Si pubblica volentieri un contributo del prof. Abbruzzi sul tema i giovani e la Tradizione.
Come introduzione al breve saggio, sembrano quasi "profetiche" e più che mai attuali le parole con le quali lo scrittore Eugenio Montale descriveva il disagio odierno dell'uomo e la sua solitudine interiore:
"Gente che si chiede sempre come impiegare il tempo, gente eternamente in lotta con la noia. Dolore autentico, nel senso antico, e non il moderno spleen dev'essere la loro noia; incapacità di sopportarsi, non perché si trovino di fronte a un loro odioso alter ego, ma perché posti in faccia al nulla assoluto" (Eugenio Montale, La solitudine).
Il deserto dell’insensatezza a proposito de I giovani e la tradizione
di Vito Abbruzzi
“Sitivit in te anima mea,
quam multipliciter tibi caro mea. In terra deserta, et invia, et inaquosa: sic
in sancto apparui tibi, ut viderem virtutem tuam, et gloriam tuam” (Ps. LXII, 1-2)
“Di te ha sete
l’anima mia: in quante maniere ha sete di te la mia carne! In una terra
deserta, che vie non ha, ed è mancante di acque, mi presentai a te come nel
santuario, per contemplare la tua potenza e la tua gloria” (traduz. di A. Martini)
Mi è stato chiesto
di dire la mia sull’articolo I giovani e la tradizione, pubblicato sabato 28 giugno 2014 ,
a proposito dello strano
successo, in tempi recenti, di questo binomio. Dico strano, poiché i giovani
e la tradizione, da sempre considerati antitetici e antinomici tra loro, oggi,
molto sorprendentemente, stanno andando d’amore e d’accordo.
Come mai?
Qui le risposte sono
varie e, quantunque autorevoli, ovvie; e l’ovvietà – lo sappiamo bene –
è sempre approssimativa e superficiale, eludendo la scomoda autocritica.
Da quando esiste il
mondo i giovani sono oggetto di giudizi poco o punto lusinghieri da parte di
chi li osserva con interesse, anche accademico, al fine di suffragare di volta
in volta la loro acclarata immaturità: tanto che si sbandino, tanto che seguano
la retta via. Ma ultimamente i giudizi nei loro confronti sono diventati
più impietosi, condannandoli alla insensatezza: colpa tutta dei padri
che va a ricadere, inevitabilmente, sui poveri figli, secondo quanto recita
il noto detto biblico: “I padri han mangiato uva acerba e i denti dei figli si
sono allegati!” (Ger 31, 29).
Se vogliamo trovare
una risposta davvero soddisfacente alla domanda sul perché oggigiorno nel mondo
cattolico proprio i giovani vadano stranamente d’accordo con la
tradizione, sentendosi attratti – a differenza dei loro padri! – dal Vetus
Ordo, certamente essa non può essere data in termini riduttivi e
semplicistici, come se fosse un fatto alla moda:
transeunte e passeggera. Bisogna andare più a fondo, indagando nel mare magnum dell’odierno disagio
giovanile. E per farlo – visto che è stato tirato in ballo – mi servirò delle puntuali
quanto ineccepibili riflessioni di Umberto Galimberti, raccolte ne L’ospite inquietante. Il nichilismo e i
giovani (ed. Feltrinelli, Milano 201014): un libro che consiglio
molto di leggere, soprattutto a chi, come me, si occupa dell’educazione dei
giovani. Leggendolo se ne apprezza tantissimo l’Autore, che, similmente a Leopardi,
“produce l’effetto contrario a quello che si propone: è scettico e ti fa
credente” (F. De Sanctis).
Galimberti usa
espressioni dure, parlando di “deserto di
senso”, “deserto della comunicazione”,
“deserto dei valori”, “deserto dell’insensatezza” (pp. 11-12), in
cui – a loro insaputa – si trovano costretti a vivere i giovani d’oggi: “Nel
deserto dell’insensatezza che l’atmosfera nichilista del nostro tempo diffonde,
il disagio non è più psicologico, ma culturale. E allora è sulla cultura
collettiva e non sulla sofferenza individuale che bisogna agire, perché questa
sofferenza non è la causa, ma la conseguenza di un’implosione culturale di cui
i giovani, parcheggiati nelle scuole, nelle università, nei master, nel
precariato, sono le prime vittime. […] Se il disagio giovanile non ha origine
psicologica ma culturale, inefficaci appaiono [allora] i rimedi elaborati dalla
nostra cultura”, per la quale “Dio è davvero morto” (pp. 12-13). Si tratta di
una morte – quella di Dio, già annunciata da Nietzsche – che, favorendo la moderna
crisi della cultura, ha trasformato
quest’ultima in istessa “cultura della
crisi connotata da relativismo, scetticismo e disincanto” (p. 20): pseudocultura o sottocultura che sì “garantisce il progresso tecnico, ma non un
ampliamento dell’orizzonte di senso per la latitanza del pensiero e l’aridità
del sentimento” (p. 13). È qui da ricercare “la vera natura del disagio dei
nostri giovani che, nell’atmosfera nichilista che li avvolge, non si
interrogano più sul senso della sofferenza propria o altrui, come l’umanità ha
sempre fatto, ma – e questa […] è un’enorme differenza – sul significato stesso della loro esistenza,
che non appare loro priva di senso perché costellata dalla sofferenza, ma al
contrario appare insopportabile perché priva di senso. La negatività che il
nichilismo diffonde, infatti, non investe la sofferenza che, con gradazioni
diverse, accompagna ogni esistenza e intorno a cui si affollano le pratiche
d’aiuto, ma più radicalmente la sottile percezione dell’insensatezza del
proprio esistere” (pp. 13-14).
E allora non è poi
tanto strano che siano proprio i giovani – quelli che sono consapevoli di essere
cresciuti in questa “desertificazione di
senso” (p. 14) prodotta, o per lo meno non osteggiata, dai loro padri sessantottini, oggi tutti sessantottenni – ad avvicinarsi, con
vivo interesse e non già per mera curiosità, alla liturgia tradizionale della
Chiesa cattolica, riscoprendo il Sacro. E non solo i giovani, ma anche gli
stessi ex sessantottini, come nel caso di Giuliano Ferrara e di altri
intellettuali laici che, pur non rinunciando alla propria formazione agnostica,
stanno dando un forte contributo alla causa. E questo perché, come mi confidava
in una lettera lo stesso Professor Galimberti, si avverte “un bisogno che, da
sponde diverse, si ritorni a ri-sacralizzare la dimensione religiosa”. E ciò
come antidoto a quelle che egli non esita a chiamare “malattie dello spirito”
(p. 22): malattie di “anime individuali, rese asfittiche dall’incapacità di
correlare la loro sofferenza quotidiana con il dolore del mondo” (p. 23). Sì,
perché – a suo dire – pure il cielo è
malato; così come malata è la luce e
malato è il tempo. La vita stessa è “malata con le
approssimazioni e le incertezze segnalate dalla biologia contemporanea, per la
quale la vita è una semplice tumefazione della materia, un caso trasformato in
necessità”. E – cosa non da poco – “malato è anche il lógos frantumato in lingue regionali quando dovrebbe portare con
sé, come dice il suo nome, l’unità della ragione” (pp. 22-23).
La galleria degli abusi è troppo estesa!! (ndr.)
Quest’ultima battuta
– non priva di ironia amara – spiega benissimo il fascino suscitato dall’uso liturgico
del latino proprio nei giovani (compresi
coloro che non l’hanno studiato a scuola), consci di essere realmente di fronte
ad una lingua sacra: a differenza dei non più giovani, ma ammalati di
giovanilismo, che lo avversano a spada tratta – come pure avversano il Vetus
Ordo –, perché ritenuto incomprensibile e antiquato. E poi si
scandalizzano per il progressivo e inarrestabile processo di desacralizzazione
del sacro, al quale – complici anche loro: ciascuno per la propria parte –
hanno dato e dànno un significativo contributo! E i risultati si vedono: la
disaffezione verso la pietà liturgica e la proliferazione di nuove fedi, con le
loro discutibili pratiche religiose, acriticamente accettate in nome di un falso
irenismo o indifferentismo e non già di un sano ecumenismo
(cfr. Direttorio Ecumenico, n. 2; Unitatis redintegratio, n. 11).
Sicché finiamo – senza rendercene conto e pur continuando a professarci cattolici
– col percorrere vie non nostre, come quelle orientali, così tanto di moda da noi (vedi la pratica non solo
dell’equivoco yoga, ma anche delle cosiddette arti marziali come lo judo,
il karaté, ecc., molto diffuse tra i giovanissimi). Ma – e concludo – proprio
a questo proposito è bene ricordare quanto lo stesso Galimberti ci segnala come
fuorviante, mettendoci in guardia dal
commettere passi falsi, che cioè “non possiamo seguire le vie orientali perché
siamo occidentali, […] sconfinare in Oriente con l’anima gravida d’Occidente”
(p. 79).
Meditate, gente!
Meditate!
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