico
1. All’udienza
generale del 27 maggio 2009, nel tracciare la figura di San Teodoro
Studita, celebre monaco orientale dell’VIII-IX sec., papa Benedetto XVI
accennava al coinvolgimento del Santo in una complessa vicenda nuziale: «… Fu
ordinato sacerdote dal patriarca Tarasio, ma ruppe poi la comunione con lui per
la debolezza dimostrata nel caso del matrimonio adulterino dell’imperatore
Costantino VI».
Quel matrimonio
riveste per noi un’importanza significativa, che, nell’attuale dibattito sulle
seconde nozze, che abbiamo già avviato, su questo blog, nei giorni scorsi, non si può ignorare.
Ruolo centrale ed
emblematico nell’intera vicenda fu assunto dall’imperatrice Irene, personaggio
alquanto enigmatico, ambiziosa, amante del potere (τὸ φίλαρχον), e, sotto molti aspetti,
abbastanza sulfureo. Ella, nonostante si presentasse come la vera trionfatrice
dell’ortodossia cattolica al II Concilio di Nicea (787), tanto da essere
salutata, nella seduta conclusiva del Concilio, assieme al figlio, l’imperatore
Costantino VI, come “nuovi Costantino ed Elena”; ed avesse voluto
l’ascesa alla sede episcopale di Costantinopoli ed al trono di S. Andrea, da
laico, di S. Tarasio, che era stato il suo segretario, colto, esperto, abile,
prudente e sensibile, ebbene, nonostante tutto ciò fu proprio grazie ad Irene
se venne a crearsi un vero e proprio scisma all’interno della Chiesa di Costantinopoli
per oltre un quindicennio.
2. L’imperatrice
Irene, per favorire un’alleanza politica con il regno dei Franchi di Carlo Magno
ed una piena concordia con la Chiesa di Roma, retta da papa Adriano I, fece
fidanzare, dapprima, Costantino VI con la figlia maggiore del re franco,
Rotrude. La trattativa durò circa sei anni, ma, forse per l’opposizione di
Carlo o per quella dell’imperatrice resasi conto che l’ascesa al trono di una
barbara – tale era considerata dai bizantini la famiglia carolingia! – non era
gradita al suo popolo, il fidanzamento fu rotto, sebbene con molto rammarico
dell’imperatore Costantino.
Questi fu costretto,
quindi, controvoglia, a sposare Maria di Paflagonia, detta anche Maria
d’Armenia o d’Amnia, nipote di S. Filarete l’Elemosiniere.
Da questo matrimonio,
celebrato nel 788, nacquero due figlie, Eufrosina ed Irene.
Nel frattempo,
l’imperatore s’invaghiva della cortigiana Teodota o Teodora, dama di corte
della madre Irene. Stando alla ricostruzione dello storico S. Teofane il
Confessore, fu proprio l’imperatrice Irene, con un’astuzia quasi diabolica, a
spingere il figlio a disamorarsi dell’avvenente consorte, calunniandola e
facendogli sospettare persino un avvelenamento ordito dalla moglie. Fu così che
Costantino VI, che già frequentava le stanze di Teodota, decise di ripudiare,
nel 795, Maria, facendola rinchiudere con le figlie in un monastero. Sebbene
non possa dimostrarsi storicamente che fosse stata Irene a spingere Teodota a
sedurre il figlio, tuttavia la natura sinistra della personalità
dell’imperatrice lo rende plausibile, stante la volontà della donna di
esercitare un pieno controllo del potere e della vita del figlio.
Sta di fatto, in ogni
caso, che, allontanata Maria, l’imperatore era fermamente intenzionato a
sposare, in seconde nozze, Teodota. Ciò poneva alla Chiesa diversi problemi: la
legittimità del ripudio, il diritto alle seconde nozze e l’atteggiamento
dinanzi alla possibile bigamia. Il patriarca Tarasio scelse all’inizio di
vietare decisamente le nozze imperiali, supportato dal partito monastico,
iconodulo, che non aveva gradito la mitezza dei canoni niceni verso i vescovi
iconoclasti e cercava, in tale circostanza, un’occasione per imporre con rigore
la legge canonica. L’imperatore, però, irruente come i suoi avi ma munito di
minor acume politico, sorvolò sul divieto e fece celebrare, quello stesso anno,
in pompa magna, il matrimonio tra lui e Teodata dal sacerdote Giuseppe, economo
del patriarcato (di Santa Sofia) ed igumeno del monastero di Kathara,
nell’isola di Itaca, arrivando a fregiare la seconda moglie del titolo di
“augusta”. L’opinione pubblica ne fu indignata.
3. Nel frangente ora
descritto emersero le voci profetiche più veementi di opposizione alle seconde
nozze imperiali rappresentate dai santi monaci Teodoro Studita e Platone, igumeno (abate) del Saccudion, in Bitinia, e zio di Teodoro, i
quali peraltro erano pure imparentati con Teodota.
Era iniziata la Disputa
moechianica, da μοιχεία, che in greco significa adulterio.
Per Teodoro,
Costantino VI aveva dato luogo ad un «miserandum spectaculum». Narra il Baronio che lo
Studita rimproverò l’imperatore «in ejus præsentia, et in
conspectu omnium excomunicationis fulminavit Sententiam» per evitare che l’esempio
imperiale fosse emulato dal popolo, giacché, come insegnò in seguito anche il
Concilio di Trento, nella sua XIII sessione, nell’esordio del decr. De Reform., «Est
diligentis, et pii Sanctinque Pastoris Officium morbis omnium lenia primum
adhibere fomenta; post ubi morbis gravitas ita postulat, ad acriora, et
graviora remedia descendere, sin autem ne ea quidem proficient illis
submovendis, caeteras saltem oves a contagionis periculo liberare».
Il patriarca Tarasio,
tuttavia, non assunse alcun provvedimento contro il sacerdote Giuseppe, tanto
che da far ipotizzare che questi avesse agito su suo mandato (cosa, per la verità,
non sostenibile perché il patriarca lo punì diversi anni dopo la caduta
dell’imperatore Costantino VI), né scomunicò il basileus adultero e la moglie. La Vita
di papa Leone III sottolinea «... cumque
Tarasius Constantinopoli adulterum non excommunicaret, ipse piorum consortio
habitus est indignus: qui vero cum Theodoro Studita adulterum imperatorem
redarguerant, in exsilium ablegati fuerunt».
Il prelato, in
realtà, aveva agito spinto dall’oikonomia, vale a dire, in fondo, la Realpolitik ecclesiastica
bizantina, che si basava sulla convinzione che si potesse eludere la lettera della
legge per il bene ultimo della Chiesa (l’imperatore minacciava di tornare
all’iconoclastia!) e per la salvezza del singolo. Questa si contrapponeva all’acribia,
cioè all’applicazione rigorosa dei sacri canoni, ed alla theologhia, ovvero all’integrità della
fede, sostenute da Teodoro, che, nella sua lettera a Euprepiano, in effetti,
scriveva: «O l’imperatore è Dio, perché soltanto la divinità non è soggetta
alla legge, o vi è anarchia e rivoluzione. Infatti, come vi può essere pace se
non vi è una legge valida per tutti, se l’imperatore dunque può soddisfare i
propri desideri – ad esempio commettere un adulterio o accettare eresie –
mentre è proibito ai suoi sudditi di comunicare con l’adultero o con l’eretico?».
Più tardi, in una
missiva al monaco Simeone, nell’anno 808, il Santo monaco così si esprimeva: «… L’imperatore
deve ritenersi adultero e perciò va condannato e gravemente colpevole deve
ritenersi il prete Giuseppe per aver benedetti gli adulteri e per averli
ammessi all’Eucarestia; ed è da condannare altresì il patriarca Tarasio, che
non ha scomunicato Costantino, e con lui va rotta la comunione perché
tollerante con l’imperatore. …». A questa rottura alludeva il papa
Benedetto XVI.
L’imperatore, a causa
dell’opposizione suscitata dalle sue nozze, cercò dapprima, con lusinghe, di
rabbonire il partito dei monaci, che si ritrovavano nella posizione di Teodoro
e Platone. Non riuscendovi perché questi incarnavano lo spirito che fu proprio,
in seguito, di Ildebrando di Soana, futuro Gregorio VII, alieno a qualsiasi
forma di compromesso, scomunicò Teodoro e Platone, li fece arrestare, facendone
dei martiri ed, in seguito, li bandì. I due monaci – ed il loro partito –
allora avviarono una lotta senza quartiere contro il conformismo ecclesiastico
incarnato, per loro, da Tarasio e contro la prevaricazione dello Stato nei
confronti non solo del dogma, ma anche della legislazione ecclesiastica. La vicenda
matrimoniale divenne, come accadde in altre e numerose circostanze, una
questione di libertà della Chiesa.
La simpatia del
popolo verso il partito dei monaci si accrebbe e ciò alienò ancor più la figura
dell’imperatore, che fu additato come “nemico di Cristo”, venendosi a trovare
praticamente isolato.
Lo stesso papa Leone
III, che era succeduto ad Adriano I, informato tempo dopo della vicenda, elogiò
il partito degli Studiti per la fermezza e la prudenza dimostrate.
Ne approfittò Irene,
la quale riuscì laddove anche Agrippina Minore aveva fallito con Nerone, perché
da questi battuta sul tempo: il 15 agosto 797, giorno dell’Assunzione della
Vergine, mentre il popolo venerava la Madre di Dio salita al cielo, la madre
dell’imperatore scendeva agli inferi ordinando la pena convenzionale
dell’accecamento del figlio nella sala di porpora, detta appunto Porphýra,
del Magnum Palatium, quella stessa
dov’era nato ventisette anni prima, toccando così il punto più basso della
depravazione morale nella storia politica bizantina. Di lì a poco il giovane
imperatore sarebbe morto per le ferite ricevute. Nessuno sorse a vendicare il
sovrano (sebbene, secondo alcuni storici, Costantino VI sarebbe sopravvissuto
ad Irene e sarebbe stato rinchiuso in un lussuoso palazzo con la moglie, da cui
avrebbe avuto un secondo figlio). Sua moglie, Teodota, fu condannata per
adulterio. Suo figlio, Leone, fu diseredato. Platone e Teodoro furono
richiamati dall’esilio. Tarasio fu costretto a scomunicare il prete Giuseppe e
ad allontanarlo.
4. Salito al trono,
grazie ad una congiura, nell’802, l’imperatore bizantino Niceforo I il Logoteta
la politica imperiale mutò. Alla morte di Tarasio, il nuovo sovrano insediò sul
soglio patriarcale S. Niceforo di Costantinopoli (12 aprile 806), sostenitore
dell’oikonomia, colto, autore di
molte opere teologiche anche iconodule, proveniente dal laicato, già
funzionario nelle segreteria imperiale e collaboratore di Tarasio. Sebbene
fosse poi canonizzato dalla Chiesa, la sua scelta suscitò la reazione di coloro
che appoggiavano Teodoro.
Su indicazione
imperiale, il nuovo Patriarca convocò un sinodo, nel gennaio 809, per
riammettere il prete Giuseppe nelle sue funzioni sacerdotali e reintegrarlo nel
suo ruolo, riabilitare Teodota e far riconoscere la legittimità delle seconde
nozze di Costantino VI. Chiaro era l’intento politico perseguito
dall’imperatore Niceforo: far dichiarare quale usurpatrice l’imperatrice Irene,
che aveva rovesciata; farsi riconoscere la legittimità del titolo imperiale
acquisito; imporsi come colui che depone i tiranni ed, infine, porre
l’imperatore quale legibus solutus.
Sottovalutò, però,
l’opposizione studita (di Teodoro e dei monaci a lui vicini), che non riconobbe
quei canoni conciliari e ruppe con Niceforo come aveva fatto con Tarasio.
L’imperatore, perciò,
iniziò a perseguitarli e bandì nuovamente Teodoro.
Anni dopo, quando
salì al trono imperiale Michele I Rangabe, acclamato nell’ippodromo quale basileus ed incoronato poco dopo da
Niceforo (2 ottobre 811), il nuovo imperatore, spiacendo al Patriarca, richiamò
dall’esilio i monaci studiti e fece di Teodoro il suo consigliere politico;
annullò gli atti del concilio dell’809 e fece nuovamente ricondannare il prete
Giuseppe, in un apposito nuovo sinodo. Queste decisioni avvennero proprio
quando l’impero bizantino si conciliava con Carlo Magno, al quale, nell’812,
l’imperatore Michele riconobbe il titolo imperiale, ma non la sovranità sui
Romani in quanto tali. Era, tuttavia, implicito, giacché Carlo possedeva Roma.
In ogni caso, il Rangabe si era riconciliato anche col papato. Fu una
riconciliazione di breve durata. Ma questa è un’altra storia.
Lo scisma moechianico
trovava così la sua definitiva composizione, venendo sancito, perciò, il
definitivo trionfo di S. Teodoro Studita, impostosi sia come difensore
dell’ortodossia contro l’eresia iconoclasta, ma anche della santità del
matrimonio e della morale familiare.
Augustinus
Hipponensis
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