martedì 17 giugno 2014

Seconde nozze, San Teodoro Studita e scisma moechianico


Seconde nozze, San Teodoro Studita
e scisma moechianico

1. All’udienza generale del 27 maggio 2009, nel tracciare la figura di San Teodoro Studita, celebre monaco orientale dell’VIII-IX sec., papa Benedetto XVI accennava al coinvolgimento del Santo in una complessa vicenda nuziale: «… Fu ordinato sacerdote dal patriarca Tarasio, ma ruppe poi la comunione con lui per la debolezza dimostrata nel caso del matrimonio adulterino dell’imperatore Costantino VI».
Quel matrimonio riveste per noi un’importanza significativa, che, nell’attuale dibattito sulle seconde nozze, che abbiamo già avviato, su questo blog, nei giorni scorsi, non si può ignorare. 
Ruolo centrale ed emblematico nell’intera vicenda fu assunto dall’imperatrice Irene, personaggio alquanto enigmatico, ambiziosa, amante del potere (τ φίλαρχον), e, sotto molti aspetti, abbastanza sulfureo. Ella, nonostante si presentasse come la vera trionfatrice dell’ortodossia cattolica al II Concilio di Nicea (787), tanto da essere salutata, nella seduta conclusiva del Concilio, assieme al figlio, l’imperatore Costantino VI, come “nuovi Costantino ed Elena”; ed avesse voluto l’ascesa alla sede episcopale di Costantinopoli ed al trono di S. Andrea, da laico, di S. Tarasio, che era stato il suo segretario, colto, esperto, abile, prudente e sensibile, ebbene, nonostante tutto ciò fu proprio grazie ad Irene se venne a crearsi un vero e proprio scisma all’interno della Chiesa di Costantinopoli per oltre un quindicennio.

2. L’imperatrice Irene, per favorire un’alleanza politica con il regno dei Franchi di Carlo Magno ed una piena concordia con la Chiesa di Roma, retta da papa Adriano I, fece fidanzare, dapprima, Costantino VI con la figlia maggiore del re franco, Rotrude. La trattativa durò circa sei anni, ma, forse per l’opposizione di Carlo o per quella dell’imperatrice resasi conto che l’ascesa al trono di una barbara – tale era considerata dai bizantini la famiglia carolingia! – non era gradita al suo popolo, il fidanzamento fu rotto, sebbene con molto rammarico dell’imperatore Costantino.
Questi fu costretto, quindi, controvoglia, a sposare Maria di Paflagonia, detta anche Maria d’Armenia o d’Amnia, nipote di S. Filarete l’Elemosiniere.
Da questo matrimonio, celebrato nel 788, nacquero due figlie, Eufrosina ed Irene.
Nel frattempo, l’imperatore s’invaghiva della cortigiana Teodota o Teodora, dama di corte della madre Irene. Stando alla ricostruzione dello storico S. Teofane il Confessore, fu proprio l’imperatrice Irene, con un’astuzia quasi diabolica, a spingere il figlio a disamorarsi dell’avvenente consorte, calunniandola e facendogli sospettare persino un avvelenamento ordito dalla moglie. Fu così che Costantino VI, che già frequentava le stanze di Teodota, decise di ripudiare, nel 795, Maria, facendola rinchiudere con le figlie in un monastero. Sebbene non possa dimostrarsi storicamente che fosse stata Irene a spingere Teodota a sedurre il figlio, tuttavia la natura sinistra della personalità dell’imperatrice lo rende plausibile, stante la volontà della donna di esercitare un pieno controllo del potere e della vita del figlio.
Sta di fatto, in ogni caso, che, allontanata Maria, l’imperatore era fermamente intenzionato a sposare, in seconde nozze, Teodota. Ciò poneva alla Chiesa diversi problemi: la legittimità del ripudio, il diritto alle seconde nozze e l’atteggiamento dinanzi alla possibile bigamia. Il patriarca Tarasio scelse all’inizio di vietare decisamente le nozze imperiali, supportato dal partito monastico, iconodulo, che non aveva gradito la mitezza dei canoni niceni verso i vescovi iconoclasti e cercava, in tale circostanza, un’occasione per imporre con rigore la legge canonica. L’imperatore, però, irruente come i suoi avi ma munito di minor acume politico, sorvolò sul divieto e fece celebrare, quello stesso anno, in pompa magna, il matrimonio tra lui e Teodata dal sacerdote Giuseppe, economo del patriarcato (di Santa Sofia) ed igumeno del monastero di Kathara, nell’isola di Itaca, arrivando a fregiare la seconda moglie del titolo di “augusta”. L’opinione pubblica ne fu indignata.

3. Nel frangente ora descritto emersero le voci profetiche più veementi di opposizione alle seconde nozze imperiali rappresentate dai santi monaci Teodoro Studita e Platone, igumeno (abate) del Saccudion, in Bitinia, e zio di Teodoro, i quali peraltro erano pure imparentati con Teodota.
Era iniziata la Disputa moechianica, da μοιχεία, che in greco significa adulterio.
Per Teodoro, Costantino VI aveva dato luogo ad un «miserandum spectaculum». Narra il Baronio che lo Studita rimproverò l’imperatore «in ejus præsentia, et in conspectu omnium excomunicationis fulminavit Sententiam» per evitare che l’esempio imperiale fosse emulato dal popolo, giacché, come insegnò in seguito anche il Concilio di Trento, nella sua XIII sessione, nell’esordio del decr. De Reform., «Est diligentis, et pii Sanctinque Pastoris Officium morbis omnium lenia primum adhibere fomenta; post ubi morbis gravitas ita postulat, ad acriora, et graviora remedia descendere, sin autem ne ea quidem proficient illis submovendis, caeteras saltem oves a contagionis periculo liberare».
Il patriarca Tarasio, tuttavia, non assunse alcun provvedimento contro il sacerdote Giuseppe, tanto che da far ipotizzare che questi avesse agito su suo mandato (cosa, per la verità, non sostenibile perché il patriarca lo punì diversi anni dopo la caduta dell’imperatore Costantino VI), né scomunicò il basileus adultero e la moglie. La Vita di papa Leone III sottolinea «... cumque Tarasius Constantinopoli adulterum non excommunicaret, ipse piorum consortio habitus est indignus: qui vero cum Theodoro Studita adulterum imperatorem redarguerant, in exsilium ablegati fuerunt».
Il prelato, in realtà, aveva agito spinto dall’oikonomia, vale a dire, in fondo, la Realpolitik ecclesiastica bizantina, che si basava sulla convinzione che si potesse eludere la lettera della legge per il bene ultimo della Chiesa (l’imperatore minacciava di tornare all’iconoclastia!) e per la salvezza del singolo. Questa si contrapponeva all’acribia, cioè all’applicazione rigorosa dei sacri canoni, ed alla theologhia, ovvero all’integrità della fede, sostenute da Teodoro, che, nella sua lettera a Euprepiano, in effetti, scriveva: «O l’imperatore è Dio, perché soltanto la divinità non è soggetta alla legge, o vi è anarchia e rivoluzione. Infatti, come vi può essere pace se non vi è una legge valida per tutti, se l’imperatore dunque può soddisfare i propri desideri – ad esempio commettere un adulterio o accettare eresie – mentre è proibito ai suoi sudditi di comunicare con l’adultero o con l’eretico?».
Più tardi, in una missiva al monaco Simeone, nell’anno 808, il Santo monaco così si esprimeva: «… L’imperatore deve ritenersi adultero e perciò va condannato e gravemente colpevole deve ritenersi il prete Giuseppe per aver benedetti gli adulteri e per averli ammessi all’Eucarestia; ed è da condannare altresì il patriarca Tarasio, che non ha scomunicato Costantino, e con lui va rotta la comunione perché tollerante con l’imperatore. …». A questa rottura alludeva il papa Benedetto XVI.
L’imperatore, a causa dell’opposizione suscitata dalle sue nozze, cercò dapprima, con lusinghe, di rabbonire il partito dei monaci, che si ritrovavano nella posizione di Teodoro e Platone. Non riuscendovi perché questi incarnavano lo spirito che fu proprio, in seguito, di Ildebrando di Soana, futuro Gregorio VII, alieno a qualsiasi forma di compromesso, scomunicò Teodoro e Platone, li fece arrestare, facendone dei martiri ed, in seguito, li bandì. I due monaci – ed il loro partito – allora avviarono una lotta senza quartiere contro il conformismo ecclesiastico incarnato, per loro, da Tarasio e contro la prevaricazione dello Stato nei confronti non solo del dogma, ma anche della legislazione ecclesiastica. La vicenda matrimoniale divenne, come accadde in altre e numerose circostanze, una questione di libertà della Chiesa.
La simpatia del popolo verso il partito dei monaci si accrebbe e ciò alienò ancor più la figura dell’imperatore, che fu additato come “nemico di Cristo”, venendosi a trovare praticamente isolato.
Lo stesso papa Leone III, che era succeduto ad Adriano I, informato tempo dopo della vicenda, elogiò il partito degli Studiti per la fermezza e la prudenza dimostrate. 
Ne approfittò Irene, la quale riuscì laddove anche Agrippina Minore aveva fallito con Nerone, perché da questi battuta sul tempo: il 15 agosto 797, giorno dell’Assunzione della Vergine, mentre il popolo venerava la Madre di Dio salita al cielo, la madre dell’imperatore scendeva agli inferi ordinando la pena convenzionale dell’accecamento del figlio nella sala di porpora, detta appunto Porphýra, del Magnum Palatium, quella stessa dov’era nato ventisette anni prima, toccando così il punto più basso della depravazione morale nella storia politica bizantina. Di lì a poco il giovane imperatore sarebbe morto per le ferite ricevute. Nessuno sorse a vendicare il sovrano (sebbene, secondo alcuni storici, Costantino VI sarebbe sopravvissuto ad Irene e sarebbe stato rinchiuso in un lussuoso palazzo con la moglie, da cui avrebbe avuto un secondo figlio). Sua moglie, Teodota, fu condannata per adulterio. Suo figlio, Leone, fu diseredato. Platone e Teodoro furono richiamati dall’esilio. Tarasio fu costretto a scomunicare il prete Giuseppe e ad allontanarlo.

4. Salito al trono, grazie ad una congiura, nell’802, l’imperatore bizantino Niceforo I il Logoteta la politica imperiale mutò. Alla morte di Tarasio, il nuovo sovrano insediò sul soglio patriarcale S. Niceforo di Costantinopoli (12 aprile 806), sostenitore dell’oikonomia, colto, autore di molte opere teologiche anche iconodule, proveniente dal laicato, già funzionario nelle segreteria imperiale e collaboratore di Tarasio. Sebbene fosse poi canonizzato dalla Chiesa, la sua scelta suscitò la reazione di coloro che appoggiavano Teodoro.
Su indicazione imperiale, il nuovo Patriarca convocò un sinodo, nel gennaio 809, per riammettere il prete Giuseppe nelle sue funzioni sacerdotali e reintegrarlo nel suo ruolo, riabilitare Teodota e far riconoscere la legittimità delle seconde nozze di Costantino VI. Chiaro era l’intento politico perseguito dall’imperatore Niceforo: far dichiarare quale usurpatrice l’imperatrice Irene, che aveva rovesciata; farsi riconoscere la legittimità del titolo imperiale acquisito; imporsi come colui che depone i tiranni ed, infine, porre l’imperatore quale legibus solutus.
Sottovalutò, però, l’opposizione studita (di Teodoro e dei monaci a lui vicini), che non riconobbe quei canoni conciliari e ruppe con Niceforo come aveva fatto con Tarasio.
L’imperatore, perciò, iniziò a perseguitarli e bandì nuovamente Teodoro. 
Anni dopo, quando salì al trono imperiale Michele I Rangabe, acclamato nell’ippodromo quale basileus ed incoronato poco dopo da Niceforo (2 ottobre 811), il nuovo imperatore, spiacendo al Patriarca, richiamò dall’esilio i monaci studiti e fece di Teodoro il suo consigliere politico; annullò gli atti del concilio dell’809 e fece nuovamente ricondannare il prete Giuseppe, in un apposito nuovo sinodo. Queste decisioni avvennero proprio quando l’impero bizantino si conciliava con Carlo Magno, al quale, nell’812, l’imperatore Michele riconobbe il titolo imperiale, ma non la sovranità sui Romani in quanto tali. Era, tuttavia, implicito, giacché Carlo possedeva Roma. In ogni caso, il Rangabe si era riconciliato anche col papato. Fu una riconciliazione di breve durata. Ma questa è un’altra storia.
Lo scisma moechianico trovava così la sua definitiva composizione, venendo sancito, perciò, il definitivo trionfo di S. Teodoro Studita, impostosi sia come difensore dell’ortodossia contro l’eresia iconoclasta, ma anche della santità del matrimonio e della morale familiare.

Augustinus Hipponensis


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