ALLA SUA PRESENZA
di Mons. Nicola Bux
Gian Arturo Ferrari, firma del Corriere della Sera, ha
osservato: “C'è una concezione del mondo religioso che di religioso non ha
nulla. Penso a qualche funzione religiosa a cui ho partecipato di recente. Il
modello era la tv”. E' una verità amara, ogni qualvolta si assiste ad una
liturgia che invece di essere “azione sacra per eccellenza”, come la
Costituzione liturgica la definisce (SC 7), è trasformata in show; sta
ricordarlo l'uso di un verbo tipico delle feste dei villaggi turistici:
animare. Si osservi quel che accade, in occasione delle prime comunioni. Alcuni
sacerdoti collocano in chiesa, al posto dei banchi, più tavolini apparecchiati,
oppure un grande tavolo, di quelli comunemente usati per le feste nelle sale
parrocchiali, in modo da dare l'idea della 'tavolata'. I bambini vengono fatti
sedere attorno, e davanti a ciascuno è posta una patena con un'ostia da
consacrare. Su un altro tavolino, all'angolo, sta il calice col vino. Alla
consacrazione, ciascun fanciullo toglie il velo dalla patena. Il sacerdote
consacra, poi passa dai bambini e ciascuno di essi, in piedi, self-service,
prende la sua ostia dalla sua patena, la intinge nel calice che gli porge il
sacerdote e si comunica. Poi si siede. Una variante è che l'ostia, non si trovi
nella patena davanti al bimbo, ma gliela passi, poi, il sacerdote, ed il
bambino la intinga nel calice e si comunichi. Un sintomo di quella che è stata
definita la “nuova religione dell'autodeterminazione”? Il Messale Romano,
promulgato da Paolo VI, ammonisce: «Non è consentito ai fedeli di “ prendere da
sé e tanto meno passarsi tra loro di mano in mano” (Institutio Generalis del
Messale Romano, 118) la sacra ostia o il sacro calice. In merito,inoltre,
va rimosso l'abuso che gli sposi si distribuiscano in modo reciproco la santa
Comunione» (Istruzione Redemptionis Sacramentum 94). Ancora
«Non si permetta al comunicando di intingere da sé l'ostia nel calice, né di
ricevere in mano l'ostia intinta» (Ivi, 104). Un altro abuso frequente è la
distribuzione della Comunione da parte di accoliti e ministri straordinari, –
anche se vi sono sacerdoti e diaconi, ministri a ciò deputati – cosa prevista
solo in caso di una grande folla, cioè, almeno cinquecento fedeli, che si
accostassero tutti al sacramento! Eppure, nell'Istruzione Redemptionis
Sacramentum, richiesta da Giovanni Paolo II nell'Enciclica sull'Eucaristia,
si ammonisce: «E' riprovevole la prassi di quei Sacerdoti che, benché presenti
alla celebrazione, si astengono comunque dal distribuire la
Comunione,incaricando di tale compito i laici» (RS 157) e poi: «Il ministro straordinario
della santa Comunione, infatti, potrà amministrare la santa Comunione soltanto
quando mancano il Sacerdote o il Diacono, quando il Sacerdote è impedito da
malattia, vecchiaia o altro serio motivo o quando il numero dei fedeli che
accedono alla Comunione è tanto grande che la celebrazione stessa si
protrarrebbe troppo a lungo. Tuttavia ciò si ritenga nel senso che andrà
considerata motivazione del tutto insufficiente un breve prolungamento, secondo
le abitudini e la cultura del luogo» (RS 158; cfr 88 e 154). Alcune
considerazioni:
1. La 'tavolata' è un grave errore teologico-sacramentale, causato
dall'idea che la Messa sia la riproposizione dell’ultima cena. Non pochi studi
hanno cercato di chiarirlo, non ultimi quelli di Joseph Ratzinger. La cena celebrata
da Gesù alla vigilia della pasqua ebraica non è ancora una liturgia cristiana,
come prova il fatto che solo le due benedizioni sul pane che diventa corpo dato
per noi e sul vino che diventa sangue versato per noi, sono state conservate
dalla tradizione apostolica e inserite in un grande “preghiera di benedizione”
o supplica di ringraziamento, in greco eucaristia, a Dio Padre
nello Spirito Santo, fatta in nome di Gesù Cristo il Figlio, incarnato e
sacrificato per noi. Quanto ha fatto il Signore nel contesto dell’ultima cena è
una novità, per questo: «l’ultima cena fonda il contenuto dogmatico
dell’eucaristia cristiana, ma non la sua forma liturgica». In altri termini:
«Quella cena per noi cristiani non è più necessario ripeterla…Il memoriale del
suo dono perfetto, infatti, non consiste nella semplice ripetizione dell’ultima
cena, ma propriamente nell’eucaristia, ossia nella novità radicale del culto
cristiano […] La conversione sostanziale del pane e del vino nel suo corpo e
nel suo sangue pone dentro la creazione il principio di un cambiamento, come
una sorta di “fissione nucleare”, per usare un’immagine a noi oggi ben nota,
portata nel più intimo dell’essere, un cambiamento destinato a suscitare un
processo di trasformazione della realtà, il cui termine ultimo sarà la
trasfigurazione del mondo intero, fino a quella condizione in cui Dio sarà
tutto in tutti (cfr 1 Cor 15,28)» (SCa, 11). Nell’eucaristia «Gesù ha
anticipato il suo sacrificio, un sacrificio non rituale, ma personale». Nello
stesso tempo l’eucaristia è attesa della cena che il Signore appresterà al suo
ritorno alla fine del mondo.
Dunque, prefigurata nel sacrificio del tempio, nel “servo sofferente” di
Isaia, nella cena pasquale degli ebrei, la forma originale della messa è l’eucaristia,
cioè la preghiera di ringraziamento che trasforma la mia esistenza; è
l’obbedienza di Gesù Cristo al Padre, perciò è sacrificio e pasto dei
riconciliati. In relazione alla passione di Cristo, in cui il sangue era
separato dal corpo, il concilio di Trento definisce la santa messa “vero e
proprio sacrificio” di Gesù Cristo. Egli si rende presente sull'altare – alta-res,
luogo alto per il sacrificio – in obbedienza alle parole consacratorie del
sacerdote, e, a causa della separazione del corpo dal sangue, è nella
condizione di vittima immolata (immolatitius modus: cfr Pio
XII,Enciclica Mediator Dei, 70). Per questo, l'altare è anche mensa dell'Agnello
immolato (cfr Ap 5,6), per ricevere il pane, separatamente, come sacramento del
corpo e il vino come sacramento del sangue (cfr san Tommaso d'Aquino,Summa
Theologiae III q 74 a.1 sc). Tutto questo è riaffermato dal Catechismo
della Chiesa Cattolica (CCC 1365). Sebbene l’espressione “cena del
Signore” sia uno dei modi di chiamare l’eucaristia, in realtà si riferisce alla
cena escatologica dell’Agnello, come esclama il sacerdote alla Comunione: Beati
qui ad coenam Agni vocati sunt. La dimenticanza o l’ignoranza di tutto
questo, finisce per separare la Messa dal sacrificio della croce e ridurre
l’eucaristia ad un banchetto fraterno. Non si dimentichi, poi il divieto di
Paolo di unire la frazione del pane all’agape, cena di carattere
religioso-sociale, tanto forte era ancora l’influsso pagano di fraintendere
l’eucaristia come un banchetto dal quale inevitabilmente poi scaturivano abusi
e licenze. Nelle due forme della messa bizantina, la “divina liturgia di San
Giovanni Crisostomo” e quella “di San Basilio”, il concetto di cena o di
banchetto è chiaramente subordinato a quello di sacrificio, proprio come nel
nostro canone romano.
2. La 'tavolata' è anche un deplorevole abuso liturgico: sostituisce
l'altare, al quale il popolo di Dio è chiamato a partecipare (cfr Institutio
Generalis del Messale Romano, Ed.typ. III, 296). Cos'è l’altare e perché si
usa? Nella tradizione giudaica v’era l’altare dei sacrifici – la parte
superiore per l'immolazione delle vittime – e la tavola dei pani da offrire.
Col cristianesimo, l’altare dei sacrifici nel cortile del tempio e la tavola
delle offerte all’interno, vengono resi, nelle chiese, con una composizione
sintetica: l’altare rappresenta Cristo, la croce e ad un tempo il suo sepolcro
(cfr CCC 1182); è anche la mensa del Signore (cfr Eb 13,10) dalla quale
scaturiscono i sacramenti del mistero pasquale. E’ la parte più santa del
tempio ed è elevato, alta res, posto in alto per indicare l’opera
di Dio che è superiore a tutte le opere dell’uomo. Non deve essere poggiato sul
piano del pavimento, ma almeno elevato su un gradino, affinché ricordi il
Golgota dovendosi su di esso rinnovare il sacrificio che Gesù compì sulla
croce. Per questo è sempre rivestito di tovaglie, che indicano la purezza
necessaria per accogliere Dio; in quella bizantina l’altare è coperto con un
velo, quasi una dalmatica diaconale annodata sui quattro lati, ad indicare Cristo
fattosi servo. Per la liturgia orientale, l’altare non deve essere grande, come
nella tradizione latina più antica, perché è sufficiente che si possa accostare
il celebrante per il sacrificio; poi su di esso ardono lampade e in specie ha
al centro la croce, l’artoforio (tabernacolo) e l’evangelario. In
occidente si ritiene superato tutto questo, nonostante i propositi ecumenici di
“respirare con due polmoni”. Nel post-concilio ha prevalso la tendenza ad
avvicinare l’altare al popolo. In realtà, non è l’altare che si deve avvicinare
al popolo, ma il popolo all’altare: i movimenti processionali di introito, di
offertorio e di Comunione, come dicono i salmi, significano l'andare alla
presenza del Signore, per offrire i santi doni e comunicarsi a lui.
3. Il rapporto tra sacrificio eucaristico, “festa”, “comunità”,
elemento umano e divino nella Messa. Una prima questione, riguarda le
caratteristiche del sacramento eucaristico: è una cena o un sacrificio? Così
risponde ilCatechismo: “La Messa è ad un tempo e inseparabilmente il
memoriale del sacrificio nel quale si perpetua il sacrificio della croce,e il
sacro banchetto della Comunione al corpo e al sangue del Signore”. Non è solo
un accostamento, poiché vi è un nesso intimo tra cena e sacrificio. Infatti: “La
celebrazione del sacrificio eucaristico è totalmente orientata all'unione
intima dei fedeli con Cristo attraverso la Comunione. Comunicarsi è ricevere
Cristo stesso che si è offerto per noi” (CCC 1382). Certo, il termine memoriale può
essere inteso come ricordo di un fatto passato. Non è così, grazie allo Spirito
Santo che ci ricorda ogni cosa (cfr Gv 14,26); l'eucaristia fatta dalla Chiesa
rende presente e attuale la pasqua di Cristo e il suo sacrificio offerto una
volta per tutte (cfr CCC 1364). Rende presente anche la risurrezione? Col
battesimo e soprattutto con l'eucaristia, il cristiano soffre e muore con
Cristo, mentre della risurrezione riceve il germe che si svilupperà in pienezza
alla fine dei tempi, secondo la parola del Signore: “io lo risusciterò
nell'ultimo giorno”(Gv 6,40). Ma finché siamo “nella carne”, noi partecipiamo
alla sua passione e attendiamo, nella fede e nella speranza, il giorno della
glorificazione. Inoltre, si tratta di sacro banchetto, o
convito, nel quale si riceve Gesù Cristo,si fa memoria della sua passione, il
cuore si riempie di grazia: viene dato l'anticipo della gloria futura. Sacro
significa che c'è la sua presenza divina e quindi bisogna avvicinarsi con quel
timore di Dio, che è uno dei sette doni dello Spirito Santo.
Il sacrificio sacramentale è definito eucaristia, termine greco che vuol
dire azione di grazie o benedizione, memoriale e presenza di lui, operata dalla
potenza della sua parola e dallo Spirito Santo; il tutto culmina nella
Comunione. E' festain senso spirituale, non mondano: non vive di
trovate accattivanti, non deve esprimere l’attualità effimera, non è un
intrattenimento che deve aver successo, ma ravvivare la coscienza che il
mistero è presente tra noi. E' festa della fede, in cui deporre, come dice la liturgia
bizantina, ogni mondana attitudine, perché “misticamente rappresentiamo i
cherubini”(tropario d'offertorio). Il dramma giunge al suo culmine: l’altare su
cui s’innalza la croce diventa ora la mensa dell’Agnello immolato ma vivo. Il
sacrificio del corpo e del sangue misticamente anticipato nella cena e compiuto
sul Golgota, ora è approntato come cibo e bevanda per i fedeli perché entrino
in intima unione con la vittima divina. Come gli apostoli la domenica di Pasqua
siamo nel cenacolo col Signore ormai risorto che mostra le piaghe gloriose e ci
invita al convito.
La familiarità con lui provoca stupore e gioia, ma non consente banalità
come il trasformare l’altare in tavola da pranzo a cui far accedere i fedeli.
Egli è il Signore, e il convito «resta pur sempre un convito sacrificale,
segnato dal sangue versato sul Golgota. Il convito eucaristico è davvero un
convito “sacro”, in cui la semplicità dei segni nasconde l’abisso della santità
di Dio: O Sacrum convivium, in quo Christus sumitur!» (Giovanni
Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, 48). Trasformare l'altare in una
'tavolata', significa favorire nei piccoli un'idea distorta della Comunione, la
quale discende dall'alto della Trinità e non dal basso del nostro stare
insieme.
4. Come accostarsi alla Comunione, a cominciare dalla 'prima'.
Proprio ai nostri giorni, che vedono i piccoli particolarmente precoci e
attenti, alle lingue come al web, li immergiamo nella banalità; gli impediamo
di partecipare a liturgie solenni con il pretesto di peculiari esigenze
psicologiche, pensando che non capiscano e invece li si priva dell’incontro col
mistero divino attraverso lo stupore, il silenzio, l’ascolto, la musica sacra,
la preghiera e il ringraziamento, come è avvenuto per noi da piccoli, e siamo
cresciuti nella fede attraverso la partecipazione alla liturgia cattolica della
Chiesa, col suo respiro universale. I piccoli non desiderano diventare grandi e
stare con i grandi? La prima Comunione significa che è da lui, dal Signore,
che, a conclusione dell’iniziazione, noi riceviamo un posto alla sua mensa, per
la prima Comunione con lui, qui e per l'eternità. Gesù l’ha promesso: “Io vi
preparo un posto”: questo comincia, quaggiù, con l’essere divenuti capaci,
mediante il battesimo e la cresima, di riconoscerci figli in lui Figlio e
quindi rendere grazie a Dio Padre. Nel rito romano antico, i fedeli si
accostano alla balaustra, in ginocchio, dove spesso è distesa una tovaglia che
rappresenta la mensa, il banchetto, e ognuno ha un posto: si inginocchia e
attende in raccoglimento di ricevere la Comunione. Un gesto significativo è
l'uso di nascondere le mani sotto la tovaglia – l’ho visto fare in Francia dai
bambini e dagli adulti, dopo essersi inginocchiati – indica l’esigenza di
essere puri per toccare il Signore, che ci ha scelti e chiamati con la fede
alla mensa del suo regno, di cui la Comunione è l’anticipo, la caparra,
l'anticipo della gloria futura. La prassi ordinaria – secondo la tradizione
condivisa d'oriente e d’occidente – è che si riceva nella bocca, dopo un atto
di riverenza, un inchino profondo o in ginocchio. Ma non di rado, i fedeli che
vogliano riceverla, così, sono oggetto di bruschi dinieghi, anche scandalosi,
da parte di sacerdoti noncuranti d'avere nelle mani le sacre specie. Eppure, il
modo di riceverla, in piedi e sulla mano, è solo un indulto, ossia un permesso
a tempo. Pertanto, non poteva non suscitare reazioni l''innovazione' di
Benedetto XVI di amministrare la Comunione ai fedeli, in ginocchio e in bocca:
'innovazione', rispetto appunto all'indulto, che in diverse nazioni consente di
riceverla sulla mano. Infatti, si ritiene da non pochi, che solo nella tarda
antichità e nell’alto medioevo, la chiesa d'oriente e quella d'occidente
abbiano preferito amministrarla in tal modo. Ma, Gesù ha dato la Comunione agli
apostoli sulla mano o ha chiesto loro di prenderla con le proprie mani?
Visitando una mostra del Tintoretto a Roma, ho osservato alcune 'Ultime Cene'
in cui Gesù dà la Comunione in bocca agli apostoli: si potrebbe pensare che si
tratti di una interpretazione del pittore ex post, un po' come la
postura di Gesù e degli apostoli, a tavola, nel cenacolo di Leonardo, che
'aggiorna', alla maniera occidentale, l'uso giudaico dello stare invece
reclinati a mensa.
Ora, riflettendo ulteriormente, l'uso di dare la Comunione direttamente in
bocca al fedele può essere ritenuto non solo di tradizione giudaica e quindi
apostolica, ma anche risalente al Signore Gesù. Gli ebrei e gli orientali in
genere avevano e hanno ancor oggi l'usanza di prendere il cibo con le mani e di
metterlo direttamente in bocca all'amata o all'amico. Anche in occidente lo si
fa tra innamorati e da parte della mamma verso il piccolo, ancora inesperto. Si
capisce così il testo di Giovanni: "Gesù allora gli (a Giovanni) rispose:
'E' quello a cui darò un pezzetto di pane intinto'. Poi, intinto un pezzetto di
pane, lo diede a Giuda di Simone Iscariota. E appena preso il boccone, Satana
entrò da lui" (13,26-27). Che dire però dell'invito di Gesù:
"Prendete e mangiate"... "Prendete e bevete"? Prendete (in
greco: labete; in latino: accipite), significa anche
"ricevete". Se il boccone è intinto, non lo si può prendere con le
mani, ma ricevere direttamente in bocca. Vero è che Gesù ha consacrato
separatamente pane e vino. Ma, se durante il 'mistico convito' – come lo chiama
l'oriente, ossia l'ultima cena – i due gesti consacratori avvennero – come
sembra – in tempi diversi della cena pasquale, dopo la pentecoste – allorché
gli apostoli, aiutati dai sacerdoti giudaici che si erano convertiti (Atti
6,7), quali esperti diremmo così nel culto – li unirono all'interno della
grande preghiera eucaristica, la distribuzione del pane e del vino consacrati
fu collocata dopo l'anafora, dando origine al rito di Comunione.
Tutto ciò rende più comprensibile la sentenza di sant'Agostino: “nessuno
mangia quella carne, se prima non ha adorato” (Enarrationes in Psalmos 98,9).
Benedetto XVI l'ha richiamata, significativamente, proprio nel noto discorso
sull'interpretazione del Vaticano II (cfr anche Esortazione apostolica Sacramentum
Caritatis, 67). Ancora più esplicito Cirillo invita a "non stendere le
mani, ma in un gesto di adorazione e venerazione (tropo proskyniseos ke
sevasmatos) accostati al calice del sangue di Cristo" (cfr Catechesi
Mistagogica 5,22). Di modo che, chi riceve la Comunione faproskinesis,
la prostrazione o inchino fino a terra – simile alla nostra genuflessione –
protendendo allo stesso tempo le mani come un trono, mentre dalla mano del
Signore riceve, in bocca, la Comunione. Così sembra efficacemente raffigurato
dal Codice purpureo di Rossano, datato tra la fine del V e l'inizio
del VI secolo d.C., un evangelario greco miniato, composto sicuramente in
ambiente siriaco. Dunque, non deve meravigliare il fatto che la tradizione
pittorica orientale e occidentale,dal V al XVI secolo abbia raffigurato Cristo
che fa la Comunione agli apostoli direttamente nella bocca. Benedetto XVI, in
continuità con la tradizione universale della Chiesa, ha ripreso il gesto:
perché non imitarlo? Ne guadagnerà la fede e la devozione di molti verso il
sacramento della Presenza, specialmente in un tempo dissacratorio, come quello
odierno.
Al di là della discussione storico-teologica, circa il modo in cui in
antico si riceveva la Comunione, mettersi in ginocchio per ricevere il
sacramento non è in contrasto con la processione prevista nel rito ordinario.
L'uso della Comunione sulla mano porta anche a riflettere sui frammenti che
spesso cadono, senza essere raccolti in un vassoio sottostante. In molte
parrocchie, i corporali, restano aperti da una Messa all'altra, da un giorno
all'altro, con i frammenti eucaristici, perché alcuni sacerdoti sostengono che
siano "cellule morte" (qualcuno arriva a dire, all'atto della
consacrazione, "lui non consacra i frammenti": non l'avevo mai
sentita, ma è un'eresia). Non siamo pronti a dare ad un ammalato che non può
deglutire un piccolo frammento di particola? La daremmo se non fosse corpo di
Cristo? Forse che una briciola di pane è di sostanza differente dal pane
intero? I sacerdoti sanno che la validità della Messa, oltre che dalla materia
e dalla forma, dipende dall'intenzione che essi mettono, di fare quello che fa
la Chiesa. Il corporale è molto importante, come attesta Orvieto, sia perché si
consacrano solo le ostie e il vino che si trovano all'interno del corporale,
non sulla tovaglia, sia per raccogliere i frammenti. Non prevalgano l'ignoranza
e la presunzione, ma si attinga alla Scrittura e ai Padri, come Ambrogio e
Crisostomo! Il Signore è presente (cfr CCC 1377) - come dice san Tommaso - nel
sacramento dell’eucaristia, non secondo il modo della quantità, ma secondo il
modo della sostanza: in una goccia di sangue, in una goccia di vino, o in un
frammento di ostia c’è tutta la presenza del Signore; non c’è bisogno di molto
vino perché il Signore sia presente, proprio come in una goccia di sangue c’è
tutta la sostanza del sangue. L'ignoranza della dottrina eucaristica cattolica,
porta a ritenere che i frammenti siano insignificanti e, di conseguenza, non si
purificano i vasi sacri. Eppure, in extremis, quando il sacerdote si accorge
che le particole sono insufficienti per la Comunione, usa spezzarle
ulteriormente per dare la Comunione, pur con un frammento! Nell'attuale crisi
di fede, anche la questione dei frammenti va chiarita e riaffermata,
condannando gli abusi, in quanto non c'è differenza tra particole, particelle e
frammenti di ostia.
Lo scoglio da superare, resta il dissenso sulla natura della liturgia. «La
crisi della liturgia, e quindi della Chiesa, in cui continuiamo a trovarci –
afferma Ratzinger – è dovuta solo in minima parte alla differenza tra vecchi e
nuovi libri liturgici. Si rende sempre più chiaro che sullo sfondo di tutte le
controversie è emerso un profondo dissenso circa l'essenza della celebrazione
liturgica, la sua derivazione, il suo rappresentante e la sua forma corretta.
Si tratta della questione circa la struttura fondamentale della liturgia in
genere; più o meno consciamente si scontrano qui due concezioni diverse. I
concetti dominanti della nuova visione della liturgia si possono riassumere
nelle parole-chiave “creatività”, “libertà”, “festa”, “comunità”. Da un tale
punto di vista, “rito”, ''obbligo”, “interiorità”, “ordinamento della Chiesa
universale” appaiono come i concetti negativi, che descrivono la situazione da
superare della “vecchia” liturgia». Klaus Gamber, studioso della liturgia
romana e delle liturgie orientali di Ratisbona, «percepiva che abbiamo
nuovamente bisogno di un inizio dall'interiorità, come lo intendeva il
Movimento liturgico nella sua parte più nobile». Ratzinger ne condivide
l'analisi: «La riforma liturgica, nella sua concreta esecuzione, si è sempre
più allontanata da questa origine. Il risultato non è rianimazione ma
devastazione. [...] una liturgia degenerata in spettacolo, in cui si cerca di
rendere interessante la religione con trucchi alla moda e con moralismi
spigliati, che registrano successi momentanei nel gruppo dei promotori e un
allontanamento ben più vasto da parte di tutti coloro che nella liturgia non
cercano il loro show master spirituale, bensì l'incontro con
il Dio vivente davanti al quale il nostro affaccendarsi diventa irrilevante, e
che può dischiudere a tutti la vera ricchezza dell'essere».
Nicola Bux
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