Si tratta di un estratto di un testo del 1984 dell'allora da poco nominato arcivescovo di Bologna, Mons. Giacomo Biffi, poi divenuto cardinale e che fu ripubblicato nel 2012. A distanza di tanti anni, esso mantiene ancora la sua freschezza ed attualità nel diagnosticare alcuni mali del tempo presente, e segnatamente della Chiesa.
* * * * * *
L’ideologia
post-conciliare
Essa
deriva sì storicamente dal Vaticano II e dal suo magistero, ma attraverso un
processo di “distillazione fraudolenta” immediatamente posto in atto
all’indomani dell’assise ecumenica. L’operazione potrebbe schematicamente
essere descritta così: la prima fase sta nella lettura discriminatoria dei
passi conciliari, che distingue tra quelli accolti e citabili, e quelli da
passare sotto silenzio; nella seconda fase si riconosce come vero insegnamento
del concilio non quello effettivamente formulato, ma quello che la santa
assemblea ci avrebbe dato se non fosse stata afflitta dalla presenza di molti
padri retrogradi e insensibili al soffio dello Spirito; con la terza fase si
arriva a dire che la vera dottrina del concilio non è quella di fatto
canonicamente approvata ma quella che avrebbe dovuto essere approvata se i
padri fossero stati più illuminati, più coraggiosi, più coerenti. Con un metodo
esegetico siffatto – non enunciato mai in modo esplicito, ma non per questo
meno implacabilmente applicato – è facile immaginare i risultati. I quali, per
quanto remoti siano dalla verità cattolica, vengono sempre messi in conto al
Vaticano II; e chi si azzarda anche timidamente a dissentire è segnato col
marchio infamante di “preconciliare”, quando non è addirittura classificato coi
tradizionalisti ribelli o con gli esecrati integralisti. E poiché tra i
“distillati di frodo” dal Vaticano II c’è anche il principio che nessun errore
può essere condannato nella Chiesa a meno di peccare contro il dovere della
comprensione e del dialogo, nessuno osa più denunciare con vigore e con tenacia
i veleni che stanno progressivamente intossicando il popolo di Dio.
Concilio
e “post-concilio”
Credo
che il lavoro preliminare da compiere sia di distinguere accuratamente il
concilio dal “postconcilio”, in modo che si possa accogliere il primo con
totale cordialità e valutare il secondo alla luce del primo e di tutto
l’insegnamento rivelato con animo libero da qualunque intimidazione e da
qualunque ricatto culturale. Questa distinzione non deve turbare un cuore
credente. Chi alla luce della fede riflette sulla storia della salvezza, sa
benissimo che nella nostra vicenda come non c’è evento nefasto dal quale Dio
non ricavi qualche bene per i suoi figli, così non c’è divino capolavoro che il
demonio non tenti di tramutare per qualche aspetto in occasione di malessere e
di rovina. Il che vale anche per il Vaticano II, opera senza dubbio
provvidenziale e supernamente ispirata.
Gli
“idoli” post-conciliari
Propiziati
dal “post-concilio”, nella coscienza della cristianità contemporanea si celano,
come nella sella del cammello di Rachele (Gn 31,19.34), molti svariati
idoletti. Non tentiamo di ricordarli tutti ovviamente; ci limitiamo a segnalare
quelli che più vistosamente influenzano tanto la ricerca teoretica quanto
l’attività pastorale.
1. La
“antropolatria”
Nei
primi decenni del secolo XIX Feuerbach affermava che “il segreto della teologia
è l’antropologia” e vagheggiava l’avvento di una teologia di nuovo genere,
contrassegnata dal fatto “che essa pone nell’al di qua l’essere divino che la
teologia comune, per paura e incomprensione, pone nell’al di là”. Viene da
pensare che il pensatore tedesco, sia pure anonimamente, abbia fatto scuola
presso molti cattolici della seconda metà del secolo XX e che la sua aberrante
intuizione, probabilmente veicolata dalla grande ubriacatura marxista, dopo
tanto tempo sia stata tacitamente ricevuta. L’uomo sembra divenuto l’unico
oggetto dei nostri pensieri, dei nostri interessi, della nostra adorazione. E,
nel desiderio di coglierlo in se stesso, nella sua autonoma e singolare natura,
si è addirittura proposto da qualcuno che anche il credente debba guardare
l’uomo “ut si Deus non daretur”, come se Dio non ci fosse, prescindendo cioè
dal suo Creatore e valutando soltanto l’umanità come tale, presa a sé e
separata da qualunque dipendenza e da qualunque superiore significazione.
Sennonché l’uomo è intrinsecamente e non per un sopraggiunto rivestimento
“immagine di Dio” e totale relazione a lui; e dunque escludere Dio sia pur
metodologicamente dalla prospettiva sull’uomo vuol dire snaturare l’uomo e non
coglierlo nella sua verità. Se con l’espressione “autonomia delle realtà
temporali” si intende che le cose create non dipendono da Dio, che l’uomo può
adoperarle senza riferirle al Creatore, allora tutti quelli che credono in Dio
avvertono quanto false siano tali opinioni. La creatura, infatti, senza il
Creatore svanisce. Del resto tutti coloro che credono, a qualunque religione
appartengano, hanno sempre inteso la voce e la manifestazione di lui nel
linguaggio delle creature. Anzi, l’oblio di Dio priva di luce la creatura
stessa (Gaudium et spes, 36). Si arriva così anzi a una contraddizione
esistenziale. Noi siamo “adoratori costituzionali”: privati ideologicamente del
vero Dio, rivolgiamo necessariamente altrove i nostri insopprimibili impulsi
latreutici e ci poniamo ad adorare le creature, prima di ogni altra l’uomo.
D’altra parte, l’uomo avulso dal suo Archetipo e dalla sua Sorgente è così fragile,
debole, manipolabile, che, nell’atto stesso in cui crediamo di adorarlo,
poniamo le premesse della sua profanazione. È facile rilevare come lo
smarrimento del Padre abbia di solito fatalmente condotto sia al culto indebito
della personalità e alla venerazione del tiranno sia alla schiavizzazione dei
fratelli. Naturalmente questa “antropolatria” non ha niente a che vedere con
l‘“antropocentrismo” di chi riconosce nell’uomo “il culmine dell’universo e la
suprema bellezza del creato”, colui che detiene “la sovranità su tutti gli
esseri viventi”, come dice sant’Ambrogio. L’antropocentrismo è prerogativa
essenziale del disegno divino, in quest’ordine di cose liberamente eletto tra
gli infiniti possibili, dal momento che il Padre ha collocato Cristo Gesù, uomo
divinamente personalizzato, al centro di tutto e in lui ha chiamato tutti gli
uomini a sé, facendoli partecipare, mediante l’inabitazione dello Spirito
Santo, prima alla sua natura e poi alla sua stessa gloria. Come si vede, il
vero antropocentrismo include nel suo stesso contenuto concettuale il rapporto
privilegiato col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo, e non lascia spazio
ad alcuna forma di antropolatria. Antropolatria e antropocentrismo, anche se
all’esterno possono presentare qualche somiglianza, nella realtà sono dunque
diversi e incompatibili. L’antropolatria è propria di chi ha “cambiato la
gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo
corruttibile” (Rm 1,23); ed è l’approdo obbligato di chi, perdendo di vista
l’Autore dell’essere e della vita, ha in sostanza una visione atea del mondo.
L’antropocentrismo è proprio di chi onora l’uomo per quello che l’uomo è; esso
non insidia affatto il culto del vero Dio, costituisce la predella da cui ci si
può lanciare al riconoscimento del Padre. La cultura antropolatrica dà
regolarmente origine a società disumane, nelle quali l’uomo – teoricamente
adorato – è di fatto avvilito, reso servo, privato di ogni scopo plausibile
dell’esistere. La cultura antropocentrica è un appello intrinseco al Padre e al
suo disegno d’amore, senza di che l’uomo non solo non può essere visto come il
centro di tutte le cose, ma appare piuttosto un frammento trascurabile di
materia alla deriva sul mare dell’insignificanza. L’esteriore somiglianza può
talvolta indurre in equivoci; ma non – c’è dialogo o convivenza possibile tra
antropolatria e antropocentrismo, a meno che l’una o l’altra comincino a non
essere più nei fatti quello che il loro nome significa in sé. In realtà la
questione della riscoperta del Padre è preliminare a ogni serio discorso su un
umanesimo non illusorio. Una delle citazioni più frequentemente ripetute in
questi anni è la splendente frase di Ireneo: “La gloria di Dio è l’uomo
vivente”. Se ne coglierebbe meglio la verità, si eviterebbe il pericolo di
travisamenti ideologicamente strumentalizzati, si dimostrerebbe maggior
rispetto verso il pensiero dell’antico scrittore, se ci si abituasse a
riferirla nella sua integrità: “La gloria di Dio é l’uomo vivente; ma la vita
dell’uomo sta nella contemplazione di Dio”.
2. La
“cronolatria”
Il
secondo idolo è stato indicato da J. Maritain, quando ha parlato di
“cronolatria” o “adorazione dell’attualità”. La lucidità della denuncia del
pensatore francese non ha però impedito che questo “culto” si estendesse e si
affermasse sempre più nella cristianità, al punto da essere ormai un’abitudine
mentale acquisita che neppure sente più il bisogno di giustificarsi. Senza
affermarsi mai espressamente, essa trapela in modo spesso involontario e quindi
tanto più significativo dal linguaggio d’uso corrente, nel quale
l’aggettivazione del biasimo teorico non è: falso, errato, illogico, cattivo,
aberrante; ma piuttosto: superato, sorpassato, attardato, vecchio. Non conta
tanto la verità quanto la formulazione recente. Le idee, come le uova, devono
essere “di giornata”. Talvolta si sente perfino squalificare un teologo o un
vescovo con la frase: “è fermo al concilio di Trento”; dove è mirabile il fatto
che la condanna sia espressa con l’indicazione non di ciò che, una volta
dimostrato, potrebbe costituire una giusta critica (e cioè, ad esempio, la non
consonanza con l’insegnamento del Vaticano II), ma di ciò che dovrebbe se mai
rappresentare un titolo di merito (e cioè la fedeltà alla dottrina di un
magistero solenne che, per quanto antico, resta tuttora autorevole). E con
questa disinvoltura “cronolatrica” ci si dispensa dall’addurre le prove di una
eventuale infedeltà al magistero più recente. Allo stesso modo, veniamo spesso
esortati a pregare per gli “uomini del nostro tempo”, come se qualcuno fosse
mai tentato di ricordare nelle sue orazioni gli assiro-babilonesi; o a vivere
nel “mondo di oggi”, contro il pericolo di sconfinare inavvertitamente
nell’epoca carolingia; o a impegnarci a “essere moderni”, che è un po’ come se
una mucca si impegnasse ad avere la coda. Non ci si meraviglia allora di notare
che il tema della “vita eterna” si faccia sempre più raro nei discorsi
ecclesiastici, dove invece hanno sempre più larga parte le questioni del “tempo
presente”. Queste è giusto e doveroso affrontare senza evasioni alienanti, ma
non “invece di quella”, bensì “alla luce di quella”: solo con la coscienza
sempre pungente della “vita eterna” e della sua impareggiabile rilevanza è
possibile “redimere il tempo presente”, ridonandogli senso e spessore.
Naturalmente non c’è niente di male nell’uso di queste locuzioni, le quali
possono anche avere la buona finalità di richiamare il cristiano da un
atteggiamento “astratto” e troppo remoto dalle condizioni esistenziali. Ma,
considerate come un “vezzo linguistico”, sono la spia di un atteggiamento
spirituale indebitamente ossessionato dal culto dell’attualità. Si ha talvolta
l’impressione che i credenti si ritengano piuttosto mobilitati a riscattare il
tempo presente, non dalla vanità e dalla malizia dei “giorni cattivi” (cfr. Ef
5,16), ma proprio dalla incombenza oppressiva dell’eterno, il quale – se è
troppo insistentemente rammemorato – si teme non lasci spazio all’inserimento
nel quotidiano. Il caso è preoccupante: quando si scambia il fondamento della
libertà con la ragione della tirannia, la medicina con la malattia, la fonte
dell’energia con la causa della paralisi, le speranze di sopravvivere sono
poche. Di solito, poi, prevaricare nei confronti della fede porta anche ad
attentare alla ragione. E in effetti la “cronolatria”, rovesciando la
prospettiva cristiana, guasta altresì i meccanismi del raziocinio. ”Lo spirito
che si inquieta per la verità e arriva a cogliere la verità, trascende il
tempo”. Perciò “sottoporre le cose dello spirito alla legge dell’effimero, che
è quella della materia e del puro fatto biologico”, vuol dire soffocare la vita
stessa dell’anima. Quando resta se stessa e non viene traviata, “la ragione non
si preoccupa di essere inserita o di accettare la storia, né allo stesso modo
si interessa e si dà pena di essere contemporanea, ma solo di essere ‘ragione’,
perciò di essere vera”.
3. La
“cosmolatria”
Di
tutte le idolatrie che ci affliggono, l’adorazione del mondo è senza dubbio la
più clamorosa. Oggi uno può impunemente parlare male della Sposa di Cristo
senza avere il minimo fastidio ecclesiale; ma se azzarda a scrivere due righe
contro il “mondo”, deve aspettarsi almeno qualche tiratina di orecchie anche da
parte dei recensori più benevoli e pii. Questa “cosmolatria” fa tanto più
spicco in quanto stride con tutta la consuetudine linguistica dell’ascetica
tradizionale: la “fuga dal mondo”, la “rinuncia al mondo”, il “disprezzo del
mondo” dai primordi del cristianesimo fino a pochi anni fa sono, stati temi classici
della riflessione e della predicazione; ebbene, di essi nelle comunità
cristiane di oggi non si trova più traccia. Al loro posto si propone l’
“inserimento nel mondo” e perfino il “servizio del mondo”. A esaminare con
attenzione alcuni testi ecclesiastici recenti (per esempio, alcuni formulari
suggeriti da qualche parte per le preghiere dei fedeli) si ha l’impressione che
i due vocaboli “mondo” e “Chiesa” rispetto all’uso di prima si siano
semplicemente scambiati di senso. Si implora sempre infatti che la Chiesa
capisca, riconosca, si converta, abbandoni il suo egoismo e la sua volontà di
potenza ecc.; e per contro si prega perché il mondo venga riconosciuto e
appagato nelle sue aspirazioni, aiutato nelle sue necessità, esaltato nei suoi
valori. Ad ascoltare certe celebrazioni del mondo viene da domandarci perché
mai a Gesù Cristo sia venuto in mente di fondare la Chiesa, peggiorando
notevolmente le cose. Almeno sul piano terminologico è innegabile la rottura
con tutta la tradizione precedente. Ma è davvero soltanto una questione di
vocabolario? All’origine di questo mutamento c’è la “Gaudium et spes”; ma si
tratta della “Gaudium et spes” passata al filtro della ideologia
post-conciliare e, così mortificata, acriticamente accolta da molti strati
della cristianità. Affrontando il tema dei rapporti tra Chiesa e mondo
contemporaneo, il Vaticano II ha compiuto un’opera preziosa di chiarificazione
e di illuminazione. Mettendosi nella prospettiva della Genesi e della Somma
teologica, vale a dire considerando la natura umana e il mondo in ciò che li
costituisce in se stessi, la Costituzione pastorale afferma senza esitazioni la
loro bontà radicale e l’invito al progresso che, per quanto ostacolato
dall’ambiguità della materia e dalle ferite del peccato, è iscritto nella loro
essenza. E mostra, non solo in maniera generale ma con analisi molto accurata e
con tutta la generosità che deriva dalla divina carità, come la Chiesa,
restando perfettamente nel campo della sua missione esclusivamente spirituale e
nell’ambito delle “cose di Dio”, possa e voglia aiutare il mondo e la specie
umana nel loro sforzo di avanzare verso i loro fini temporali. A dire il vero
si trova qui nuovamente affermata la dottrina perenne della Chiesa – ma con
connotazioni nuove ed eccezionalmente importanti, dal momento che è riaffermata
sotto il segno della libertà – non più per rivendicare il diritto della Chiesa
di intervenire ratione peccati nelle cose del mondo al fine di combattere il
male (a questo, credo, sarà sempre obbligata, sotto una forma o l’altra), ma
per dichiarare il suo diritto, e la sua volontà, di animare, stimolare,
assistere dall’alto, ratione boni perficiendi, se posso dire, e senza attentare
all’autonomia del temporale, gli sviluppi del mondo verso il raggiungimento di
un bene più grande. Ma l’ideologia postconciliare, oltrepassando indebitamente
questa prospettiva, ha letto il documento come se esso avesse voluto offrire –
a proposito delle relazioni tra il “mondo”, di cui si parla ripetutamente negli
scritti apostolici, e la Chiesa – un insegnamento in netto contrasto con quello
delle pagine di san Giovanni e di san Giacomo. Il prevalere di questa ideologia
ci spiega come mai in questo tempo di esasperato biblismo ci siano molte frasi
del Nuovo Testamento che non si ascoltano mai: è una sorta di censura tacita ma
severissima, esercitata sul Libro di Dio. Proprio perché la parola di Dio non
sia incatenata (cfr. 2 Tm 2,9), ne trascriviamo un po’ per comodità del
lettore.”Il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di lui io attesto che
le sue opere sono cattive” (Gv 7,7).”Ora è il giudizio di questo mondo; ora il
principe di questo mondo sarà gettato fuori” (Gv12,31).”Lo Spirito di verità
che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce” (Gv
14,27).”Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste
del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo,
ma io vi ho scelto dal mondo, per questo il mondo vi odia” (Gv
15,18-19).”Quando sarà venuto, egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla
giustizia, al giudizio” (Gv 16,8).”Voi piangerete e vi rattristerete, ma il
mondo si rallegrerà” (Gv 16,20).”Abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!” (Gv
17,9).”Io ho dato loro la mia parola e il mondo li ha odiati perché essi non
sono del mondo, come io non sono del mondo” (Gv 17,14).”Padre giusto, il mondo
non ti ha conosciuto” (Gv 17,25).”Non amate né il mondo, né le cose del mondo!
Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui” (1 Gv 2,15).”Il mondo
passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno!”
(1 Gv 2,17).”La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha
conosciuto lui” (1 Gv 3,1).”Non meravigliatevi, fratelli, se il mondo vi odia”
(1 Gv 3,13).”Tutto ciò che è nato da Dio vince il mondo; e questa é la vittoria
che ha sconfitto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non
chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?” (1 Gv 5,4-5).”Noi sappiamo che siamo da
Dio, mentre tutto il mondo giace sotto il potere del maligno” (1 Gv 5,19).”Una
religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere
gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo
mondo” (Gc 1,27).”Gente infedele! Non sapete che amare il mondo è odiare Dio?
Chi dunque vuol essere amico del mondo si rende nemico di Dio!” (Gc 4,4).”Il
mondo con tutta la sua sapienza non ha conosciuto Dio” (1 Cor 1,21).”Noi non
abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio” (1 Cor 2,12).”La
sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio” (1 Cor 3,19).”La tristezza
del mondo produce la morte” (2 Cor 7,10).”Quanto a me non ci sia altro vanto
che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo
per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14). Sappiamo benissimo
che, accanto a queste frasi, ci sono nel Nuovo Testamento altre espressioni
nelle quali la parola “mondo” indica la creazione di Dio che è buona, e
l’umanità che è in attesa della salvezza ed è amata da Dio. Non potremmo non
saperlo, perché sono passi che giustamente ci vengono sempre ricordati da tutte
le parti; sicché un problema del loro recupero oggi, dopo la Gaudium et spes,
fortunatamente non si pone. Si pone invece per quelle che abbiamo sopra
elencate: dove è andata a finire tutta questa tematica nella cristianità dei
nostri tempi? Anche a supporre che si sia mutato soltanto il linguaggio, sotto
quali locuzioni dei nostri giorni questa dottrina si cela? Tutto sembra farci
pensare che si tratti non del disuso di una terminologia, ma di un insegnamento
esplicito della Rivelazione che non ha più posto nell’odierna riflessione
teologica e pastorale. Così, privo delle naturali difese immunizzatrici,
l’organismo ecclesiale resta pericolosamente esposto al contagio di quella
“cosmolatria” che stiamo qui denunciando. Occorre ripartire dal dato rivelato
preso nella sua integrità, senza operarvi nessuna aprioristica selezione. Una
frase del vangelo di Giovanni ci ricorda da sola tutta la multiformità della
parola di Dio a proposito di “mondo”.”Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto
per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe” (Gv 1,10).In due righe il
vocabolo compare tre volte e sempre con sfumature diverse.”Era nel mondo”: si
riferisce al fatto della incarnazione e alla presenza del Verbo nella realtà
creaturale. E’ una indicazione che non implica alcuna valutazione. Nello stesso
senso la parabola del seme dice: “il campo è il mondo” (Mt 13,38). ”Il mondo fu
fatto per mezzo di lui”: qui è implicitamente affermata l’originaria bontà del
mondo, e quindi la presumibile disposizione di accoglienza verso il Figlio di
Dio. Allo stesso modo è detto che “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo
Figlio unigenito” (Gv 3,16). ”Eppure il mondo non lo riconobbe”: qui la parola
“mondo” esprime il grande enigma della opposizione sistematica, permanente,
ineliminabile, nella quale si è imbattuta e si imbatterà sempre l’iniziativa
salvifica. E il discepolo di Gesù è ripetutamente ammonito di non perdere mai
di vista e non sottovalutare questa tragica realtà. Il mondo è dunque o un
semplice spazio o una realtà nativamente buona ma da redimere o una forza
malvagia che resiste alla redenzione e cerca di vanificarla. Nessuna di queste
tre verità va trascurata Ciò che non c’è nel Nuovo Testamento è l’idea che la
Chiesa debba essere istruita, illuminata o addirittura salvata dal mondo.
Neppure c’è l’idea che il mondo sia realtà così buona e santa da non aver
bisogno della restaurazione di Cristo, attualizzata nella Chiesa. Chi muove
dalla pur giusta convinzione dell’intrinseco e inalienabile valore delle cose,
create da Dio e da lui riconosciute come “buone” (cfr. Gn 1), e ritiene che qui
si esaurisca quanto il cristiano ha da dire sul “mondo”, rischia obiettivamente
di non riconoscere la presenza attiva e continua del male, di banalizzare la
redenzione e di rendere superflua la croce di Cristo. Molti atteggiamenti
rilevabili nei cristiani di oggi nei confronti del “mondo” sarebbero plausibili
in un ordine di cose di incontaminata innocenza; un ordine bello in sé e
desiderabile, che però non esiste. L’irenismo a ogni costo nei confronti di
tutto e di tutti è forse una nostalgia per la pace del Paradiso terrestre (dove
per altro non mancava il serpente); o, se si vuole, è un’abusiva pregustazione
dello stato d’animo che ci rallegrerà nell’eterna Gerusalemme: rispetto al
tempo di lotta che stiamo vivendo è una indebita anticipazione. Il “servizio
del mondo”. Parrebbe anche utile una breve riflessione circa il “servizio del
mondo”, che ci viene indicato spesso come dovere della Chiesa e dei credenti.
L’affermazione è carica di ambiguità e, se non è chiarita, può alla lunga
provocare una visione distorta dell’impegno cristiano. Gli equivoci possibili
sono due: sul concetto di “mondo” e sul dovere del “servizio”. Per “mondo” qui
si può intendere solo l’umanità che – dolorante, sviata, senza luce – è in
attesa della salvezza. Non certo il “mondo” per il quale il Signore non ha
pregato e che poi dalla parola di Dio siamo invitati a odiare; della cui oscura
esistenza non dobbiamo mai dimenticarci. E il “servizio” più urgente e
necessario che può essere reso agli uomini decaduti e infelici è l’annuncio del
Salvatore e del progetto d’amore che il Padre ha pensato per noi: questa é la
vera “promozione umana”, che poi diventa la molla propulsiva di ogni altro
“progresso” nel benessere, nella pace sociale, nella giustizia terrena. Va
anche detto che l’unico a dover essere propriamente e direttamente servito da
noi è il Figlio di Dio, Gesù Cristo. “Ci sono diversità di ministeri, ma uno
solo è il Signore” (1 Cor 12,5). Nessun altro può essere riconosciuto come
padrone. Vero è che l’unico nostro Signore si è fatto “servo” di tutti: e noi,
se vogliamo veramente e concretamente servirlo, dobbiamo servirlo anche
associandoci a lui in questo servizio degli altri e attendendo dunque alle
necessità reali di tutti. La delucidazione, che può sembrare sottile e
puntigliosa, è invece essenziale: noi, servi di Cristo, diventiamo in lui servi
degli uomini; ma non per questo siamo tenuti a dare agli uomini sempre ciò che
a loro piace o che da noi essi si aspettano. Noi abbiamo il “foro”. Un secondo
esempio significativo è dato dal fenomeno del monachesimo, che, chiudendosi nel
microcosmo del monastero per inseguire l’ideale di una vita evangelica
perfettamente coerente, di fatto ha contribuito in modo determinante al sorgere
della nuova Europa. È curioso notare nella storia ecclesiale che il programma
spirituale e culturale della “fuga dal mondo” di solito riesce ad animare
un’azione incisiva nella società e a riplasmarla effettivamente alla luce del
Vangelo. Basti pensare all’incidenza nella realtà sociale e politica del suo
tempo di sant’Ambrogio, che pure ha scritto un De fuga saeculi e teorizza
continuamente nei suoi scritti l’urgenza della solitudine.
4. La
“schizolatria”
La
quarta “latria” nasce ed è alimentata da una “fobia”. La paura ossessiva
dell’integralismo – cioè dell’abitudine mentale a risolvere tutti i problemi
umani di ogni ordine e grado deducendo immediatamente le soluzioni dai princìpi
di fede – induce alcuni incauti al culto esasperato della divisione degli
ambiti e alla esaltazione della totale impermeabilità tra un piano e l’altro
dell’impegno umano. Alcune annotazioni si impongono a questo proposito.
L’inerzia mentale, lo schematismo linguistico, l’incapacità a seguire
l’effettivo succedersi dei mutamenti culturali cospirano a tenere nascosto agli
occhi di molti il fatto che un integralismo cattolico – che pur ha avuto una
sua lunga e deleteria stagione – oggi non esiste più se non in frange
trascurabili della cristianità. È morto da un pezzo, anche se il suo fantasma è
continuamente evocato da alcuni sprovveduti e da molti interessati. A lottare
contro le ombre non c’è pericolo di farsi male, e perciò sono numerosi i prodi
che si slanciano in queste battaglie. Per contro esistono – graffianti,
acritici, sicuri di sé – altri integralismi di vario colore: c’è un
integralismo marxista, un integralismo radicale, un integralismo laicista, un
integralismo liberale, perfino un integralismo mazziniano. Ogni “parrocchia”
politica in Italia ritiene di avere una concezione totalizzante della realtà,
in grado di portare luce su ogni questione, ivi comprese quelle che si
riferiscono alla coscienza morale, ai contenuti dell’impegno religioso. alle
forme di esercizio del, magistero ecclesiale. Tutte queste “parrocchie” si
adoperano a tenere viva la fobia dell’integralismo cattolico; e il più delle
volte viene contrassegnato con questa etichetta ogni desiderio di coerenza
cristiana ed è condannata a questo titolo ogni determinazione di irradiare la
fede nella cultura e nella vita. Né c’è da stupirsene; stupisce piuttosto che
questo tipo di intolleranza trovi consensi in molti credenti anche sinceri. Ma
la schizolatria è soprattutto un attentato alla retta visione cristiana della
realtà. Essa sembra dimenticare totalmente l’esistenza di un solo Signore, nel
quale, per mezzo del quale, in vista del quale tutto esiste, sia nell’ordine
della redenzione sia nell’ordine della creazione. Conseguentemente colpisce al
cuore l’unità del piano divino e la stessa ultima intelligibilità di questo
universo di fatto esistente. Ci sia consentito riprodurre qui alcune pagine
lucidissime di Inos Biffi, meritevoli di rilettura e di approfondita
meditazione. ”Il primo punto di partenza non esatto è la suddivisione, anzi la
distinzione tra piano creaturale / o di natura, e piano redentivo / o della
grazia. Questa distinzione, che per qualcuno arriva persino alla separazione,
non è teologicamente accettabile e proponibile. Essa viene a misconoscere il
dato primo dell’attuale e concreto ordine di realtà: ed è il progetto
originario, assoluto e totalizzante – su cui abbiamo già insistito –
consistente nella predestinazione dell’uomo e dell’universo in Gesù Cristo risorto
da morte. E’, indubbio che Dio avrebbe potuto concepire un altro ordine di
provvidenza; è indiscutibile che solo la fede – che fa uditori della Parola –
trasmette integralmente questo disegno originario di fronte al quale tutti gli
altri sono ipotetici: ma questo è in ogni modo un fatto, fuori del quale esiste
solo, obiettivamente, la non esistenza o l’ipotesi. Una teologia corretta non
accetterà mai un ordine naturale e ad esso giustapposto un ordine
soprannaturale concretamente esistenti e che si tratterebbe di tenere uniti. E
di conseguenza: una specie di natura-ragione neutra, valida per tutti, non
riferita a Gesù Cristo, di “pura” entità “creaturale” (ossia dipendente dalla
pura creazione). Ne deriva che, se per mediazione si dovesse intendere l’atto di
chi si sforza di mettere insieme tali due ordini inizialmente separati, essa è
semplicemente scorretta e impossibile. Purtroppo ci è dato di constatare che un
certo linguaggio e certe impostazioni concettuali traducono esattamente questa
inconsistente dicotomia. Manca un pensiero che traduca, oltre la cultura
religiosa e storica, una dottrina teologica criticamente fondata. La verità è
un’altra: nel disegno originario in Gesù Cristo è compresa la “ragione”, la
“filosofia”, l’incontrovertibilità, dell’essere e vi è compresa non come
sostituibile dalla fede, ma nella sua specificità. Per il fatto di essere
creata in Gesù Cristo la ragione non smette di essere tale: l’accoglienza per
fede del disegno divino in Cristo non la degenera e non la umilia. Per poter
giustamente parlare di mediazioni bisogna uscire da questo equivoco. Il
cristiano va anche più avanti: egli intende la grazia non solo non adulterante,
ma di fatto sanante la ragione: la redenzione in certo modo rende la ragione a
se stessa. Un secondo punto di partenza non esatto sarebbe quello di porre da
un lato il dato della fede, dall’altro il dato della storia, e quindi della
temporalità, della politica, come se alla fede non appartenesse la storicità,
la politicità, in una parola sola: l’antropologia filosofica. Ci sono dati di
intelligibilità e di struttura antropologica la cui mortificazione
significherebbe la mortificazione dello stesso disegno originario. Il cristiano
non prende a prestito dalla filosofia pagana-neutra la dimensione razionale dell’uomo:
piuttosto, eventualmente, riconosce che al di fuori dell’orizzonte della fede
consapevole esistono valori obiettivamente appartenenti al piano di salvezza,
il quale non si separa e non si distingue affatto – in concreto! – dal piano
“creaturale” come abbiamo ora detto. Facendo storia, cultura, politica, ecc.,
il cristiano non fa altro che rilevare e determinare una dimensione del
contenuto della sua fede, mettendo in atto la razionalità che è un reale
ingrediente del disegno divino: un ingrediente che richiede riflessione,
ricerca, confronto; che conclude a gradi più o meno di certezza, che lascia
spazi di ipoteticità e margini di pluralismo. Se è vero in un certo senso che
non c’è passaggio diretto dalla fede alla politica, è altrettanto vero che la
politica mette in opera elementi che non sono discordi o àlteri rispetto al
piano integrale originario. S’è parlato, con preciso fondamento, di “umanesimo
integrale”. Occorrerebbe più compiutamente parlare di “cristianesimo
integrale”. Ancora: si è detto – e giustamente in una determinata prospettiva –
che si deve distinguere per unire: nella nostra prospettiva va detto che si
deve “distinguere nell’unito”. Una mediazione che fosse configurata come lo
sforzo o l’impegno di tenere insieme la salvezza e la storia, il vangelo e la
politica, come se fossero costitutivamente separati, è una pura ideologia, in
quanto immagina radicalmente fuori il secondo versante dall’ordine salvifico;
oppure m quanto si rappresenta piuttosto miticamente la storia come entità a sé
da ‘battezzare’. L’originario costitutivo impone una filosofia, con le sue
proprietà caratterizzanti: essa è un compito del credente – e ognuno, dotto o
indotto, la pone, sia pure con diversa teorizzazione. È vero che il
cristianesimo non può fare a meno della filosofia, ma il motivo è perché l’uomo
creato da Dio in Gesù Cristo è un essere “filosofico”, con quel che ne
consegue”.
5. La
“bibliolatria”
Il
culto della Sacra Scrittura, la riscoperta del suo valore vitale, gli studi di
cui è fatta oggetto rappresentano certamente una preziosa conquista del nostro
tempo. Possiamo anzi dire che ancora non è letta, meditata, amata abbastanza
dai cattolici: è augurabile che si abbia a progredire su questa strada a passo
più spedito e con animo più risoluto. Pure c’è qualcosa che ci inquieta nel
modo attuale di accostarci al Libro di Dio e ci spinge a formulare alcune
osservazioni, che proponiamo candidamente trascurando il rischio non ipotetico
di essere fraintesi e mal giudicati. Noi non siamo il “popolo del Libro”; a
rigore non siamo neppure il “popolo della Parola”: siamo il “popolo
dell’avvenimento”. La Parola di Dio risuona all’interno dell’evento salvifico
e, rendendolo non solo un fatto ma anche una illuminazione, non solo una “res”
ma anche un “signum” eloquente, non solo un “mistero” ma anche un “evangelo”,
lo offre alla nostra contemplazione perché la contemplazione ci porti alla
partecipazione intera della vita. La “pagina sacra” è il mezzo privilegiato con
cui possiamo arrivare alla “Parola” per nutrircene e vivere con intelligenza
nell’evento. Non è dunque un assoluto, ma è ordinata all’avvenimento.
L’avvenimento resterà nel Regno eterno, quando la Bibbia non avrà più
sussistenza e valore. Per circa un secolo la Chiesa non ha avuto un canone dei
libri sacri cristiani, senza che per questo potesse dirsi manchevole di qualche
elemento essenziale. Anche quando i vangeli non erano ancora stati scritti né
erano state ancora raccolte le lettere degli apostoli, la Parola di Dio
risuonava con tutta la sua forza nella Chiesa e la salvezza era presente e
operante. Chi si colloca integralmente all’interno dell’avvenimento, si pone
nelle condizioni di leggere giustamente la Sacra Scrittura e di coglierne il
senso ultimo. Chi non si colloca integralmente, o almeno non con sempre
rinnovata coscienza, all’interno dell’avvenimento, per quanto numerose,
erudite, scientificamente vagliate si facciano le sue citazioni è sempre in
pericolo di rimanere all’esterno del Libro di Dio e di non gustare la sua
saporosa sostanza. A cominciare dal demonio, che nelle narrazioni sinottiche
appare bravissimo nell’addurre i passi ispirati a sostegno delle sue
argomentazioni, la storia delle aberrazioni teologiche è caratterizzata
dall’abbondante ricorso da parte degli eretici ai testi scritturistici. E per
la verità anche ai nostri giorni assistiamo talvolta ad “alluvioni” di frasi
bibliche che nascondono una fondamentale infedeltà alla Parola di Dio. Ma c’è
una insidia più subdola e perniciosa: l’uso abbondante e quasi ossessivo della
Bibbia – staccato però dalla consapevolezza sempre richiamata dell’avvenimento
salvifico, il quale include anche la Sacra Scrittura e la trascende – può
condurre a una visione meramente “culturale” del cristianesimo e rendere l’atto
di fede non più un “assenso reale” ma un puro “assenso nozionale” mentre – come
splendidamente dice san Tommaso, “actus credentis non terminatur ad enuntiabile
sed ad rem”: l’atto di fede non ha come suo ultimo approdo una serie di nozioni
ma una realtà. La distinzione tra “assenso nozionale” e “assenso reale” è uno
dei concetti fondamentali della Grammatica dell’assenso, di J.H. Newman. In
realtà, in campo teologico la questione è ancora più seria di quel che per il
campo pastorale abbiamo qui cercato di dire. Il pericolo sta nell’insensibile
ma sempre più vasto affermarsi della tendenza (crediamo non pienamente
consapevole) a considerare la “res” – attinta nell’atto di fede, quando l’atto
di fede c’è veramente – scientificamente inconoscibile come il “noumeno”
kantiano, e quindi non più oggetto di attività teologica, la quale si esercita
soltanto sul “fenomeno”. Di qui la risoluzione della teologia nell’esegesi, e
poi anche nella storiografia, nella metodologia, nello studio delle mediazioni
con le filosofie contemporanee, nella psicologia religiosa, nella sociologia
religiosa ecc. Sventurato quel teologo o quell’esegeta che, pensando a Gesù
Cristo, primariamente e come d’istinto si richiama a un personaggio della
catechesi sinottica o a un tema della speculazione di Paolo, e non al Salvatore
che si rispecchia sì nei Libri sacri ma soltanto in quanto antecedentemente a
tutto esiste in sé, fuori e prima di ogni testimonianza, come qualcuno che
vive. Un uomo dal semplice cuore cattolico, alla domanda: “Dov’é Gesù?”
risponde in modo del tutto ovvio e naturale: “In cielo alla destra del Padre e
in chiesa nel tabernacolo”, senza che gli passi lontanamente per la testa di
tirare in campo la Sacra Scrittura. Questo, per lui, è l’indirizzo di una
persona reale e concreta. Guai se l’interrogazione cominciasse ad avere come
risposta: “Si trova nel vangelo di Luca, nel ‘corpus’ giovanneo, nella lettera
agli Ebrei”; cominciasse cioè ad avere come risposta l’indicazione di un
“luogo” letterario. Nei modi aberranti che qui si sono descritti la Sacra Scrittura
diventa non, come deve essere, una forma eccezionale di accostamento al mistero
che trasforma e ci salva, ma un diaframma tra noi e il Signore Gesù. Così
sarebbe un “idolo”. Da questo ” idolo ” deve essere purificato il santuario del
nostro cuore e il “tempio” della comunità cristiana radunata in Cristo e
offerta al Padre dall’impeto dello Spirito.
Alcuni
segni di sanità teologica e pastorale
La
rassegna delle più diffuse “idolatrie” non deve indurci a credere che tutto sia
traviato nella cristianità e non ci siano più veri adoratori del Dio vivo.
Bisogna anzi riconoscere che lo Spirito Santo è all’opera oggi più che mai e
riesce coi suoi inattesi prodigi ad alleviare gli effetti nefasti di una
insipienza ecclesiale che ha raggiunto ai nostri giorni vertici di eccezione. E
così le comunità cristiane, svigorite e disanimate da un’acutissima
mondanizzazione, ricevono vitalità e conforto dall’incontro con persone,
gruppi, movimenti che, con varie forme e colorazioni spirituali diverse,
sinceramente si determinano a una generosa adesione all’Evangelo e a una totale
partecipazione all’evento salvifico. Il fenomeno, che complessivamente è stato
una felice sorpresa dopo lo squallore di un secolarismo arido, chiassoso, senza
futuro, è composito, agitato, confuso e solleva il problema di una giusta
analisi e di una pacata valutazione. Da quali segni possiamo riconoscere, nella
concretezza di questo momento storico, la sanità teologica e pastorale delle
forze che vanno via via affiorando nel mondo cristiano? Dopo l’esperienza di
questi decenni e dopo una lunga riflessione, ci parrebbe di poter suggerire,
come contributo a un discernimento che non sia astratto e puramente nominale,
l’attenzione a tre note caratteristiche. Non sono certo le sole che si richiedono
né forse le più importanti in assoluto, ma sono quelle che più possono aiutare
nell’ora presente. La prima è il sentimento acuto della distinzione tra il bene
e il male, la consapevolezza che tra il bene e il male è in atto una lotta
irriducibile e la persuasione che in questo scontro – che è ancora in atto e lo
sarà fino alla venuta del Signore – ciascuno di noi è chiamato a combattere
nelle forme e secondo le possibilità che di fatto gli sono date La seconda è la
convinzione che Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio crocifisso e risorto, è il
Salvatore del mondo e non colui che deve essere salvato dal mondo. Egli è il
vincitore, e noi dobbiamo essere la sua vittoria. Perciò a lui – e quindi al
cristianesimo – è necessario ricorrere perché l’uomo viva, cresca, emerga dalle
sue contraddizioni e dalle sue schiavitù. Inversamente, non si arrivi mai a
pensare che solo l’apporto di estranee culture possa consentire a Cristo di
essere ancora vitale e al cristianesimo di essere ancora accettabile ai nostri
tempi (1). La terza è la percezione della bellezza della Chiesa e l’ammirato
stupore per questo capolavoro dell’amore del Padre; o almeno la certezza di
fede che la Chiesa è la realtà più bella, più santa, più nobile che l’infinita
potenza di Dio di fatto ha ricavato dalla nostra terra polverosa e dalla nostra
umanità disastrata.
NOTE
(1) La
retorica circa il “dialogo” e il “confronto” – che sono attitudini lodevoli in
se stesse, quando non diventano i nuovi nomi del cedimento e della
mondanizzazione – ha innegabilmente contribuito a una “smobilitazione generale”
dei cristiani, che ha pochi precedenti nella storia. Anche l’uso acritico e
indiscriminato di alcune frasi, che adoperate a proposito hanno una loro
validità, ha contribuito al diffondersi dello spirito di resa o almeno alla
confusione. Ne citiamo qualcuna, per non restare nel vago.
“Bisogna
distinguere tra l’errore e l’errante”. Principio giustissimo, ma da applicarsi
con due avvertenze: che di fatto l’affermazione non si traduca nel non
distinguere più tra l’errore e la verità; che ci si renda conto che, se la
condanna dell’errore non deve restare un’inutile astrazione, il popolo
cristiano va messo in guardia anche da colui che di fatto semina l’errore,
naturalmente senza cessare di volere il suo vero bene e lasciando sempre a Dio
il giudizio sulle intenzioni profonde delle persone.
“Bisogna
guardare più a ciò che ci unisce che non a ciò che ci divide”. Questo principio
vale solo in proporzione alla vastità e all’importanza di ciò che ci unisce e
all’esiguità di ciò che ci divide. Quando si ha la stessa fede nella Trinità,
in Cristo, Figlio di Dio, crocifisso e risorto, nella vita eterna, è del tutto
insipiente litigare su quando e come vada cantato l’alleluia. Ma quando la
divisione verte sulle questioni sostanziali, il volerla accantonare e quasi
dimenticare vuol dire snaturarsi nel profondo e perdere la propria identità;
così l’ecumenismo diventa davvero, come amaramente è stato detto, una “comune
apostasia”.
“La
Chiesa deve diventare credibile”. Così come suona, il concetto è mal formulato
e inaccettabile, perché fa delle esigenze e delle persuasioni degli uomini il
metro per giudicare l’azione e la realtà dei cristiani, mentre l’unico metro
resta il Signore Gesù e la sua verità. La Chiesa deve sforzarsi di essere
sempre più credente; in tal modo diventerà sempre più credibile agli occhi dei
non credenti ben disposti, che ricercano la verità, e sempre più incredibile
agli occhi dei non credenti che non hanno nessuna voglia di credere.
“Bisogna
guardarsi dai profeti di sventura”. Se la frase vuol dire di evitare coloro che
tentano di uccidere le ragioni della speranza cristiana – tra le quali emergono
l’esistenza di Cristo vivo e Signore, e l’inalienabile bellezza della Chiesa –
allora è giusta e da approvare. Se vuol dire che bisogna sempre dire a tutti i
costi e per tutte le circostanze che tutto va bene, allora è smentita dalla
parola di Dio. Di solito i veri profeti sanno annunziare anche il dolore e
sanno denunziare il male; gli annunziatori di facile allegria, di tranquillità
senza lotta, di immancabile benessere, nella Bibbia sono i falsi profeti (cfr.
Ger 14,13-16; 23,17; 27,9-10).
“Non
bisogna essere manichei”. Il manicheismo consiste nel credere all’esistenza di
due princìpi assoluti, due dèi, uno del bene e uno del male; il manicheo non
crede quindi al Dio buono, creatore di tutto, né alla sua vittoria finale.
Questa è un’aberrazione da condannare. Definire manicheo invece chi vuol
distinguere tra il vero e il falso, tra il buono e il cattivo, tra il giusto e
l’ingiusto, tra ciò che è conforme alla volontà di Dio ed è perciò da seguire,
e ciò che è difforme ed è perciò da respingere, è un modo truffaldino di
combattere il cristianesimo dandogli prima una falsa e infamante etichetta.
G.
BIFFI, La bella, la bestia
e il cavaliere. Saggio di teologia inattuale, Milano, Jaca Book,
1984, pp. 20-41.
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