giovedì 31 luglio 2014

Chi torna al suo passato, non esce dalla Chiesa

CHI TORNA AL SUO PASSATO, NON ESCE DALLA CHIESA

Editoriale "Radicati nella fede" - Anno VII n. 8 - Agosto 2014

Nei momenti di confusione pericolosa occorre fare un passo indietro.
Non si fa forse proprio così nella vita? Di fronte a una situazione confusa, difficile da districare, che ci rende preoccupati e perplessi, ci si ferma e poi si fa un passo indietro, astenendosi dall'avanzare nel pericolo.
È anche ciò che abbiamo fatto nella fede. Sì, crediamo che l'immagine rende idea delle nostre scelte.
Amiamo la Chiesa, Corpo Mistico di Cristo e nostra Madre, amiamo il Papa e il Vescovo, ma di fronte all'evidente confusione della vita cristiana intorno a noi, ci rifiutiamo di avanzare nell'ambiguità e nell'incertezza e domandiamo la grazia di restare nel cristianesimo sicuro.
In fondo la nostra posizione è tutta qui. Per questo riteniamo, e abbiamo sempre ritenuto, di non essere nella disobbedienza.
Saremmo nella disobbedienza se inventassimo un “altro cristianesimo”, se ci inventassimo “una nostra messa”, una “nostra pastorale”, un “nostro catechismo”, se riconoscessimo degli “altri superiori” fuori da quelli che la Chiesa ci ha dato nel Papa e nel Vescovo.
No, noi non facciamo nulla di tutto questo. Semplicemente, giudicando piena di confusione e di pericolo la nuova pastorale, il nuovo rito della messa, la nuova catechesi, ci avvaliamo del diritto che la Chiesa ha sempre riconosciuto alle anime nei momenti di crisi: ci atteniamo alla precedente prassi e dottrina della Chiesa, a quella sicura, a quella prima dello scoppio della crisi.
Infatti, per la Messa, non andiamo a cercare chissà quale rito arcaico, ma ci atteniamo al Messale del 1962, quello promulgato da Papa Giovanni XXIII, perché le lievi modifiche e aggiunte apportate in quella riforma non hanno nella sostanza intaccato la Messa Romana di sempre. Non andiamo a cercare ciò che ci piace, ma obbediamo alle riforme della Chiesa, quelle sicure e solo a quelle sicure. E così facciamo per tutti gli altri aspetti della disciplina sui sacramenti e per tutto l'apostolato.
Così facendo, siamo certi di non andare fuori dalla Chiesa, che è la stessa ieri e oggi. Non ci sono due Chiese, una prima e l'altra dopo il Concilio. No, ce n'è una sola! Ci sono invece, nella stessa Chiesa, riforme accettabili e riforme non accettabili; sono inaccettabili in coscienza le riforme che mettono in pericolo la fede e la vita cristiana. E siccome la Fede è il bene supremo, non è concesso a nessuno nella Chiesa esporla al pericolo.
Sappiamo, ne siamo coscienti, di esprimere un giudizio severo sulle svolte della “chiesa moderna”.
D'altronde, ad uno sguardo spassionato, gli esiti disastrosi dell' “ammodernamento” della Chiesa di questi ultimi decenni sono innegabili. L'ultima riforma del messale e conseguentemente di tutta la vita cattolica sta uccidendo il cattolicesimo nei nostri paesi. Negarlo è pura ideologia.
Chiediamo e viviamo la libertà dei figli di Dio, che amando la Santa Madre Chiesa, dicono ai suoi legittimi Pastori: noi continuiamo su quello che ci avete insegnato un tempo, e continuando nella Tradizione siamo certi di contribuire, nonostante la nostra povertà, alla edificazione della Chiesa stessa.
Uniamo così due atteggiamenti che in coscienza ci sembrano non disgiungibili:
- un grande amore e rispetto per la Chiesa
- una vigilanza per non mischiare mai la grande Tradizione della Chiesa con le ambiguità delle riforme post-conciliari, e questo non soltanto nel rito della messa.
Amore e severità, insieme.
Anche perché amare la Chiesa non in astratto, significa preservare il suo tesoro costituito dalla Rivelazione divina, Tradizione e Scrittura insieme. Ma la Rivelazione si è declinata e trasmessa in ciò che la Chiesa ha sempre creduto e praticato, a partire dalla Messa Cattolica.
Sbaglia chi, avendo capito il terribile pericolo interno al Cattolicesimo attuale, piange in privato ma non interviene per rispetto alla Chiesa. Ama davvero chi la Chiesa la difende.
Ciò che appare disobbedienza non lo è. È invece il più grande servizio che un credente possa fare alla Sua Madre.
Chi parla di disobbedienza parlando dei “Tradizionalisti” (termine non bello, ma lo usiamo per capirci), lo fa per ignoranza: pensa che la Chiesa abbia una autorità assoluta su tutto. No, la Chiesa obbedisce a Gesù Cristo, ne è il suo corpo; deve custodire ciò che il Signore le ha consegnato, Verità e Grazia. Non inventa la Chiesa, ma trasmette.
Per questo non può essere illegittimo decidere di stare nella Tradizione più sicura.
Non esce dalla Chiesa chi sta al suo passato, ne esce chi inventa un cristianesimo nuovo.

mercoledì 30 luglio 2014

Mai più guerra? La soluzione non è il pacifismo

Mai più guerra? 
La soluzione non è il pacifismo

di Nicola Bux

I missili di Hamas su Israele, le bombe su Gaza, i combattimenti in Siria, la persecuzione dei cristiani a Mosul, gli incendi e i saccheggi in Libia. La guerra, le violenze e gli eccidi paiono dominare parti sempre più grandi del nostro mondo. E una domanda: perché?

Dinanzi alla realtà delle guerre e allo stupore per il fatto che vi siano, la Sacra Scrittura rivela che la guerra è una conseguenza del peccato originale. Imparai al catechismo che la separazione dell'uomo da Dio e la sua ribellione, avvenuta in origine, è la causa prima delle infermità, dei dolori, delle fatiche e, soprattutto, della morte del corpo; come, pure, causa dell'ignoranza, della malizia, della debolezza e della concupiscenza dell'anima. L'intelligenza rimase offuscata, in modo che con difficoltà riconosce il vero, con facilità cade nell'errore e s'indirizza più alle cose temporali che alle cose eterne. 

La volontà rimase indebolita e inclinata verso il male: con gravissima difficoltà supera il vizio e pratica la virtù; anzi, spesso si sente trascinata verso il peccato, anche quando la ragione comprende chiaramente che è male. In tanto sconvolgimento di tutta la natura umana, che cosa diventò la vita dell'uomo sulla terra? Ignoranza, povertà, malattie, guerre, fame e vizi di ogni genere furono il retaggio della misera umanità attraverso i secoli. Tutte conseguenze del peccato originale, o come lo si voglia chiamare, che, per alcuni teologi, è una favola; eppure, basta aprire il libro dell'Apocalisse, dove la guerra, la morte e la fame sono raffigurate come cavalli che percorrono la storia (cfr 6, 1-8), finché non arriva, sul cavallo bianco, il vincitore, Gesù.

Dinanzi all'agitarsi continuo di ecclesiastici nell'invocare la pace, l'uomo della strada chiede: si può evitare o far cessare la guerra? I cattolici dovrebbero rispondere: solo con la conversione del cuore a Dio e il riconoscimento della redenzione operata da Gesù Cristo. Allora non costruiremo la pace? Sì, ma a partire dall'annuncio di Colui che ne è il principe e la pietra angolare, senza il quale l'edificio non sta in piedi. Altrimenti, s'addice a noi, il monito del profeta Geremia: «dal profeta al sacerdote tutti compiono azioni menzognere. Guariscono la ferita del mio popolo alla leggera, dicendo: “Pace, pace!”. Ma pace non c'è. Avrebbero dovuto vergognarsi di aver fatto cose abominevoli, ma non si vergognano affatto, né sanno arrossire...» (8, 10-12). Infatti, come possiamo pretendere di avere la pace, se, con l'aborto, abbiamo portato la guerra fin nel grembo materno? Gesù non ha degnato di attenzione le tante guerre nell'impero romano, perché non si fermava agli effetti – la guerra è tale – ma additava e rimuoveva la causa: la lontananza da Dio, l'immoralità, il peccato. Per questo non ha mai detto che non vi saranno guerre, né ha istruito i suoi al pacifismo. Cosa ha fatto? Risponde Eliot nei Cori della Rocca: ha fatto il Cristianesimo. Questo è il rimedio. 

Benedetto XVI ha spiegato che Gesù è venuto a riaffermare l’adorazione di Dio: il primo comandamento mosaico «Io sono il Signore Dio tuo” si compie nell’ “Io Sono” del Figlio di Dio. La missione del Vangelo è l’adorazione di Dio, non la soluzione dei problemi sociali, tra cui la guerra: “ma che cosa ha portato Gesù veramente, se non ha portato la pace nel mondo, il benessere per tutti, un mondo migliore? Che cosa ha portato? La risposta è molto semplice: Dio. Ha a portato Dio» (Gesù di Nazaret, I, p 67).

Così Gesù ha cambiato il mondo non solo una volta per tutte, ma lo cambia ogni volta che incontra il mondo intimo dell’uomo. Perciò Egli ha promesso di essere con noi fino alla fine del mondo. Non potrebbero i cattolici evangelizzare questo? L'effetto sarà più lento, ma più duraturo, mettendo la premesse della vera pace: la conversione del cuore. Per conseguire la pace, Gesù non ha chiesto agli Apostoli di costituire una “comunità ecumenica mista”, come faceva il gesuita scomparso in Siria (cosa che i musulmani considerano apostasia dalla loro religione), ma di fare la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. A noi cattolici non è consentito di andare oltre questo mandato, presumeremmo di essere più grandi di Gesù Cristo. Dunque: «Il grande problema, posto davanti al mondo resta immutato – come disse Giovanni XXIII nel discorso di apertura del Vaticano II – o sono con Cristo e con la Chiesa sua oppure sono senza di Lui, o contro di Lui, e deliberatamente contro la sua Chiesa».

Non tutti gli islamici perseguitano i cristiani nel "califatto di Mosul" ....


Abbiamo già suggerito nei giorni scorsi un'invocazione di preghiera alla Vergine Maria, Regina di Palestina, a favore delle popolazioni innocenti e sofferenti di Gaza e, soprattutto, per i cristiani perseguitati dagli islamici del Califatto di Mosul, da recitarsi il 1° agosto, giornata di preghiera, e che ha trovato a livello locale anche alcuni riscontri significativi.
Oggi apprendiamo che non tutti gli islamici hanno aderito alla campagna di odio nei confronti delle inermi popolazioni cristiane di quelle antiche terre, che per prime conobbero la Rivelazione di Dio. Anzi, alcuni di questi sono stati uccisi e frustati. Anche se non cristiani, pur'essi possono definirsi tali in spirito. A questi islamici generosi e sprezzanti del pericolo che corrono va la nostra ammirazione e riconoscenza.

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I sedici ulema uccisi a Mosul per aver difeso i cristiani, l’imam frustato in piazza e altre storie di musulmani perseguitati dallo Stato islamico


Leone Grotti

Come vivono il fanatismo del califfo Al Baghdadi i musulmani di Iraq e Siria? Camille Eid: «Alcuni protestano pagando con la vita, la maggior parte tace»


I fanatici dello Stato islamico, dopo essersi insediati a Mosul proclamando il califfato, hanno dato il via a una sistematica persecuzione dei cristiani, culminata nella cacciata di questi dalle loro case. Le massime cariche istituzionali della Chiesa e degli organismi internazionali hanno condannato questa condotta, ma come hanno reagito i musulmani moderati? «Dipende», dichiara a tempi.it Camille Eid, scrittore e giornalista libanese. «Alcuni hanno protestato, pagando con la propria vita, altri hanno preferito restare in silenzio».
Chi si è opposto?
Innanzitutto 16 ulema sunniti che appartengono a confraternite sufi di Mosul, il ramo più spirituale dell’islam. La notizia della loro uccisione è uscita circa un mese dopo la presa della città da parte dello Stato islamico (e secondo l’Onu sono stati uccisi tra il 12 e il 14 giugno, ndr). Alcuni di loro sono stati uccisi ancora prima che venissero emanati gli editti contro i cristiani perché si erano opposti all’interpretazione radicale dell’islam seguita da questi terroristi. Tra loro ci sono gli imam della Grande moschea della città, Muhammad al-Mansuri, e quello della moschea del Profeta Giona, Abdel-Salam Muhammad.

Ce ne sono altri?
Un docente di legge (che lavora nel dipartimento di Pedagogia dell’università di Mosul, ndr), Mahmoud Al ‘Asali, che si è ribellato alle azioni persecutorie contro i cristiani. È stato davvero coraggioso. Altri, magari, pensavano che questi terroristi non facessero davvero sul serio.
Cioè?
Lo sceicco Muhammad Al Badrani, imam sufi, ha ricevuto 70 frustate come punizione per aver ripetuto dal minareto della moschea Al Kawthar lodi “aggiuntive” al Profeta prima dell’appello alla preghiera. Era già stato avvertito di smettere e forse non li ha presi sul serio. Allora lo hanno trascinato davanti al tribunale e gli hanno dimostrato che non scherzano. Ma non hanno problemi a punire anche uccidendo.
Come si spiega questi gesti di grande coraggio?
Non dico che Mosul abbia alle spalle una storia ideale di convivenza, però quanto meno il suo pluralismo è conosciuto da secoli. È stata una città con una composizione di etnie e religioni molto variegata. C’erano i cristiani siri, caldei, armeni; i musulmani sunniti, sciiti, sunniti sufi, yazidi. Poi i curdi, i turkmeni e anche una comunità ebraica fino agli anni Cinquanta. La convivenza di questi gruppi ha prodotto una tolleranza reciproca e molti si sono opposti alla sua distruzione. Anche i cristiani all’inizio sono stati ingannati, perché i terroristi hanno dato loro l’impressione che se fossero rimasti tranquilli avrebbero potuto continuare a vivere nella città. Non era così.

A Baghdad si è vista una piccola manifestazione di sostegno musulmano ai cristiani.
Non è stata una cosa organizzata. Si tratta di giovani musulmani che hanno voluto esprimere la loro vicinanza ai cristiani scrivendo sulle magliette “Io sono iracheno, sono cristiano” e anche “Siamo tutti cristiani”. Poi si è trasformata in una campagna Twitter. Questa è stata un’idea geniale che risponde alla richiesta del patriarca Sako, che ha invocato dai musulmani gesti di vicinanza concreti, non parole. Ha chiesto: dove siete voi musulmani moderati?
Il gesto di questi musulmani è isolato?
Purtroppo la maggior parte dei musulmani tace. Io capisco quelli che vivono nelle zone dove governa lo Stato islamico e che rischierebbero la vita. Però mi chiedo: il grande imam della moschea di Al Azhar in Egitto perché non parla? Che paura puoi avere se ti trovi al Cairo? Molti non parlano contro le crocifissioni, le lapidazioni e le amputazioni perché sanno già cosa si sentirebbero rispondere: non avete letto il Corano? Quando i terroristi compiono questi atti prima citano il Corano. E questo è un problema.

Nei luoghi in cui si insedia lo Stato islamico cerca di insegnare la versione radicale dell’islam contro cui si sono opposti gli imam sufi?
Certo. A Raqqa, ad esempio, sono molto pignoli con le accuse di politeismo e hanno tappezzato i muri della città (foto a destra) con manifesti che riportano: “Chi appende un amuleto [allo specchietto retrovisore della macchina] commette politeismo”. C’è anche una squadra di donne che pattuglia le strade controllando che nessuna donna violi il rigido codice di abbigliamento. Diciamo che fanno il loro catechismo.

Un nuovo testo, in edizione francese, di Mons. Schneider, con prefazione del card. Burke

Su gentile segnalazione, volentieri pubblico la prefazione di S.Em.za il card. Burke ad un testo, in edizione francese, di S. Ecc.za Mons. Schneider, afferente il tema della Comunione sulla mano, quale inizio e culmine dell'odierna crisi della Chiesa.
Del resto, anche noi avevamo segnalato qualche mese fa come i Santi ed i fedeli ricevessero la S. Comunione; modalità ben diversa da quella attuale .... .
Si tratta, dunque, di un testo estremamente attuale e meritevole di attenta lettura e riflessione.

POUR LE RETOUR À LA MANIÈRE TRADITIONNELLE DE COMMUNIER

Lors du dernier pèlerinage Summorum Pontificum à Rome, en octobre 2013, Mgr Schneider avait présenté son dernier ouvrage aux pèlerins de langue italienne. Ce livre, sorti aux Éditions Vaticanes et intitulé Corpus Christi, fait suite à Dominus est dont les éditions Tempora publièrent en 2008 la traduction française. Après avoir insisté, dans Corpus Christi, sur la présence réelle de Notre Seigneur Jésus-Christ dans la sainte Eucharistie et le respect qui lui est dû, Mgr Schneider, plaide aujourd’hui, avec encore plus de vigueur et clarté, pour l’abandon de la pratique de la communion dans la main, née comme une tolérance, un indult, mais qui s’est abusivement généralisée et est devenue la « règle » depuis les années 70, selon un processus bien connu de la subversion des normes. 

Renaissance catholique, qui publie la version française de ce petit (116 pages) mais précieux ouvrage de Mgr Schneider aux éditions Contretemps, a tenu à demander au cardinal Burke, Préfet du Tribunal de la Signature apostolique, une préface spécifique pour cette édition française. Mgr Schneider et le cardinal Burke, qui l’appuie ainsi de tout son autorité morale, se placent courageusement dans la ligne de Mgr Juan Rodolfo Laise, alors évêque de San Luis en Argentine, qui avait écrit un livre sur ce sujet, La communion dans la main. Documents et histoire, publié en français par le Centre International d’Études Liturgiques (1999).

C’est le texte de cette préface que nous vous proposons cette semaine en vous invitant chaleureusement à vous procurer le livre de Mgr Schneider et à en faire la promotion dans vos paroisses.

Corpus Christi – La communion dans la main au cœur de la crise de l’Église,
Éditions Contretemps pour Renaissance catholique Publications,
116 pages, 13 euros.
En vente sur le site de Renaissance catholique ou sur demande au 01 47 36 17 36.


Préface du cardinal Raymond Leo Burke

pour l’édition française du livre de

Mgr Athanasius Schneider,
Corpus Christi – La communion 
dans la main au cœur de la crise de l’Église

Rien n’est plus important dans la vie d’un catholique que la sainte Eucharistie. Le décret sur la vie et le ministère des prêtres du IIe concile du Vatican, s’inspirant d’un texte de saint Thomas d’Aquin, déclarait : « La sainte Eucharistie contient tout le trésor spirituel de l’Église, à savoir le Christ Lui-même, notre Pâque, le Pain vivant, Lui dont la chair, vivifiée et vivifiant par l’Esprit Saint, donne la vie aux hommes, les invitant et les conduisant à offrir, en union avec Lui, leur propre vie, leur travail, toute la création. » (1) Ce même texte continue ainsi : « On voit donc alors comment l’Eucharistie est bien la source et le sommet de toute l’évangélisation : tandis que les catéchumènes sont progressivement conduits à y participer, les fidèles, déjà marqués par le baptême et la confirmation, trouvent en recevant l’Eucharistie leur insertion plénière dans le Corps du Christ » (2).

La sainte Eucharistie est le mystère par excellence de la Foi. À travers l’action de la sainte Messe, le Christ, assis en gloire à la droite du Père, descend sur les autels des églises et des chapelles du monde entier pour rendre à nouveau présent son sacrifice sur le Calvaire, sacrifice unique par lequel l’homme est sauvé du péché et parvient à la vie dans le Christ grâce à l’effusion du Saint-Esprit. C’est par la sainte Eucharistie que la vie quotidienne d’un catholique reçoit à la fois inspiration et force. 

Uni de cœur avec le Christ dans le sacrifice eucharistique, le catholique fervent est appelé à n’être qu’un avec Lui à chaque instant de chacune de ses journées, portant la Croix et participant ainsi au travail incessant et sans prix de son Amour pur et généreux pour tous les hommes, au-delà de toute frontière. Recevant du Cœur Eucharistique de Jésus l’aliment céleste de son Corps, de son Sang, de son Âme et de sa Divinité, nous sommes fortifiés pour vivre de façon extraordinaire les circonstances ordinaires de la vie quotidienne. C’est pourquoi, au-delà de l’obligation grave de participer chaque dimanche au Saint Sacrifice de la Messe, les catholiques sont invités à participer à la sainte Messe tous les jours, lorsque cela est possible (3).

À partir du moment où l’on a compris la réalité de la sainte Eucharistie – c’est-à-dire, qu’il s’agit du Corps, du Sang, de l’Âme et de la Divinité du Christ donnés à l’homme comme pain céleste pour le soutenir spirituellement dans son pèlerinage terrestre et comme gage de sa destinée aux noces célestes de l’Agneau (Ap XIX, 9), – l’on commence aussi à comprendre la profonde révérence qu’il faut pour traiter et recevoir la sainte Eucharistie. Ainsi, au long des siècles, les fidèles ont fait la génuflexion en arrivant devant le Saint Sacrement et se sont agenouillés en adoration devant la Présence Réelle de Notre Seigneur dans la sainte Eucharistie. De la même façon, sauf circonstances extraordinaires, seul le prêtre ou le diacre touchait la sainte Hostie ou le calice contenant le Précieux Sang. Une des impressions les plus frappantes de mon enfance est cette grande délicatesse envers le Saint Sacrement que m’ont enseignée mes parents, notre curé et les religieuses de nos écoles catholiques. Je me souviens particulièrement des avertissements minutieux qui m’ont été donnés, avant d’être admis à aider le prêtre comme servant de messe, sur la révérence due à la Présence Réelle.

Les signes de Foi eucharistique se manifestaient également dans la beauté de l’architecture et de l’ameublement des églises et des chapelles, dans la qualité des ornements, vases et linges servant au sacrifice eucharistique, et dans la langue et la musique spéciales – ou plutôt sacrées – employées dans le Culte divin. Dans l’attention réservée au Corps et au Sang du Christ, l’Église s’est toujours souciée d’imiter davantage l’exemple de Marie, sœur de Lazare, qui a oint Jésus avec de l’huile très précieuse juste avant sa Passion et sa Mort. Alors que Judas le traître contestait ce geste de profonde vénération et d’amour, comme un gaspillage de ressources qui auraient pu être utilisées pour s’occuper des pauvres, Notre Seigneur répondit que Marie avait agi d’une manière juste et noble, témoignant de la révérence à son Corps, qu’il devait sacrifier pour accomplir le salut éternel du genre humain (Jn XII, 1-8).

Dans ce sens, j’ai toujours été très inspiré par l’exemple de saint François d’Assise qui a pratiqué les plus grandes austérités dans sa vie religieuse de consacré, tout en insistant pour que le plus grand soin fût apporté à honorer le Saint Sacrement, même de façon somptueuse, et à n’utiliser que les matériaux les plus précieux pour le culte eucharistique. Saint François n’a pas hésité à avertir les prêtres (que leur office oblige d’abord à rendre honneur au Très Saint Sacrement), à propos de leurs manques d’égard envers cette réalité sacrée entre toutes (4).

Parmi tous les riches aspects de la Foi et de la pratique eucharistiques, primordiale est certainement la manière dont les fidèles reçoivent le Corps du Christ dans la sainte Communion. Au moment de la sainte Communion, le fidèle, bien conscient de son indignité et se repentant de tous ses péchés, se présente devant le Seigneur qui, dans son amour sans fin et sans mesure, offre son Corps comme aliment céleste pour que nous le recevions. Je me rappelle bien, dans mon enfance, la diligence dont faisaient preuve mes parents, ainsi que les prêtres et les religieuses de l’école catholique, pour préparer les enfants à recevoir pour la première fois la sainte Communion. Je me souviens aussi des fréquents rappels à la révérence et à l’amour qu’il nous fallait démontrer en recevant la sainte Communion et en faisant notre action de grâces immédiatement après la réception du sacrement.

À l’époque de ma Première Communion, le 13 mai 1956, la sainte Hostie se recevait à la Sainte Table, sur les lèvres et à genoux, les mains recouvertes d’une nappe. Cette manière de recevoir la sainte Communion m’a toujours frappé comme étant l’expression la plus haute de l’enfance spirituelle enseignée par Notre Seigneur (MtXVIII, 1-4), et dont sainte Thérèse de Lisieux est lune des figures les plus remarquables (5). À cette même époque de ma vie, mon père était gravement malade et il devait rester alité à la maison : il mourut au mois de juillet 1956. Je me rappelle la grande préparation et l’attention qu’il manifestait chaque fois que le prêtre venait lui porter la sainte Communion. L’on dressait une petite table à côté de son lit avec un crucifix, des cierges et une nappe spéciale. L’on accueillait le prêtre en silence à la porte avec un cierge allumé et, même si mon père ne pouvait pas se lever, tous restaient à genoux pendant la cérémonie. 

Des années plus tard, en mai 1969, la pratique de recevoir la Communion dans la main a été autorisée, au jugement des Conférences épiscopales, en parallèle avec la pratique multiséculaire de recevoir la communion directement sur les lèvres (6). L’un des arguments avancés pour introduire cette deuxième option était l’existence d’un usage antique de recevoir la sainte Communion dans la main (7). Dans le même temps, l’instruction de la Congrégation pour le Culte Divin, qui permettait la pratique de la réception de la sainte Communion dans la main, soulignait le fait que la tradition multiséculaire de recevoir la Communion sur la langue devait être préservée en raison du respect des fidèles envers la sainte Eucharistie qu’exprime cette pratique (8). En ce sens, il est intéressant de noter que le Pape Paul VI (durant le pontificat duquel la permission de recevoir la sainte Communion dans la main a été donnée), dans sa lettre encyclique Mysterium Fidei sur la doctrine et le culte du Très Saint Sacrement promulguée quatre années avant la concession de cette permission, se réfère à un usage antique des moines vivant dans la solitude, ainsi que des chrétiens persécutés, selon lequel ils prenaient la sainte Communion avec leurs propres mains. Néanmoins, le Pape ajoute aussitôt que cette référence à un usage d’autrefois ne remet pas en question la discipline qui s’est répandue par la suite concernant la manière de recevoir la sainte Communion (9).

La pratique traditionnelle est mieux comprise à la lumière de l’herméneutique de la réforme dans la continuité, opposée à l’herméneutique de la discontinuité et de la rupture, dont a parlé le Pape Benoît XVI dans son discours de Noël 2005 à la Curie romaine. Dans l’herméneutique de la continuité, l’unique Église « grandit dans le temps et (…) se développe, restant cependant toujours la même. » (10) Ainsi, la pratique traditionnelle de recevoir la sainte Communion manifeste-t-elle une croissance et un développement tant de la Foi eucharistique que de l’expression de révérence envers le Très Saint Sacrement. L’on pourrait dire par rapport à la manière traditionnelle de communier ce que le Pape Benoît XVI disait par rapport à l’Adoration eucharistique dans son Exhortation Apostolique post-synodale Sacramentum Caritatis : « L’Adoration eucharistique n’est rien d’autre que le développement explicite de la célébration eucharistique, qui est en elle-même le plus grand acte d’adoration de l’Église. » (11)

Malheureusement, l’entreprise de rétablissement de l’antique usage survint précisément à un moment où de nombreux abus liturgiques avaient gravement diminué la révérence et la dévotion dues au Saint Sacrement. En outre, l’époque était à une sécularisation et à un relativisme croissants, dont les effets furent dévastateurs dans l’Église. Qui plus est, la “restauration” de cette pratique fut incomplète, puisqu’elle se borna à la réception de la Communion dans la main sans toutefois incorporer les autres détails très riches de l’usage antique. À la suite de cela, la réception de la sainte Communion est devenue l’occasion de négligences – voire même d’irrévérences effectives – et, dans quelques cas particulièrement déplorables, le Saint Sacrement reçu dans la main n’est pas consommé mais au contraire soumis à des formes d’abus, jusqu’au cas extrême où des personnes emportent le Corps du Christ pour Le profaner plus tard au cours d’une « messe noire ». Dans ma propre expérience pastorale, les cas où la sainte Hostie est laissée dans un livre de chants ou en d’autres endroits, ou même emportée à la maison pour la dévotion privée – cela me déplaît de devoir le signaler –, n’ont pas été rares. Il est également attristant d’avoir vu assez fréquemment des communiants arracher littéralement l’Hostie de mes mains plutôt que de recevoir le Corps du Christ de manière convenable. 

Mgr Athanasius Schneider, pasteur d’âmes exemplaire, a fait face avec un amour courageux à la situation actuelle quant à la réception de la sainte Communion dans le rite romain. Puisant en sa propre et riche connaissance de la foi et de la pratique eucharistiques en un temps de persécution dans son pays natal, il a été poussé à étudier en profondeur cet antique usage de recevoir la sainte Communion dans la main, ainsi que son actuelle restauration. De façon claire et soignée, il explique le soin qu’avait la pratique antique d’éviter tout ce qui peut suggérer l’auto-communion – en soulignant l’aspect infantile de la Communion – ; et d’empêcher que même une seule parcelle ne soit perdue, et ainsi sujette à profanation. Il décrit aussi brièvement les étapes de l’introduction de l’usage actuel, qui diffère de manière importante de la vieille pratique de l’Antiquité.

Il présente ensuite soigneusement les conséquences les plus graves de la pratique actuelle de réception de la communion dans la main : 1) la réduction ou la disparition de tout geste de révérence et d’adoration ; 2) l’emploi pour la réception de la sainte Communion d’un geste habituellement utilisé pour la consommation des aliments ordinaires, d’où résulte une perte de Foi en la Présence Réelle, surtout parmi les enfants et les jeunes ; 3) la perte abondante de parcelles de la sainte Hostie et leur profanation consécutive, surtout en l’absence de plateau lors de la distribution de la sainte Communion ; et, 4) un autre phénomène qui se répand de plus en plus : le vol des saintes Espèces. 

Prenant en considération toutes ces conséquences, Mgr Schneider dit à bon droit que la justice, – c’est-à-dire le respect du droit du Christ d’être reçu dans la sainte Communion avec la révérence et l’amour convenables, et de celui des fidèles de recevoir la sainte Communion d’une manière qui exprime au mieux l’adoration révérencielle, – exige que la pratique actuelle concernant la réception de la sainte Communion dans le rite romain soit sérieusement étudiée en vue d’une réforme dont le besoin se fait lourdement sentir.

Un aspect tout à fait impérieux de la présentation de Mgr Schneider regarde le droit du Christ, le ius Christi. En nous rappelant l’humilité totale de l’amour du Christ qui se donne à nous dans la petite Hostie, fragile par nature, Mgr Schneider nous remet à l’esprit la grave obligation de protéger et d’adorer Notre Seigneur. En effet, dans la sainte Communion, il se fait, en raison de son amour incessant et incommensurable pour l’homme, le plus petit, le plus faible, le plus délicat d’entre nous. Les yeux de la Foi reconnaissent la Présence Réelle dans les parcelles, même les plus petites, de la sainte Hostie et nous conduisent ainsi à l’Adoration amoureuse. 

Il ne me reste qu’à remercier Mgr Athanasius Schneider pour sa minutieuse étude de la question de la réception de la sainte Communion, expression prééminente de la foi eucharistique. Son étude est remplie du plus profond amour de Jésus Eucharistie, amour dans lequel il a été formé à une époque où l’Église était sous le coup de la persécution dans son pays. J’espère que l’étude présentée par ce volume inspirera une Foi eucharistique toujours plus profonde et plus ardente chez le lecteur. J’espère aussi que ce livre servira d’occasion pour renouveler le mode de réception de la sainte Communion, discipline qui dispose le communiant à reconnaître pleinement le Corps, le Sang, l’Âme et la Divinité du Christ et, ainsi, à recevoir Jésus Eucharistie avec une révérence et une adoration amoureuses. C’est dans cette réception révérencielle et amoureuse de Notre Seigneur dans la sainte Communion que nous devons puiser la force de transformer et renouveler nos vies personnelles et notre société, avec la force de l’Évangile, comme le faisaient les premiers chrétiens.

Puisse l’étude du livre de Mgr Schneider amener les fidèles, au moment de la sainte Communion, à reconnaître la Présence Réelle du Seigneur ressuscité et à faire leurs les paroles de saint Jean l’Évangéliste à saint Pierre, lorsque le Seigneur ressuscité apparut aux disciples sur les bords du lac de Tibériade au cours de la pêche miraculeuse : « C’est le Seigneur ! » (Jn XXI, 7). 

Raymond Leo Cardinal BURKE

Rome, le 7 juin 2014, Vigile de la Pentecôte

(1) « In Sanctissima enim Eucharistia totum bonum spirituale Ecclesiae continetur, ipse scilicet Christus, Pascha nostrum panisque vivus per Carnem suam Spiritu Sancto vivificatam et vivificantem vitam praestans hominibus, qui ita invitantur et adducuntur ad seipsos, suos labores cunctasque res creatas una cum Ipso offerendos. » Concile œcuménique Vatican II, Décret Presbyterorum Ordinis, « De Presbyterorum ministerio et vita », 7 décembre 1965, Acta Apostolicae Sedis 58 (1966), 997, n. 5. Traduction française : «Concile Vatican II. Les Documents » (Paris, Médiaspaul, 2012), p. 361, n. 5.

(2) « Quapropter Eucharistia ut fons et culmen totius evangelizationis apparet, dum catechumeni ad participationem Eucharistiae paulatim introducuntur, et fideles, iam sacro baptismate et confirmatione signati, plene per receptionem Eucharistiae Corpori Christi inseruntur. » Ibid., 997, n. 5. Traduction française : Ibid., p. 361, n. 5.

(3) Pie XII, Lettre encyclique Mediator Dei et hominum, « De Sacra Liturgia », 20 novembre 1947, Acta Apostolicae Sedis 39 (1947), pp. 564-565; et Paul VI, Lettre encyclique Mysterium Fidei, «De doctrina et cultu SS. Eucharistiae », 3 septembre 1965, Acta Apostolicae Sedis 57 (1965), 771.

(4) « Epistola ad Clericos », Fontes Franciscani, ed. Stefano Brufani, Enrico Menestò et al. (Assisi: Edizioni Porziuncula, 1995), pp. 59-60 (Recensio prior) et 60-61 (Recensio posterior).

(5) Sainte Thérèse de l’Enfant-Jésus et de la Sainte-Face, Œuvres complètes (Paris, Les Éditions du Cerf et Desclée De Brouwer, 1992), pp. 219-221. 

(6) Sacrée Congrégation pour le culte divin, Instruction Memoriale Domini celebrans, « De modo Sanctam Communionem ministrandi », 29 mai 1969, Acta Apostolicae Sedis 61 (1969), 541-547.

(7) Ibid., 542.

(8) Ibid., 543.

(9) Paul VI, Lettre encyclique Mysterium Fidei, « De doctrina et cultu SS. Eucharistiae », 3 septembre 1965, Acta Apostolicae Sedis 57 (1965), 770.

(10) « … cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, … » Benoît XVI, discours « Ad Romanam Curiam ob omina », 22 décembre 2005, Acta Apostolicae Sedis 98 (2006), 46. 

(11) « … adoratio eucharistica non est aliud quam evidens beneficium eucharisticae Celebrationis, quae in se ipsa est Ecclesiae actio adorationis maxima. » Benoît XVI, Exhortation apostolique post-synodale Sacramentum caritatis, « De Eucharistia vitae missionisque Ecclesiae fonte et culmine », 22 février 2007, Acta Apostolicae Sedis 99 (2007), 155, n. 66.

martedì 29 luglio 2014

Il New York Times smonta la ricostruzione del card. Kasper

Douthat, columnist del Nyt, fa a pezzi la dottrina Kasper sul divorzio

Altro che proposte blande e misericordia: “La posta teologica in palio”, contrasta con il “tradizionale insegnamento”


“Per ragioni teologiche, sociologiche e semplicemente logiche, ammettere i risposati alla comunione ha la potenzialità di trasformare non solo l’insegnamento cattolico e la vita cattolica, ma il modo stesso in cui viene percepita la chiesa. Questa è la vera posta in palio; questi sono i termini sui quali è necessario dibattere”. A parlare non è un tradizionalista della lefebvriana Econe, bensì è il columnist del liberal New York Times, il cattolico Ross Douthat. Lascia da parte, Douthat, le dotte argomentazioni storiche e teologiche – per questo, dice, basta e avanza quanto ha scritto “il gruppo dei domenicani americani” sulla rivista Nova et Vetera (cfr. il Foglio 24/7), e si sofferma sulle frasi contenute nell’intervista concessa lo scorso maggio dal cardinale Walter Kasper a Commonweal. In quella circostanza, il porporato tedesco insisteva sulla necessità di trovare una via tra il “rigorismo e il lassismo” che concedesse una seconda possibilità ai divorziati risposati desiderosi di accedere all’eucaristia.
“Se un divorziato risposato è realmente dispiaciuto per il fallimento del proprio matrimonio”, notava Kasper, “possiamo noi rifiutare il sacramento della confessione e della comunione, dopo un periodo di penitenza?”. Di mezzo ci sono i bambini, che non crescerebbero come buoni cristiani se non vedessero i propri genitori andare a messa e comunicarsi come si dovrebbe. Pazienza se Müller e altri eminentissimi teologi hanno ricordato che non sta scritto da nessuna parte che ricevere la comunione è un obbligo. Se a ricevere l’ostia non ci vanno mamma e papà, non ci andranno neppure i figli, è la tesi. Per Douthat, si tratta di considerazioni dove “la posta teologica in palio e il potenziale conflitto con il tradizionale insegnamento della chiesa sono minimizzati e/o spazzati via”. Kasper parte dal presupposto che si sta parlando di una eccezione che in alcun modo minaccerebbe la regola fondata sul Vangelo. Andando a scavare dietro le frasi, però, il quadro che emerge è un altro: “Ciò che Kasper propone differisce dallo scenario in cui un sacerdote, a titolo personale, può decidere di propria iniziativa di dare la comunione a un risposato. Questa possibilità esiste già”, dice Douthat, sottolineando che ben altra cosa è ciò che raccomanda Kasper: non si tratta di concedere “un certo grado di tolleranza per chi ha deviato dalla regola, bensì di dare il permesso formale di abbandonare tale regola”. Il tutto garantito “da un organo ufficiale della chiesa, con un imprimatur papale”, cui (tutti) i sacerdoti sarebbero costretti ad adeguarsi.
Il teologo tedesco assicura che si tratterebbe d’un percorso stretto, riservato a “piccoli settori di divorziati risposati interessati ai sacramenti”. Non di certo alle “grandi masse”, né  si potrebbe parlare di una “soluzione generale”. E chi lo dice che sarà così?, si domanda Douthat; quali strumenti ha, Kasper, per dire che il percorso sarà limitato, a numero chiuso? Semmai, scrive il columnist del New York Times, è più logico aspettarsi che la soluzione sia “estesa alle grandi masse in tempi abbastanza rapidi”, con tutto quello che ne consegue.
Basti ricordare che la chiesa ha già una procedura che regolamenta tali situazioni, il processo di nullità matrimoniale, “limitato alle persone che hanno un forte interesse nel ricevere i sacramenti dopo aver divorziato ed essersi risposati”. Si supponga – prosegue – che accanto a questa procedura se ne istituisca un’altra, più rapida. Senza scartoffie e tribunali di mezzo. La conseguenza, inevitabile, è che molti smetterebbero di seguire la via canonica, preferendo la soluzione più facile: “Con la proposta di Kasper, è vero che i secondi matrimoni non sarebbero benedetti dalla chiesa, ma ci sarebbero molte persone che direbbero ‘bene, ora no, ma forse un giorno, chi lo sa’. Io farei così”, ammette Douthat. E alla fine, la stragrande maggioranza dei divorziati risposati interessati a ricevere i sacramenti, busserebbe alle porte delle chiese per farsi dare la comunione. Certo, “i sacerdoti potrebbero studiare attentamente ogni caso, potrebbero limitare il numero di persone da ammettere a questo percorso”. Ma è più probabile, nota ancora nel suo blog sul New York Times, che si assisterebbe a una “rapida normalizzazione del nuovo approccio. Naturalmente non in ogni parrocchia o diocesi, ma in un numero abbastanza rilevante da stabilire un nuovo modello, una norma diffusa e generalmente accettata”. E il risultato sarebbe solo uno: “Quasi tutti i divorziati risposati potrebbero ragionevolmente aspettarsi di avere la possibilità di risposarsi e riaccostarsi all’eucaristia con la formale benedizione della chiesa”. Questo rafforzerebbe, come dice Kasper, l’attaccamento alla chiesa di molti cattolici. I bambini vedrebbero i loro genitori confessarsi e comunicarsi. Ma – scrive Douthat – “penserebbero che la loro chiesa, alla fine, non ritiene indissolubile il matrimonio, o che le parole di Gesù sulla questione non sono vincolanti, come il cattolicesimo ha fino a oggi creduto e insegnato”.
E poi, per quale motivo si pensa a regolare il secondo matrimonio e non “i matrimoni poligami, dove i bambini sono ugualmente coinvolti?”. Certo, prosegue il columnist, la poligamia non è tra le questioni più impellenti nella Germania di Kasper. Ma lo è in Africa, il principale campo d’azione missionaria della chiesa e dove la definizione stessa di matrimonio “è violentemente contestata, non tra cristianesimo e liberalismo, ma tra cristianesimo e islam”. C’è qualcosa, nella proposta di Kasper, “che implicherebbe la necessità di una soluzione simile nelle unioni poligame? Se la chiesa non chiede l’eroismo dei cattolici risposati nei paesi ricchi, come può prendere una dura posizione contro la poligamia?”. Douthat non si fa illusioni, sa “che nella visione di molti, la chiesa cattolica necessita disperatamente di evolversi lungo la linea della modernità sessuale”. Una cosa, però, è altrettanto certa: “La proposta-Kasper non è una piccola modifica alla disciplina cattolica: è un cambiamento profondo, un’alterazione da cui deriverebbero conseguenze ancora più vaste”.

I ribaldi di Melk

Un articolo interessante ed intelligente del giovane Matteo Matzuzzi, autore arguto e graffiante, il quale mostra, con lo stile che gli è proprio, come, in certi ambienti ecclesiastici, un tempo tanto gloriosi, ricchi di storia e testimonianze d'arte e di fede, si siano insediati personaggi assai dubbi. 

È il nuovo corso di una Chiesa "povera". Di spirito. Non di denaro, se fosse accertato che, per gli "esercizi spirituali", di quattro giorni, sia stato riconosciuto un "rimborso spese" di ottomila euro al predicatore, un ex sacerdote, ridotto allo stato laicale, per le sue idee poco ortodosse.

Non diventi la "Chiesa povera" un pretesto per ridurla in "povera Chiesa", ovvero un espediente per spogliare il convento e l'altare e per rivestire i monaci o assecondare certe tendenze degenerative ... .


I ribaldi di Melk


L’abate ultra progressista affida gli esercizi spirituali dei monaci a un teologo sconfessato da Ratzinger e spretato da Wojtyla


Eugen Drewermann, 74 anni, da nove fuori dalla chiesa cattolica. Oracolo vivente per la galassia di riformatori borderline che sognano una chiesa dove tutto è più o meno lecito

Per festeggiare il suo sessantacinquesimo compleanno, nove anni fa, aveva salutato più o meno gentilmente la chiesa cattolica. Per sempre. Addio e a mai più arrivederci, aveva detto Eugen Drewermann, prete spretato, sospeso, cacciato e oracolo vivente per tutta quella galassia di riformatori borderline che sognano una chiesa dove tutto è più o meno lecito e dove – magari – si mette perfino in dubbio la parola di Gesù Cristo, cioè dell’unigenito figlio di Dio nato dal Padre prima di tutti i secoli. Tornato ai suoi studi e alle teorie naïf che negli anni Ottanta fecero strabuzzare gli occhi perfino al Joseph Ratzinger prefetto supremo della congregazione per la Dottrina della fede, Drewermann ha fatto nuovamente parlare di sé nella fatata cornice dell’abbazia di Sankt Lambrecht, un punto immerso nel verde dei boschi della Stiria, nell’Austria profonda e silenziosa. Lì il prete non più prete ha tenuto dal 29 giugno al 2 luglio scorso gli esercizi spirituali a due comunità di monaci benedettini, quella locale e quella ben più celebre di Melk, resa immortale nella letteratura dall’Adso protagonista-narratore del “Nome della Rosa”. 
E’ stato l’abate in persona, l’inflessibile dom Georg Wilfinger, riconfermato dal Capitolo pochi mesi fa per l’ennesimo mandato, a invitare Drewermann perché guidasse le meditazioni della comunità. E pazienza se il suo profilo non sia proprio in linea con l’ortodossia cattolica, se per lui “la convinzione che Gesù abbia fondato una chiesa è grottesca, visto che Cristo non era né cattolico né protestante”. Perfino qualche monaco, tra una lectio divina e una compieta, ha osato far presente al padre abate che forse era meglio lasciar perdere, che non era il caso di invitare a predicare un tipo con idee siffatte. Suppliche messe a tacere in modo tutt’altro che bonario, raccontano per quanto possono benedettini nostalgici degli antichi fasti della millenaria Melk, che con i suoi stucchi e i suoi ori, con i suoi canti in gregoriano innalzati tra le volute d’incenso suscitava impressione a ogni visitatore ricco o povero, portato a contemplare in tutta la sua grandezza il mistero e la gloria divina. Niente da fare, ha risposto Wilfinger, che qualcuno tra i suoi confratelli reputa un po’ troppo mondano per guidare un’istituzione così importante come l’antica abbazia della Bassa Austria fondata nel 1089 dal margravio Leopoldo II: semel abbas semper abbas, un abate è per sempre. Lo dice la Regola, quella di san Benedetto. La croce dorata – che lui rifiuta, preferendone una in pesante ferro battuto – ce l’ho solo io e qui comando io. E così è stato.
Con dom Wilfinger è meglio non discutere, si accalora subito e fa valere l’autorità. In passato s’è messo contro il vescovo di St. Pölten e perfino contro l’eminentissimo principe Christoph von Schönborn, arcivescovo della Vienna cattolica che vende le chiese ormai vuote agli ortodossi e che non sa come tirare avanti. Colpevoli, tutti, di essere troppo fedeli al Magistero romano, di limitare la libertà individuale dei sacerdoti e di essere incapaci di trovare la propria via. Pericolosi reazionari, dunque, che si permettono di giudicare quel povero monaco di Melk che vivrebbe – dicono i bene informati – con una compagna nelle celle dell’abbazia, con tanto di intima alcova riservata. Non è un caso che il padre abate sia un idolo per tutto quel mondo – confuso ma di dimensioni non irrilevanti – che pressa Roma non solo per aggiornare allo Zeitgeist, lo spirito del tempo, l’insegnamento cattolico in fatto di morale, bensì per ribaltarlo, cambiando la dottrina a seconda delle comprensibili mutate esigenze della contemporaneità.
L’imbarazzo tra la comunità ha però continuato a serpeggiare, tanto che qualcuno ha fatto sapere all’esterno che lì dentro a sermoneggiare c’era proprio Drewermann. E l’abbazia prima negava, poi si trincerava dietro il rituale no comment e alla fine confermava. Con orgoglio, smentendo però che all’ospite dell’abate fosse stata corrisposta la cifra di ottomila euro per le quattro giornate di esercizi spirituali: pagate solo le spese di viaggio, assicurano a Melk. Indignato per le polemiche s’è detto padre Jeremia Eisenbauer, tra le guest star della Pfarrerinitiative, l’appello alla disobbedienza da tempo lanciato da Helmut Schüller e da qualche centinaio di parroci austriaci dissidenti e disobbedienti, desiderosi di musealizzare il celibato sacerdotale come anticaglia superata, al pari dei flabelli, della tiara papale e della sedia gestatoria. Eisenbauer, che con l’abate di Melk condivide una più che originale linea pastorale, ha confermato tutto, dal principio alla fine, dall’alfa all’omega: Drewermann è stato a Melk, ha predicato ai monaci, ha illustrato i suoi pensieri. Qualche fedele s’è detto indignato? Il vescovo è stato allertato e messo sul chi va là? La scure della Roma-nuova-Babilonia è già pronta a tagliare teste? E chi se ne importa: “Non ci fanno paura, non siamo una scuola materna e non prendiamo ordini da nessuno; nessuno ci può dire chi invitare e chi no”, ha chiarito padre Jeremia ai media tedeschi. E poi, ha detto ancora, anche “i monaci più anziani, inizialmente scettici, alla fine erano eccitati” per l’esperienza vissuta con Drewermann.
Qualcuno, chi può dirlo, forse s’è pure convertito all’idea che la verginità di Maria, definita per l’appunto Vergine e Madre di Dio, sia una favola, un mito orientale (forse egizio) da cui avrebbero preso spunto Luca e Matteo per i loro Vangeli. Dopotutto, la psicologia del profondo junghiana – vera ispirazione per l’ospite dell’abate Wilfinger – è sensibile a quanto teorizzavano i teosofi ottocenteschi, e cioè l’unità tra i miti antichi e i racconti cristiani, da cui dipenderebbero. Che il concepimento verginale di Gesù da parte di Maria sia verità di fede, poco importa, a quanto pare. “Nelle tradizioni dei popoli si racconta continuamente di nascite verginali e di figli di Dio che vengono dal Cielo”, osservava Drewermann tempo fa. Insomma, questa Maria immacolata e sempre vergine alla fine è diventata una sorta di mito, idealizzata nei suoi manti dorati.
Se padre Jeremia, rimanda al mittente le critiche, qualche cattolico austriaco ancora non ammorbato dalle iniziative dei preti ribelli pronti alle nozze ha però preso carta e penna e ha scritto una lettera di protesta con un unico destinatario: il Palazzo del Sant’Uffizio, e in particolare l’ufficio dove siede e lavora il cardinale prefetto Gerhard Ludwig Müller, colui che il teologo Hans Küng definì una “disgrazia” non appena dal Vaticano fecero sapere al mondo che Benedetto XVI aveva scelto il vescovo di Ratisbona come successore dell’americano William Levada. Una visita a Melk, forse, sarebbe opportuna, scrivono i fedeli al cardinale prefetto. Anche perché, si lascia scappare qualche monaco, il professor Drewermann avrebbe anche celebrato la messa. Nonostante tutte le reprimende, gli avvertimenti e le condanne che gli pendono sulla testa. Nonostante, soprattutto, lui prete non lo sia più. Nel 1991 fu privato, dall’allora vescovo di Paderborn, della licenza per l’insegnamento di Teologia presso il locale seminario (incarico che deteneva dal 1979). L’anno dopo fu sospeso a divinis, quindi ridotto allo stato laicale. Già nel 1986 le tesi dell’allora padre Drewermann – che è anche psicoterapeuta assai apprezzato nel mondo mitteleuropeo, dove ha pubblicato una settantina di libri – furono portate all’attenzione del cardinale Ratzinger, che dopo aver letto la summa del pensiero del professore psicoterapeuta, scrisse preoccupato al vescovo di Paderborn, il futuro cardinale Johannes Joachim Degenhardt, chiedendogli di indagare.
In effetti, Ratzinger aveva più d’un motivo per interessarsi al caso-Drewermann, visto che già allora il sacerdote psicoterapeuta lanciava strali contro la chiesa cattolica incapace – a suo dire – di entrare in contatto con il disagio spirituale delle persone: “Per me sono centrali anche il mantenimento della pace, la difesa dell’ambiente e degli animali. Il pacifismo, il vegetarianesimo e una relativizzazione dei diritti dell’Homo sapiens rispetto alla sopravvivenza degli animali non sono mai stati presi sul serio dalla chiesa”, avrebbe confermato molti anni dopo quel primo confronto ideale con il futuro Benedetto XVI.
A tagliare irrimediabilmente il legame tra lo psicoterapeuta e Roma fu la sua opera più nota, “Funzionari di Dio: psicogramma di un ideale” seicentosessantaquattro pagine che si ripromettono di far luce sulla formazione e le funzioni sacerdotali alla luce della psicologia del profondo. La tesi è che chi va in Seminario lo fa per fuggire la propria sessualità, cercando rifugio nell’odiato apparato-chiesa, ridotto a una sorta di nido. Pieno d’insidie però, visto che determinerebbe nei sacerdoti novelli una nevrosi dovuta allo studio indefesso matto e disperatissimo degli elementi fondamentali della dottrina cattolica. Tutta roba che sarebbe da eliminare, scrive l’autore.
“E’ grave – diceva qualche anno fa in un’intervista al periodico tedesco Publik-Forum e ripresa a suo tempo dall’agenzia Adista – la schizofrenia che il dogma ecclesiale provoca consapevolmente”, e cioè “che l’interpretazione della Bibbia e dei contenuti della fede cristiana non deve essere fatta a livello simbolico, ma soltanto ideologico, nel senso di dogmi oggettivi o fatti storici”. E poi, spiegava ancora Drewermann, fa ridere e sconcerta che “l’illuminismo filosofico del XVIII secolo” non abbia ancora raggiunto Roma, il Vaticano, la chiesa cattolica. A dire il vero, non l’ha raggiunto neppure l’illuminismo psicologico.
Basti guardare al fenomeno degli esorcismi, ai moniti sulla presenza del male, del Diavolo tentatore, principe di questo mondo e così spesso citato anche dal Papa Francesco. Superstizioni da Medioevo e nulla più: “Solo sotto il pontificato di Givanni Paolo II, in Vaticano hanno avuto luogo trentamila esorcismi. Come si può leggere il messaggio di Gesù in modo terapeutico, se la psicologia delle persone diventa una demonologia della carne? Così non si rende giustizia alla Bibbia e alla fede”. Bibbia che, tra l’altro, in nome della esegesi moderna, sarebbe più o meno un insieme di simboli anziché un racconto storico. Alla fine, osserva Drewermann, “non rimane che una scelta: o credere in modo ingenuo e conforme al sistema, o scivolare in modo illuminato nell’incredulità”. Il fatto è che la chiesa romana altro non vuole che “la superstizione, l’alienazione, l’arrendevolezza, la dipendenza”. Per meglio manipolare i fedeli, gli adepti, naturalmente, visto che “le richieste di Gesù si trovano in un rapporto grottesco rispetto al comportamento della chiesa romana”. E poi, “è un errore totale delegare la soggettività, che appartiene alla fede, a determinate formule e riti della chiesa”.
Una via di salvezza per il cattolicesimo ci sarebbe, però. Basterebbe prendere spunto da Lutero: “Per diventare cristiana, Roma deve imparare ad assimilare le richieste della Riforma”. Concilii, sinodi, assemblee lasciano il tempo che trovano, spiega Drewermann: “C’è stata solo una Riforma, quella del 1517. Tre anni dopo, il riformatore Lutero si recò alla dieta di Worms e dichiarò: ‘Io sto qui come persona, e dico quello che vedo, penso, sento e credo’. Punto! Così iniziano le riforme. Non organizzando maggioranze. Non vi è alcun cristianesimo senza la libertà della vita individuale! Il mio problema è che nessuno può aspettare che un’autorità romana gli consenta o meno di vivere la sua vita”. Di mezzo, ça va sans dire, la questione del celibato sacerdotale: “Che uno si debba separare o no o che sposi un’altra donna non può dipendere dalla capacità di comprensione di Roma. Deve saperlo da sé”. Si comprende bene, allora, perché i primi a scendere in piazza contro la sua sospensione a divinis e conseguente riduzione allo stato laicale siano stati gli aderenti al movimento transnazionale progressista “Noi siamo chiesa”, capeggiato da Martha Heizer, la professoressa in pensione di Innsbruck recentemente scomunicata assieme al marito perché rea d’aver celebrato messa nel proprio salotto, tra credenze e divani, davanti a un pubblico di compaesani commosso dall’evento. Per difendersi dalla scomunica, Heizer ha fatto sapere che alle sue messe partecipava pure il vecchio parroco. Naturalmente, essendo defunto, non può confermarlo.
Follie, direbbe il Drewermann che detesta i dogmi e dice d’avere “comprensione per chi fa la comunione anche se ufficialmente non potrebbe”. Lui però non ha ceduto, non s’è accostato al sacramento dopo le punizioni romane. Non per intima convinzione, sia chiaro, ma solo perché “ero un personaggio pubblico di questa chiesa” e “in qualche modo dovevo prendere sul serio questo sistema chiesa”. E l’addio al cattolicesimo come regalo che s’è fatto per il sessantacinquesimo compleanno? “Quella è stata una notifica di pensionamento. Per ricevere la mia miserabile pensione, ho dovuto sottoscrivere una dichiarazione, in cui affermavo che non avrei mai più esercitato il mio sacerdozio. E così io adesso non dovrò mai più rappresentare ciò in cui non mi sento più rappresentato. Vorrei questa libertà per ciascuno”. Anche la libertà, magari, di valutare l’emigrazione in altri lidi confessionali più consoni alle proprie inclinazioni: “Gli evangelici? Affermano molte cose che per me sono essenziali, a cominciare dal riconoscimento dell’assoluta necessità della grazia per tutte le questioni di morale e giustizia”. Alla fine, però, neanche lì Drewermann ha trovato l’habitat ideale per le sue ricerche e meditazioni: “E’ semplice essere membri di una istituzione, ma diventare cristiani è qualcosa d’altro”.