Su segnalazione, riportiamo
l'articolo, pubblicato su "Il Foglio", del prof. Roberto De Mattei,
lo scorso 12 luglio, per utili e stimolanti spunti di riflessione.
Il
Conciliatore
di Roberto de Mattei
Storico tradizionalista riconosce a Papa Francesco il merito di avere riaperto il dibattito sul Vaticano II. Per uscire dal Grande Equivoco
Il Concilio
Vaticano II è stato un Concilio “tradito”? E da chi? La domanda è pertinente,
all’indomani della pubblicazione dell’Instrumentum Laboris,
il documento vaticano che avvia la discussione del prossimo Sinodo sulla
famiglia. I testi citati dall‘Instrumentum Laboris sono
infatti solo conciliari e postconciliari, come se sul tema, oggi cruciale,
della famiglia, ci sia stata una radicale svolta del Magistero della Chiesa
dopo gli anni Sessanta.
La scuola di
Bologna non ha dubbi: questa svolta teologica e pastorale ci fu, ma Paolo VI ne
soffocò la spinta. Tutto l’impianto della Storia
del concilio Vaticano II curata da Giuseppe Alberigo si gioca sulla
contrapposizione tra il “profeta”, Giovanni XXIII, che inaugurò la “nuova
Pentecoste” della Chiesa, e il gelido burocrate Giovanni Battista Montini che
la affossò. Dietro questa lettura storica del Vaticano II, oggi riproposta
dagli epigoni di Alberigo, come Alberto Melloni, Giuseppe Ruggieri e Massimo
Faggioli, sta la teologia novatrice di Dominique-Marie Chenu, Yves Congar e
soprattutto Karl Rahner. Fin dal 1965, durante le ultime settimane della
sessione finale, il gesuita tedesco, in una conferenza dal titolo “Il
concilio: inizio di un inizio”, presentava il Vaticano II come
l’inizio di una nuova epoca nella storia della Chiesa, destinata a rinnovare la
comunità dei credenti, in maniera analoga a quanto accadde al primo concilio,
quello di Gerusalemme. Paolo VI avrebbe tradito il Concilio con la Nota praevia del 1964, con cui volle circoscrivere
il significato della collegialità introdotta dalla Lumen gentium, e
soprattutto con l’enciclica “repressiva” Humanae
Vitae del 1968.
Le
controversie seguite alla Humanae
Vitae produssero la
prima grande frattura ermeneutica tra i protagonisti del Vaticano II. Nel 1972
fu fondata da Joseph Ratzinger, Hans Urs von Balthasar e Henri de Lubac la
rivista internazionale “Communio”, che si contrapponeva a “Concilium” su cui
scrivevano Karl Rahner, Yves Congar, Eward Schillebeeckx. Fu de Lubac a coniare
l’espressione “paraconcilio” per denunciare quell’atmosfera di febbrile
agitazione che negli anni successivi al Vaticano II portò molti teologi a
forzarne le conclusioni. In una lunga intervista concessa nel 1985 ad Angelo
Scola (Viaggio nel Concilio, suppl. al n. 10 (1985) di “30
giorni”, pp. 6-30), de Lubac descrisse il “paraconcilio” come un movimento di
pressione mediatica che aveva inteso influenzare il Concilio e il postconcilio
su temi quali il primato pontificio e il rapporto della Chiesa con il mondo.
Nello stesso anno, Hans Urs von Balthasar, che nel 1952 aveva invitato, in un
suo libro, ad “Abbattere i bastioni” (tr. it.
Borla, Torino 2008), in un’intervista allo stesso “30 giorni” (Viaggio
nel postconcilio a
cura di A. Scola, Edit, Milano 1985), constatava che tutte le aspettative
conciliari si erano dissolte “in un ottimismo americano”. Il sito Papalepapale ha recentemente ripubblicato un’intervista rilasciata da Balthasar a Vittorio Messori in cui il teologo
tedesco sosteneva che il dialogo si era rivelato “una chimera” e affermava la
necessità di ritornare alla retta dottrina e “al modello tridentino” di
seminario.
L’intervista è, come le precedenti, del 1985, l’anno del Rapporto
sulla fede in cui il
cardinale Ratzinger allora prefetto della Dottrina della Fede proclamava la
necessità di “tornare ai testi autentici del Vaticano II autentico”. Divenuto
Benedetto XVI, Joseph Ratzinger contrappose più volte l’ermeneutica dei testi a
quella dello “spirito”. La sua posizione si è dipanata dal primo celebre
discorso alla Curia del 22 dicembre 2005, all’ultimo, non meno significativo,
del 14 febbraio 2013 al Clero romano. Benedetto XVI vi ribadisce la tesi
secondo cui un Concilio virtuale, imposto dagli strumenti di comunicazione,
avrebbe tradito il Concilio reale, espresso dai documenti conclusivi del
Vaticano II. E’ a questi testi, travisati da un’abusiva prassi postconciliare,
che si dovrebbe tornare per ritrovare la verità del Concilio. Mons. Agostino
Marchetto, definito da Papa Francesco come “il miglior ermeneuta” del Vaticano
II si muove su questa linea, che manifesta ogni giorno di più la sua debolezza.
Il Concilio dei media non fu infatti meno reale di quello dei Padri, al punto
che si potrebbe sostenere la tesi che se Concilio virtuale si ebbe, fu proprio
quello dei 16 documenti ufficiali del Concilio, rimasti nella raccolta dei
testi della Santa Sede, ma mai calati nella concreta realtà storica.
L’opera di
revisione storica e teologica avviata negli ultimi anni del pontificato
benedettino ha aperto però una nuova pista storico-ermeneutica. Il Concilio,
secondo questa prospettiva, non fu tradito né da Paolo VI, né dal “partito
mediatico”, ma da Giovanni XXIII, colui che l’aveva indetto e che lo diresse
fino alla morte, avvenuta il 3 giugno 1963, tra la prima e la seconda sessione
dei lavori. I fatti sembrano confermarlo. Il 25 gennaio 1959, a soli tre mesi
dalla sua elezione al soglio pontificio, Papa Roncalli annunciò l’indizione del
Concilio Vaticano II. La
sorpresa fu grande, ma la preparazione del Concilio durò ben tre anni,
attraverso una fase ante-preparatoria (un anno) e una fase preparatoria (due
anni).
Nella primavera del 1960 si
raccolsero i consilia et vota, cioè le 2150 risposte
ricevute dai vescovi di tutto il mondo, interpellati sui temi della futura
assemblea. Poi tutto questo materiale fu rimesso a dieci commissioni nominate
dal Papa per redigere gli “schemi”
da sottoporre al Concilio. Le commissioni operarono, sotto la supervisione del cardinale Ottaviani,
prefetto del Sant’Uffizio, fino al giugno del 1962. L’imponente lavoro fu
raccolto in 16 volumi contenenti gli schemi di 54 decreti e 15 costituzioni
dogmatiche. Il 13 luglio, tre mesi prima dell’apertura dell’assemblea, Giovanni
XXIII stabilì che i primi sette schemi di costituzione, da lui approvati,
fossero inviati a tutti i Padri conciliari come base della discussione per le
congregazioni generali. Essi
riguardavano: Le fonti della rivelazione; Mantenere
puro il deposito della fede; L’ordine morale cristiano; Castità,
Matrimonio, Famiglia e Verginità; La Sacra Liturgia; I
mezzi di comunicazione; L’unità
della Chiesa con le chiese orientali. Questi documenti, a cui avevano lavorato per
tre anni dieci commissioni, raccoglievano quanto di meglio la teologia del
Novecento avesse prodotto. Erano testi densi e articolati, che entravano
direttamente nel cuore dei problemi del tempo, con un linguaggio chiaro e
persuasivo. Giovanni XXIII li studiò con attenzione
postillandoli, con commenti autografi: “Su tutti gli schemi – ricorda
mons. Vincenzo Fagiolo – a
lato ci sono queste espressioni spesso ripetute: “Bene”, “Optime”. Su uno solo,
quello sulla liturgia, che nel volume figura al quinto posto alle pp. 157-199,
qua e là è scritto sempre di pugno del Papa qualche punto interrogativo in
senso di meraviglia e non approvazione”. Quando nel luglio del 1962
mons. Pericle Felici, segretario del Concilio, gli presentò gli schemi
conciliari da lui rivisti ed approvati, Papa Roncalli commentò con entusiasmo: “Il
Concilio è fatto, a
Natale possiamo concludere!”. In realtà, a Natale di quell’anno
tutti gli schemi del Concilio erano già stati buttati a mare, tranne il De Liturgia,
proprio quello che piaceva meno a Giovanni XXIII, ma l’unico che soddisfaceva i
progressisti. E il Concilio Vaticano II non sarebbe durato tre mesi, ma tre
anni.
Che cosa era
accaduto? Nel mese di giugno 1962 il cardinale Léon-Joseph Suenens nuovo
arcivescovo di Malines-Bruxelles, riunì un gruppo di cardinali al Collegio
belga di Roma, per discutere un “piano” per il prossimo Concilio. Suenens
racconta di aver discusso con loro un documento “confidenziale” in cui
criticava gli schemi predisposti dalle commissioni preparatorie e suggeriva al
Papa di creare, “a suo uso personale e privato”, una
commissione ristretta, “una sorta di brain trust” per
rispondere ai grandi problemi di attualità pastorale. Nel mese di agosto giunse
al Papa anche una supplica del cardinale canadese Paul-Emile Léger, arcivescovo
di Montréal. La lettera era firmata dai cardinali Liénart, Döpfner, Alfrink,
König e Suenens. Il documento criticava apertamente i sette primi schemi che
avrebbero dovuto essere discussi dall’assemblea, affermando che essi non si
accordavano con l’orientamento che Giovanni XXIII avrebbe dovuto dare al
Concilio.
Il Vaticano
II si aprì l’11 ottobre 1962. Il 13 ottobre fu inaugurata la prima
congregazione generale, ma in apertura di seduta avvenne un inaspettato colpo
di scena. L’ordine del giorno prevedeva di votare per eleggere i rappresentanti
dei Padri conciliari nelle dieci commissioni deputate a esaminare gli schemi
redatti dalla commissione preparatoria. Il cardinale Liénart, appoggiato dai
cardinali Frings, Doepfner e Koenig, protestò per la mancata consultazione
delle conferenze episcopali e chiese la loro convocazione prima di votare per
le commissioni. Tutto era stato organizzato dagli esponenti della “nouvelle
théologie”, nella notte precedente, al seminario francese di Santa
Chiara. Il cardinale Tisserant, presidente dell’assemblea, concesse il rinvio e
la consultazione delle conferenze episcopali, chiamate ad indicare le liste dei
nuovi nominativi per le commissioni. Il ruolo delle conferenze episcopali, che
non era previsto dal regolamento, fu ufficialmente sancito. Venne così alla
luce l’esistenza di un partito organizzato, la “Alleanza europea”, che ottenne
la nomina di quasi tutti i propri candidati nelle commissioni. Le conferenze
episcopali erano guidate, più che dai vescovi che ne facevano parte, dai loro
esperti, i teologi, molti dei quali erano stati condannati da Pio XII e si
apprestavano ora a svolgere un ruolo decisivo in Concilio. E poiché tra le
conferenze episcopali la più organizzata era quella tedesca, decisivo fu il
ruolo dei teologi tedeschi. Ma tra i teologi tedeschi uno in particolare si
distingueva: il gesuita Karl Rahner, la cui influenza sul Concilio fu
determinante. Padre Ralph Wiltgen, nella sua fondamentale opera The Rhine flows into the Tiber (New York 1967) lo riassume
efficacemente: “Poiché la posizione dei vescovi di lingua tedesca era
regolarmente fatta propria dall’Alleanza europea e dato che la posizione
dell’Alleanza era a sua volta generalmente adottata dal concilio, bastava che
un solo teologo facesse adottare le proprie idee dai vescovi di lingua tedesca perché
il Concilio le facesse sue. Questo teologo esisteva: era il padre Karl Rahner
della Compagnia di Gesù”. Da quel momento si scrisse del Concilio una storia
diversa.
Per chi
vuole approfondire questa pista, oltre al mio Il
Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta (Lindau,
Torino 2011) consiglio la lettura di alcuni recenti libri che offrono preziosi
spunti su cui meditare. In un volumetto denso e succoso, Il Concilio parallelo. L’inizio
anomalo del Vaticano II (Fede e Cultura, Verona 2014, pp. 125) e
in un più vasto studio, Unam Sanctam. Studio sulle deviazioni
dottrinali nella Chiesa cattolica del XXI secolo (Solfanelli,
Chieti, 2014, pp. 438). Paolo Pasqualucci solleva esplicitamente la questione
del tradimento avvenuto nei primi giorni dei lavori conciliari. Pasqualucci è
un eminente professore di Filosofia del Diritto, che ha insegnato in diverse
università italiane. Come giurista si sofferma soprattutto sulle numerose
illegalità che deviarono il Concilio dal suo corso naturale, facendo naufragare
il lavoro preparatorio e aprendo la strada ai propugnatori della Nouvelle Théologie. “Raramente
– ricorda – un Concilio ecumenico fu preparato con maggior scrupolo,
coscienziosità e rispetto dei diritti e delle opinioni di tutti. Si seguì la
prassi del Vaticano I, elaborandola e perfezionandola” (p. 13). Il rigetto
degli schemi fu un vero e proprio “brigantaggio procedurale”, che Pasqualucci
identifica in questi punti: sabotaggio delle elezioni dei sedici membri di
spettanza del Concilio; inversione dell’ordine del giorno e rinvio delle
votazioni delle commissioni; insabbiamento della discussione in aula dello
schema sulle Fonti della Rivelazione con la conseguente creazione di una
commissione mista, dominata dal cardinale Bea, per il suo rifacimento. Gli schemi
furono rifatti da capo a piedi, con uno spirito e un taglio completamenti
diversi.
Un altro
importante contributo viene offerto da un giovane ma già affermato teologo,
padre Serafino M. Lanzetta, dei Francescani dell’Immacolata, in Il Vaticano II. Un concilio
pastorale. Ermeneutica delle dottrine conciliari (Cantagalli, Siena 2014, pp. 490).
Padre Lanzetta utilizza fonti inedite, tratte soprattutto dell’Archivio Segreto
Vaticano, seguendo attentamente l’iter che portò allo stravolgimento degli
schemi preparatori. Lanzetta si sofferma in particolare sul passaggio dalla Aeternus unigeniti alla Lumen
Gentium e
dalla De
Fontibus Revelationis alla Dei
verbum,
le due
costituzioni che costituiscono gli assi portanti del magistero conciliare e che
presentano elementi di criticità e ambiguità. Per sciogliere questi problemi,
Lanzetta segue il metodo di interrogare il Concilio stesso, volendo scoprire
soprattutto la sua mens,
ciò che animava i Padri e ciò che determinò le loro scelte e decisioni.
L’orizzonte al cui interno si muove il teologo è quello della distinzione
classica tra dogmatica, che riguarda la dottrina, e pastorale che da essa
dipende e deve essere guidata. Padre Lanzetta mostra come la pastoralità fu
preponderante nel Vaticano II, fino a dettarne l’agenda e la direzione dei
dibattiti, ma rifiuta di farne un principio teologico. Per il teologo
francescano, il dato dottrinale del Vaticano II va letto alla luce della
perenne Tradizione della Chiesa e il Concilio non può che iscriversi in questa
ininterrotta Tradizione (p. 37). “Ciò che solo può far da guida nella
comprensione del Vaticano II è l’intera Tradizione della Chiesa: il Vaticano II
non è l’unico né l’ultimo concilio della Chiesa, ma un momento della sua
storia” (pp. 74-75). “La perenne Traditio
Ecclesiae è, quindi,
il primo criterio ermeneutico del Vaticano II” (p. 75).
Ciò che
frena il dibattito è il metus reverenziale
che ogni cattolico ha giustamente verso le supreme autorità ecclesiastiche. Ma
questo reverenziale rispetto e timore non può giungere al punto di deformare la
verità storica e teologica. Sotto quest’aspetto il pontificato di Papa
Francesco facilita la discussione. Il peso dell’ermeneutica di Benedetto XVI
che gravava sul dibattito durante il pontificato, si è improvvisamente
alleggerito dopo la sua abdicazione. Dopo la rinuncia al pontificato il
Concilio di Benedetto XVI è uscito dalla storia e nella storia è rimasto il
Concilio del suo avversario, il cardinale Kasper: il Concilio che si realizza
nella prassi pastorale e che, dopo cinquant’anni di prassi pastorale, annuncia
l’avvenuta liquidazione della morale cattolica. Il prossimo Sinodo dei vescovi
dovrebbe prenderne atto. Il tema portante dell’Instrumentum Laboris,
come dell’intervento del cardinale Kasper al Concistoro straordinario del 20
febbraio, è quello della abissale distanza tra la dottrina della Chiesa su
matrimonio e famiglia e la prassi cattolica contemporanea. In questo documento
il metro di misura della dottrina diviene la sociologia, la prassi capovolge la
dottrina, la Chiesa viene ribaltata. E’ questo il titolo di un volume appena
uscito di Enrico Maria Radaelli, La
Chiesa ribaltata. Indagine estetica sulla teologia, sulla forma e sul
linguaggio del magistero di Papa Francesco (Gondolin, Milano 2014, pp. 314), con
una prefazione di mons. Antonio Livi. Radaelli, discepolo di Romano Amerio, è
un attento osservatore del processo di “de-dogmatizzazione” che ha preso
l’abbrivio dal Vaticano II e che sembra aver raggiunto l’apice con il magistero
di Papa Francesco. Il mutamento di linguaggio della Chiesa ha inciso, negli
ultimi cinquant’anni, sui contenuti, alterando lo stesso deposito dottrinale.
Analizzando la Lumen
Fidei di Papa
Francesco, Radaelli osserva che in un’enciclica imperniata sulla virtù della
fede, colpisce l’assenza totale di una definizione netta e precisa della virtù
della fede (p. 68). Ancor più colpisce l’assenza totale della parola “dogma”,
un concetto ormai bandito dalla Chiesa da cinquant’anni. “A cosa mai serve –
afferma il filosofo milanese – una enciclica sulla fede che non denunci gli
errori e le eresie oggi pullulanti nella Chiesa, che non individui e anatemizzi
gli errori? (p. 257). Per Radaelli, che svolge una critica serrata della
“teologia dell’Evento”, dell’“Incontro” e dell’“Esperienza”, “il linguaggio
impositivo e dogmatico dovrebbe tornare ad essere serenamente riconosciuto
linguaggio primo e conduttore di ogni altro linguaggio della Chiesa” (p. 73).
Nella prefazione al volume mons. Antonio Livi, pur non condividendo alcune
posizioni dell’autore, difende il suo diritto a manifestarle, così come difese
gli articoli di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro su “Il Foglio”, perché ogni
cattolico è libero di far sentire la propria opinione nel campo di quelle
scelte teologiche e pastorali che non riguardano il dogma, ma l’opinabile.
Siamo in una
situazione in cui la Chiesa non definisce né anatemizza, ma lascia aperta la
libertà di discussione. Nelle librerie, nei seminari, nelle università
cattoliche furoreggiano le tesi di autori ultraprogressisti, che negano
l’esistenza stessa del concetto di “ortodossia”, come avviene sull’ultimo numero della rivista “Concilium”. Nell’epoca della de-dogmatizzazione, perché
dogmatizzare il Vaticano II? La parola oggi è alla prassi, all’esperienza
vissuta, da cui dovrebbe promanare la verità. Se così è, perché non ascoltare
la voce di chi propone un cristianesimo vissuto, quello della Tradizione, che
non nega il primato della dottrina, che non ricrea la verità, ma che alla
immutabile Verità si richiama e si uniforma?
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