mercoledì 11 giugno 2014

Sulla comunione ai risposati la disputa è sempre infuocata

Sulla comunione ai risposati la disputa è sempre infuocata


Contro le tesi di Kasper interviene di nuovo il cardinale Brandmüller. E come lui il vicario generale di Coira e sette teologi e canonisti di quattro paesi. Ma nella facoltà teologica di Ratisbona c'è chi teorizza l'ammissibilità di un secondo matrimonio
di Sandro Magister
ROMA. 11 giugno 2014 – A papa Francesco non piace che la discussione in vista del prossimo sinodo si esaurisca sulla comunione ai divorziati risposati. L'ha detto ai giornalisti durante il viaggio di ritorno a Roma dalla Terra Santa. La sua decisa preferenza è per una riflessione "olistica", globale, sulla famiglia.
Ma a concentrare l'attenzione di tutti su quel punto controverso è stata proprio la relazione con cui il cardinale Walter Kasper ha introdotto il concistoro dello scorso febbraio. Una relazione che Francesco promosse subito a pieni voti, dicendo ai cardinali di averla trovata teologicamente "profonda", "serena", pensata "in ginocchio", e che successivamente il gesuita argentino Juan Carlos Scannone, maestro di teologia del giovane Jorge Mario Bergoglio, ha ancor più magnificato sull'ultimo numero de "La Civiltà Cattolica".
Sta di fatto che, a partire da quel concistoro, la controversia sulla comunione ai risposati ha investito la Chiesa fino ai suoi più alti gradi.
Lo stesso cardinale Kasper è intervenuto nuovamente a favore della comunione ai risposati, con un'ampia intervista a "The Commonweal".
Mentre contro le tesi di Kasper si sono schierati pubblicamente, tra gli altri, i cardinali Gerhard Ludwig Müller, Carlo Caffarra, Velasio De Paolis, Walter Brandmüller.
Quest'ultimo, nei giorni scorsi, ha dedicato al tema un suo secondo intervento, pubblicato in lingua italiana in un sito web di riflessione teologica:
> Connubio tra potere e diritto

Da storico della Chiesa qual è – e da presidente per più di vent'anni del Pontificio Comitato di Scienze Storiche – Brandmüller ha riproposto in questo saggio lo scontro che vide contrapposti nel secolo IX papa Niccolò I e Lotario II re di Lotaringia.
Lotario, inizialmente unito, ma non sposato, con una aristocratica di nome Gualdrada, poi unitosi in matrimonio con la nobile Teutberga per interessi politici e poi ancora separatosi da questa e sposatosi con la precedente compagna, volle a tutti i costi che il papa riconoscesse la validità del suo secondo matrimonio.
Ma nonostante Lotario godesse dell'appoggio dei vescovi della sua regione e del sostegno dell'imperatore Ludovico, che arrivò ad invadere Roma col suo esercito, papa Niccolò I – oggi venerato come santo – non si piegò alle sue pretese e non riconobbe mai come legittimo il suo secondo matrimonio.
Il cardinale Brandmüller ricostruisce in modo avvincente la vicenda e l'analizza sotto il profilo storico, giuridico e teologico.
Tra l'altro, egli fa notare come l'esortazione di Niccolò a Lotario perché riaccogliesse l'unica sua vera moglie Teutberga non solo in termini formali ma tributando a lei amore sincero smonta "il cliché che definisce la comprensione del matrimonio d'amore basato su un legame spirituale solo come una conquista dell'età moderna".
Più sotto, si riporta del saggio di Brandmüller la parte finale, quella in cui egli trae da quella vicenda storica una lezione per la Chiesa d'oggi.
Ma dopo il testo di Brandmüller, sempre in questa pagina, si riporta anche la sezione conclusiva di un altro intervento uscito nei giorni scorsi contro la comunione ai risposati, scritto da monsignor Martin Grichting, vicario generale della diocesi di Coira, in Svizzera.
La nota di Grichting è uscita in tedesco su "Die Tagespost" del 5 giugno:

Ed è qui tradotta integralmente in italiano:

La parte centrale dell'intervento di Grichting svolge una riflessione che è in forte continuità con quanto scritto da Brandmüller.
Insiste infatti sul rischio che in alcuni paesi la Chiesa ceda sulle questioni del matrimonio alle pressioni della cultura e dei poteri dominanti, nell'illusione di goderne l'appoggio. E reca l'esempio della Chiesa francese che all'inizio del Novecento stava per asservirsi all'autorità politica pur di mantenere la proprietà dei propri beni. Fu Pio X a trattenere la Chiesa francese da questo cedimento, "anche a costo della povertà".
Ma l'intervento del vicario generale della diocesi di Coira è interessante anche per altre considerazioni, nelle parti iniziale e finale del suo scritto.
Come si può vedere dal brano qui riprodotto, subito sotto il testo del cardinale Brandmüller.
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IMPARARE DALLA STORIA

di Walter Brandmüller

Se la storia, e anche la storia della Chiesa, non si accontenta di apparire come una raccolta di episodi più o meno edificanti – e di tanto in tanto anche divertenti o scandalosi – ma per i suoi risultati avanza anche la pretesa di una rilevanza teologica, allora occorre interrogarsi sulle conclusioni teologiche che emergono dalla disputa sul matrimonio di Lotario II. […] Considerando la posizione sociale delle persone coinvolte nel caso preso in esame e le dimensioni del conflitto, che abbracciava sia la politica sia la Chiesa, non è esagerato considerare la disputa sul matrimonio del re franco una pietra miliare nel lungo processo di affermazione delle norme matrimoniali cristiane.
Nell’esaminare le diverse tappe di tale processo, notiamo che sotto l’aspetto fondamentale, quello teologico, non vi erano dubbi. Ma erano grandi le incertezze nell’applicazione dell’insegnamento cristiano sul matrimonio a casi concreti, che continuavano a presentarsi in una situazione sociale caratterizzata dalla tradizione pagana.
Di fatto, a questo proposito troviamo vescovi, sinodi, che hanno creduto di poter sciogliere matrimoni e consentirne di nuovi, proprio come è accaduto nel caso appena descritto. Quest’osservazione potrebbe portarci a ricordare una formula, forgiata dalla canonistica illuminista: "Olim non erat sic", un tempo non era così.
Applicato al presente: "Un tempo esisteva il permesso di risposarsi dopo il divorzio". C’è quindi un motivo che impedisce, nella situazione attuale e dinanzi alle difficoltà pastorali del presente, di ritornare ad una posizione già presa in passato ed ammettere una prassi “più umana” – come si direbbe oggi – di divorzio e nuovo matrimonio?
Si pone così una domanda di grande portata teologica. La sua importanza emerge quando ricordiamo che già nell’ambito della teologia ecumenica si è argomentato in modo analogo. Non si potrebbe – è questa la domanda in quell’ambito – convincere più facilmente l’ortodossia alla riunificazione se si ritornasse allo stato dei rapporti tra Oriente e Occidente prima delle scomuniche del 1054?
Già intorno alla metà del XVII secolo, inoltre, è chiamato in causa – e più precisamente dai teologi della cosiddetta ortodossia luterana e della scuola di Helmstädt, più vicina a Melantone – il modello di riunificazione del cosiddetto "consensus quinquesaecularis": del ritorno, cioè, a quella situazione della dottrina della fede e della Chiesa che vigeva nei primi cinque secoli e riguardo alla quale oggi non esistono controversie.
Idee davvero affascinanti! Ma offrono veramente una chiave per risolvere il problema? Solo in apparenza. […] La tradizione nel senso tecnico-teologico del termine non è una fiera delle antichità dove poter scegliere e acquistare determinati oggetti ambìti.
La "traditio-paradosis" è piuttosto un processo dinamico di sviluppo organico conforme – mi sia consentito il paragone – al codice genetico insito nella Chiesa. Si tratta però di un processo che non trova corrispettivi adeguati nella storia profana delle forme sociali umane, negli Stati, nelle dinastie e così via. Proprio come la Chiesa stessa è un’entità "sui generis" priva di analogie, anche le sue scelte di vita non sono paragonabili, "sic et simpliciter", con quelle di comunità puramente umane e mondane.
Piuttosto, qui sono decisivi i dati della rivelazione divina. Da questa risulta l’indefettibilità della Chiesa, ovvero il fatto che la Chiesa di Cristo, per quanto riguarda il suo patrimonio di fede, i suoi sacramenti e la sua struttura gerarchica fondata sull’istituzione divina, non può avere uno sviluppo che mette in pericolo la sua stessa identità.
Ogniqualvolta si prende sul serio nella fede l’azione dello Spirito Santo, che abita nella Chiesa e che, secondo la promessa del Divin Maestro, la guiderà alla verità tutta intera, appare ovvio che il principio "olim non erat sic" non appartiene alla natura della Chiesa e pertanto non può essere determinante per lei.
Ma se i sinodi sopra menzionati, allora, effettivamente autorizzarono Lotario II a risposarsi, non era anche quella una decisione guidata dallo Spirito Santo? Non era forse espressione della "traditio"?
A ciò risponde la domanda sulla forma concreta e la competenza di quei sinodi. […] Nel caso esaminato, quei sinodi non erano affatto liberi, e data la pressione subita da parte del re, indubbiamente dovevano essere considerati di parte, se non addirittura corrotti. La loro dipendenza da Lotario II portò ad una accondiscendenza tale ai desideri del re, da spingere i vescovi perfino a violare il diritto ed a corrompere dei legati pontifici.
Tenuto conto delle circostanze e di altre irregolarità, era evidente che quei sinodi avevano fatto tutto tranne che amministrare la giustizia. Proprio da questo genere di esperienza è derivata la norma del diritto canonico che toglie ai tribunali ecclesiastici territoriali la competenza per le cause riguardanti i detentori del massimo potere dello Stato e indica quale unico foro competente il tribunale del papa (Codice di diritto canonico del 1983, canone 1405). […]
Non si può quindi pensare neanche lontanamente che simili assemblee possano essere un luogo dove cogliere la tradizione autentica e vincolante della Chiesa.
Certo, non solo i concili generali ma anche i sinodi particolari possono formulare la "traditio" in modo vincolante. Tuttavia, possono farlo solo se corrispondono essi stessi alle esigenze sia formali sia contenutistiche della tradizione autentica. Questo, però – è bene ribadirlo – non era il caso per quanto concerne le assemblee di vescovi qui esaminate.
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Nel tirare le fila del ragionamento appena esposto, in conclusione, consentitemi di rispondere a una possibile obiezione che taluno potrà sollevare e che corrisponde allo schema interpretativo di una “storia dei vincitori”, più vicino al pensiero storico marxista. […] Questo modo di considerare gli eventi della storia della Chiesa, ed i risultati degli stessi, consentirebbe di ritenere questi ultimi quali meri prodotti casuali della relatività loro propria. In altre parole, si potrebbe ribaltarli in qualsiasi momento ed imboccare altre vie.
Ciò però non è possibile se alla base si pone la comprensione autenticamente cattolica della Chiesa, così come espressa da ultimo nella costituzione "Lumen gentium" del Concilio Vaticano II.
A tal fine è necessario – come già osservato – che la Chiesa possa essere certa dell’aiuto costante dello Spirito Santo, che è il suo principio vitale più intimo, il quale garantisce ed opera la sua identità nonostante tutti i cambiamenti storici.
Così, dunque, lo sviluppo effettivo del dogma, del sacramento e della gerarchia del diritto divino non sono prodotti casuali della storia, ma sono guidati e resi possibili dallo Spirito di Dio. Per questo tale sviluppo è irreversibile e aperto solo in direzione di una comprensione più completa. La tradizione in tal senso ha pertanto carattere normativo.
Nel caso esaminato, ciò significa che dal dogma dell’unità, della sacramentalità e dell’indissolubilità, radicati nel matrimonio tra due battezzati, non c’è una strada che porti indietro, se non quella – inevitabile e per questo da rigettare – del ritenerli un errore dal quale emendarsi.
Il modo di agire di Niccolò I nella disputa sul nuovo matrimonio di Lotario II, tanto consapevole dei principi quanto inflessibile ed impavido, costituisce una tappa importante sul cammino per l’affermazione dell’insegnamento sul matrimonio nell’ambito culturale germanico.
Il fatto che il papa, come anche suoi diversi successori in occasioni analoghe, si sia dimostrato avvocato della dignità della persona e della libertà dei deboli – per la maggior parte erano donne – ha fatto meritare a Niccolò I il rispetto della storiografia, la corona della santità ed il titolo di "Magnus".
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 SULLE CONDIZIONI DELLA COMUNIONE SACRAMENTALE

di Martin Grichting

L'imminente sinodo e in particolare la questione dei divorziati "risposati" con rito civile potrebbero essere un'occasione per nuovamente riflettere sulle condizioni che rendono fruttuosa la comunione sacramentale e sulla frequenza nel ricevere questo sacramento.
Il Concilio di Trento non aveva prescritto una frequenza determinata. Fu allora stabilito il precetto di ricevere la comunione sacramentale almeno una volta all'anno. […] Anche se in seguito molti autori spirituali raccomandarono la comunione frequente, fu solamente con il decreto "Sacra Tridentina Synodus", emanato dalla sacra congregazione del concilio il 20 dicembre 1905, che si verificò una svolta.
Questo documento, promulgato su iniziativa di papa Pio X, dichiarava molto auspicabile la comunione frequente e anche quotidiana, e invitava quindi i fedeli a riceverla spesso.
Pio X dettò però alcune condizioni per la comunione frequente. I fedeli non devono riceverla per abitudine, per vanità o per rispetto umano. Soprattutto, devono essere liberi da peccati gravi e avere l'intento di non peccare più, secondo la parola di san Paolo: Ciascuno riconosca il corpo del Signore e non mangi e beva la propria condanna ricevendolo indegnamente (cfr. 1 Corinti 11, 27-29). 
Non si poteva dunque neanche allora pensare a un invito generale e senza restrizioni a ricevere la comunione sacramentale, tanto più che allora vigevano delle regole molto più restrittive rispetto a oggi circa il digiuno eucaristico. In molti casi infatti la comunione veniva distribuita solamente durante la prima messa mattutina domenicale. 
Ma purtroppo le condizioni per ricevere la comunione sacramentale, che al tempo di Pio X erano ancora considerate ovvie, non sono state quasi più richiamate dalla Chiesa negli ultimi decenni. In pratica, ciò che oggi è rimasto delle indicazioni di Pio X è solamente l'invito alla comunione frequente, interpretata addirittura come un invito esteso a tutti i presenti alla celebrazione. La comunione sacramentale è vista oggi come una parte obbligatoria del rito della messa, come il segno di croce con l'acqua santa o lo scambio del segno di pace.
Diviene quindi doveroso anche in riferimento ai "risposati" con rito civile – ma non solo – un cambiamento di mentalità. Se le condizioni menzionate da papa Pio X per accostarsi alla comunione sacramentale fossero ancora applicate nella prassi pastorale, la questione circa la comunione sacramentale dei "risposati" con rito civile si porrebbe in un contesto più ampio e a loro più favorevole. Questi fedeli non potrebbero più temere di essere considerati le uniche pecore nere discriminate, perché, come si sa, non vi è solo il sesto comandamento, ma ve ne sono dieci.
In più, la problematica riguardo alla comunione sacramentale dei "risposati" con rito civile si è andata aggravando negli ultimi decenni a causa dell'impoverimento liturgico della vita ecclesiale. La liturgia in alcune parrocchie si è ridotta unicamente alla celebrazione eucaristica. Le varie forme di pietà popolare, le diverse funzioni religiose, l'adorazione eucaristica, la recitazione comune del rosario o del breviario sono state sempre più emarginate.
Senza dubbio l'eucaristia è "fonte e apice di tutta la vita cristiana" (Lumen Gentium, 11). Ma lo sfoltimento delle forme che preparano e conducono a questo apice accentua la situazione difficile in cui si trovano coloro che, per qualsiasi motivo, non possono avvicinarsi a questa fonte della vita cristiana, perché le loro personali condizioni di vita non lo permettono. 
Queste riflessioni mostrano che il dibattito circa i fedeli "risposati" non può portare a nessun risultato utile se continua a restringersi sulla questione se essi possano o no accedere alla comunione.
Il modo di procedere proposto dal cardinale Kasper ignora principi teologici della dottrina della Chiesa circa il sacramento della penitenza, il matrimonio e l'eucaristia. È ovvio che non si possono sacrificare questi principi per "salvare" la Chiesa. Se il dibattito rimane su questo corridoio stretto, c'è il rischio che si blocchi.
Rimane dunque come unica soluzione quella di sviluppare e mettere in atto una pastorale specifica per i fedeli "risposati" che rispetti la dottrina della Chiesa. La Chiesa deve inoltre occuparsi dell'impoverimento liturgico che si è venuto a creare negli ultimi decenni. E infine deve ristudiare e porre in discussione a livello di Chiesa universale la questione dell'accostamento degno e fruttuoso ai sacramenti.
Se si potessero avviare già solo su questi punti un approfondimento della dottrina della Chiesa e un rinnovamento della pastorale, le due prossime sessioni del sinodo sarebbero bene spese.

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