venerdì 15 agosto 2014

Il divino eloquentissimo silenzio del canone

Mi è stato girato un contributo di don Alfredo Morselli, già pubblicato altrove, che volentieri posto anche qui.


Il divino eloquentissimo silenzio del canone

di don Alfredo M. Morselli

“Noi ordiniamo a tutti i Vescovi e ai sacerdoti di non più fare in silenzio, ma in modo da essere uditi dal popolo fedele, la divina oblazione, così come la preghiera che accompagna il battesimo: lo spirito degli uditori ne potrà ricavare una maggior devozione, un nuovo ardore per lodare e benedire Dio. Questo è l’insegnamento del divino Apostolo, nella sua prima lettera ai Corinti”.
No, non è il Vaticano II - che non ha prescritto di recitare il canone diversamente da come si e fatto per secoli e secoli - (anche il canone a voce alta è una delle tante cose che si attribuiscono spesso al Concilio e che il Concilio non ha mai detto, al pari dell’abolizione del latino, della celebrazione cosiddetta verso il popolo, della S. Comunione in mano e non in ginocchio, delle chitarre, della creatività liturgica etc.). Il testo suddetto è uno stralcio di un decreto dell’imperatore Giustiniano, il quale, inascoltato in vita, sembra essersi ripreso la rivincita 1400 anni dopo la sua morte (cit. in L. Thomassin, Traité de l’Office divin dans ses rapports avec l’oraison mentale, 1688; abbiamo consultato l’edizione del 1894, a c. dei benedettini di Ligugé: il testo citato è a p. 105-106).
Questo decreto conferma l’antica prassi, così ben descritta nelle Costituzioni apostoliche, secondo la quale al momento in cui “il sacrifico comincia … i fedeli pregano nel segreto del loro cuore; poi, quando la preghiera è terminata, sono ammessi alla partecipazione al Corpo e al Sangue del Signore”.
Del resto, Giustiniano non ha argomenti o esempi di prassi precedente su cui appoggiarsi: egli cita, fuori luogo, San Paolo, precisamente 1 Cor 14; in questo passo l’Apostolo mette in guardia uomini di parlare ad altri uomini in modo loro incomprensibile, ma non si tratta qui delle preghiera eucaristica, bensì di fraterna esortazione vicendevole o parola carismatica.
Il grande teologo oratoriano francese Luis Thomassin (1619-1695) così spiega: “Se un uomo non deve esortare un fratello in modo incomprensibile, Dio infinito e ineffabile ha bene il diritto e la gioia di donarci, nel più augusto dei sacramenti, delle cose superiori alla nostra intelligenza, a cui dobbiamo prestare particolare ossequio” (Traité de l’Office divin, p. 106). Lo stesso Thomassin nota che Giustiniano non aveva altri argomenti se non quello debolissimo di 1 Cor: se avesse avuto una pezza di appoggio nella prassi di qualche importante chiesa, la avrebbe senz’altro usata.


Ma che cosa ha spinto i santi Padri a non seguire il decreto di Giustiniano? Perché contravvennero platealmente il decreto del potente imperatore? Qual era la loro forma mentis? Quali i loro argomenti?
I motivi erano sostanzialmente due: da una parte l’idea della preghiera come azione divina nell’uomo, piuttosto che azione umana; vedremo in seguito come non era ancora avvenuta la frattura - tutta moderna - tra liturgia e orazione mentale. Dall’altra, la consapevolezza della sublimità del mistero che si attua nel Sacrificio Eucaristico. Vediamo ora il primo punto, e partiamo dall’invito rivolto ai fedeli dal celebrante all’inizio della preghiera eucaristica: sursum corda, in alto i cuori. Qui non si tratta dei cuori intesi come sede del sentimento, bensì della mens, ovvero della parte alta o fondo dell’anima. La partecipazione alla liturgia non può essere disgiunta dall’orazione mentale, da quello stato in cui si trova l’anima che vuol essere obbediente al comandamento del Signore secondo il quale è necessario pregare sempre.
Così afferma s. Clemente Alessandrino: “Sia che si trovi in cammino, sia che parli, sia che lavori secondo le luci e le norme della legge eterna, [il giusto] prega continuamente. Giacché il santuario più abituale della sua orazione è il fondo del suo cuore, dove custodisce i gemiti e i desideri che s’innalzano fino al trono del Padre celeste” (Stromata, VII, MG IX, 470, cit. in Traité de l’Office divin, p. 16-17).
E San Basilio chiedendosi come sia possibile, stando al versetto semper laus eius in ore meo (Ps 33,2), che la nostra bocca faccia sempre risuonare la lode del Signore, afferma che noi abbiamo una sorta di bocca interiore e spirituale attraverso la quale possiamo assimilare la parola divina, la verità e il Verbo stesso: è questa la bocca che Dio ci ordina di tenere sempre aperta, per ricevere il cibo incorruttibile della verità eterna. L’impressione che la verità e la carità di Dio hanno compiuto nei nostri cuori sussiste stabilmente nella nostra anima, e ne costituisce veramente una santissima preghiera (In Ps. XXXIII, MG XXIX, 354, cit. in Traité de l’Office divin, p. 18). Questa preghiera, secondo S. Agostino, non è altro che lo Spirito Santo, Carità che prega in noi, che abita nei nostri cuori, da dove fa salire verso il cielo un’orazione ininterrotta (In Ep. Joann., tract. VI, ML XXXV, 2024, cit. in Traité de l’Office divin, p. 24).
La predicazione e la salmodia hanno il compito di risvegliare questa preghiera muta, ma il cui silenzio permette che si realizzi nella sua profonda e massima attività, in quanto attività divina in noi.
Allora cosa significa sursum corda?
Che la vostra anima ora si inabissi nel mistero, che sia la bocca spirituale che si nutre delle grazie del Sacrificio e che non lasci fuoriuscire parole umane, ma solo l’inesprimibile gemito dello Spirito Santo, Carità increata diffusa nei nostri cuori. Che non ci sia parola umana frammezzo alla Grazia del mistero che discende da Dio e che a Lui risale dai nostri cuori … Hai dilatato il mio cuore - dice il Salmo 118,32 -, perché l’orecchio di carne non può intendere (occhio non vide e orecchio non udì) il mistero che si celebra, e qualunque suono entri, in questo momento, nell’orecchio naturale, toglierebbe spazio al nutrimento celeste.
Non è forse questo l’orecchio che il Signore ci ha aperto toccando quello del sordomuto? E non è forse la lingua del cuore - ovvero la possibilità al nostro cuore di essere la lingua dei gemiti inesprimibili dello Spirito Santo -, quella che Gesù ci ha sciolto, intimando effatá alla vecchia lingua annodata dal peccato originale? E non si dica che il popolo non capisce! Proprio perché si capisce quel poco che si può capire della sublimità del mistero, ci si rifiuta di ingabbiarlo o di ridurlo a mera comprensione discorsiva; la ragione non è però affatto esclusa quando comprende che deve fermarsi e cedere il passo a una conoscenza intuitiva, sempre razionale, ma più simile quella degli angeli e dei beati in Paradiso.

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