Rilancio un interessante
contributo del domenicano P. Cavalcoli sull’ideologia ecumenista del defunto
card. Martini.
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L’ecumenismo secondo il Cardinale Martini
di Giovanni Cavalcoli
Uno degli equivoci più gravi e
diffusi che oggi affliggono la Chiesa è un certo concetto dell’ecumenismo, che
si vorrebbe far risalire al Concilio Vaticano II, ma che in realtà ne è una
falsificazione relativista e indifferentista.
Esso suppone la negazione del
primato del cattolicesimo sulle altre confessioni cristiane, secondo quanto era
già stato definito dal Concilio di Firenze del 1442 (Denz. 1351), per cui
l’ecumenismo si esaurirebbe in un’amichevole reciprocità tra le varie
confessioni cristiane su di un piede di parità, senz’alcun obbligo dei non
cattolici di entrare nella Chiesa cattolica ai fini della salvezza.
Dunque, quel cattolico che
volesse persuadere un protestante o un ortodosso a farsi cattolico,
assomiglierebbe a un francescano che volesse persuadere tutti i domenicani a
farsi francescani. Un francescano del genere sarebbe come chi pensasse che
essere francescano o domenicano non fossero semplicemente due modi diversi
ugualmente legittimi di essere cattolico, ma come se il cattolico veramente
completo e totalmente genuino fosse solo il francescano, mentre il domenicano
fosse un cattolico incompleto o fuori strada, bisognoso di correzione o
d’integrazione.
Ma una siffatta idea del rapporto
tra i cattolici e i non-cattolici, almeno per quanto riguarda il
protestantesimo, e si può immaginare che valga anche per l’ortodossia e per
ogni altra formazione non-cattolica, è già stata esclusa dal Beato Pio IX nel
Sillabo, quando il Pontefice condanna la seguente proposizione: “Il
protestantesimo non è altro che una diversa forma della medesima vera religione
cristiana, nella quale forma è dato di piacere a Dio come nella Chiesa
cattolica” (D. 2918). Così pure Pio IX condanna sempre nel Sillabo sia il
liberalismo che l’indifferentismo. Per quanto riguarda il primo:“C’è libertà
per ognuno di abbracciare e professare quella religione, che egli, condotto dal
lume della ragione, giudica essere vera” (D. 2915) e il secondo: “Gli uomini
possono trovare la via dell’eterna salvezza e la stessa eterna salvezza nel culto
di qualunque religione” (D. 2916).
In nome della diversità e del
pluralismo, ogni confessione cristiana, compresa la cattolica, avrebbe un
valore relativo all’insieme del cristianesimo, ossia alla collezione di tutte
le confessioni cristiane (relativismo) e quindi un valore solo particolare
all’interno della più ampia Chiesa di Cristo, la quale comprenderebbe parimenti
non solo i cattolici, ma anche le altre confessioni non cattoliche.
Per salvarsi, quindi, non farebbe
alcuna differenza (indifferentismo) appartenere a questa o a quella
confessione, perché tutte, benché diverse tra di loro, hanno lo stesso valore e
tutte sono vie sufficienti di salvezza: basta che uno faccia liberamente e con
convinzione la propria scelta e vi resti fedele (liberalismo). Non c’è
nessun obbligo di scegliere il cattolicesimo, ma ognuno è libero di scegliere
la religione che preferisce, come in un supermercato ognuno può scegliere i
prodotti che preferisce. È quella che oggi alcuni chiamano la
“religione-fai-da-te”.
L’individuo, da solo o in
gruppo (sètta) mette assieme, magari in seguito ad esperienze di
autoesaltazione (carismatismo) elementi di varie religioni a suo arbitrio e si
costruisce una religione per conto proprio (sincretismo). Da qui sorge la
molteplicità delle sètte, che in fin dei conti nascono proprio dalle formazioni
classiche uscite dalla Chiesa cattolica come loro atteggiamenti estremistici
facilmente squilibrati anche dal punto di vista psicologico.
Detto tra parentesi, ci sarebbe
qui anche la cosiddetta “libertà religiosa”, concetto anche questo sostenuto
dal Concilio nella Dichiarazione Dignitatis humanae, ma anche in questo caso si
ha uno stravolgimento di quanto il Concilio intende dire. In realtà l’idea
liberale, che qui è in gioco, di libertà religiosa, è ben diversa dall’idea
cattolica sostenuta dal Concilio, anche se l’espressione verbale è la
stessa.
Infatti, mentre nel caso del
liberalismo, già condannato a suo tempo dal Beato Pio IX, non si ammette, in
materia religiosa, una verità universale e oggettiva e quindi vincolante per
tutti (soggettivismo), questa invece è affermata dalla fede cattolica e ancor
prima dalla sana ragione naturale (oggettivismo), per cui la coscienza
soggettiva è legittima regola di condotta solo nel caso dell’errore in buona
fede e non come regola assoluta della verità.
Ciò vuol dire, in altre
parole, che per la sana ragione e quindi per la fede la coscienza del soggetto
deve regolarsi sulla verità oggettiva, ma capita che se senza volere non ci
riesca, in tal caso ma solo in tal caso la coscienza soggettiva, benché errata,
può essere regola per l’agire morale del soggetto e quindi per la scelta di una
religione, anche se non è quella cattolica.
Occorre d’altra parte osservare
che il modo stesso col quale si sono formate le Chiese e le comunità dei
fratelli separati è ben diverso dal modo col quale sono nate nel corso di
secoli all’interno della Chiesa le diverse famiglie religiose, come per esempio
quelle dei domenicani e dei francescani. Mentre infatti le prime, come nota il
documento conciliare, “si sono staccate dalla piena comunione della Chiesa
cattolica” (n.3), gli istituti religiosi cattolici sorgono sì a volte da
un’ansia riformatrice e da una certa critica alla Chiesa ufficiale, ma sempre
dal seno della Chiesa, restando nel seno della Chiesa, alla quale vogliono
servire, consapevoli che Cristo ci è dato dalla Chiesa cattolica e senza
pretese arroganti di costruire una Chiesa migliore più conforme alla volontà di
Cristo, ma anzi con la volontà di realizzare con lei una comunione più
profonda.
Mentre infatti il Concilio a
proposito dell’origine storica delle formazioni non-cattoliche (non degli
attuali fratelli separati) parla di “peccato della separazione”, è chiaro che
il sorgere di nuove famiglie religiose all’interno della Chiesa è sempre stato
da lei approvato e lodato e se un istituto si allontana dalla sua originaria
ispirazione cattolica, la Chiesa si sforza di ricondurlo con opportune riforme
alla sua natura originaria. E se sul momento non vi riesce, non si rassegna a
tale situazione anomala e neppure la legalizza, magari con la scusa
dell’ecumenismo, ma va in cerca della pecorella smarrita, e si adopera
maternamente per ricondurla a sé come sta avvenendo per esempio con la
Fraternità S. Pio X di Mons. Lefèbvre.
C’è da notare inoltre che il
documento conciliare presenta la divisione tra i cristiani non come se la
Chiesa, al sorgere di quelle formazioni scismatiche o ereticali, si sia per
così dire disintegrata e abbia perduto la sua unità come un vaso che va in frantumi.
Chi intendesse le cose in questo senso, sarebbe completante fuori strada. Un
conto sono infatti i contrasti fra i singoli cristiani, dove può esserci torto
e peccato contro l’unità da ambo le parti e un conto è il rapporto fra Chiesa
cattolica a e formazioni cristiane anticattoliche. Chi infrange la carità o
spezza l’unità dei cristiani sono quei contrasti, mentre la Chiesa cattolica
mantiene la propria unità. Il Concilio in un’infinità di luoghi ribadisce la
tradizionale dottrina secondo la quale il sorgere delle eresie e degli scismi
non ha affatto compromesso la sostanziale ed indefettibile unità della Chiesa,
che, come sappiamo bene, è una delle sue note essenziali.
D’altra parte bisogna distinguere
l’unità della carità dall’unità della fede. Nella Chiesa può a volte mancare la
carità reciproca, ma questo non implica necessariamente la corruzione della
fede. Il guaio serio è invece quando vien meno l’unità della fede attorno al
Vicario di Cristo. È a questo punto che il singolo o il gruppo eretico si
separa dalla Chiesa, anche se magari continua a restarci solo esteriormente, ma
la Chiesa in se stessa conserva sempre l’unità della fede.
Per questo l’ecumenismo non
chiede affatto di ricomporre l’unità della Chiesa, perché essa esiste già
infallibilmente garantita dallo Spirito Santo, e quindi non verrà mai meno; e
neppure si tratta di legittimare le divisioni scambiandole per “diversità”,
come fossero quasi un valore, secondo la mentalità liberale, relativistica e
indifferentistica, che abbiamo visto e secondo una falsa concezione della
diversità nel modo di essere cristiani.
L’ecumenismo non è la
riconciliazione tra le dottrine, ossia tra il dogma e l’eresia, ché questo non
ha senso, ma, fra i cristiani; e questa è ben altra cosa e preziosissima, un
affare di grande carità, giustizia e reciproca comprensione. Qui sta il gran
pregio, la provvidenziale novità, l’invitta speranza, la benedizione celeste
dell’ecumenismo, del vero ecumenismo, non della sua contraffazione modernista:
ritrovare i valori comuni che sono rimasti dopo i drammi delle divisioni e su
quella base deve attuarsi l’opera dei cattolici per condurre i fratelli alla
piena comunione con Roma. L’ecumenismo, dice sempre il documento, tende appunto
al “superamento” di questi “impedimenti che si oppongono alla piena comunione
ecclesiastica” (ibid.).
Dovere quindi dei fratelli
separati non è quello di ostinarsi orgogliosamente nei loro errori, quasi
fossero l’ultimo ritrovato della scienza biblica o teologica più avanzata, ma
di porsi in umile atteggiamento di ascolto e di accoglienza della pienezza
della verità. Un ecumenismo dove i fratelli separati, gonfi di se
stessi, fanno da padroni e da maestri e i cattolici raccolgono le briciole che
cadono dal tavolo dei padroni, soffrendo di un complesso di inferiorità e
crogiolandosi in esso col credere di essere “progressisti”, è una tragica
buffonata escogitata dal demonio.
Si noti bene il linguaggio del
Concilio: esso non parla di frantumazione della Chiesa, ma di formazioni che si
sono staccate dalla Chiesa. L’immagine dunque non è quella di un organismo che
si decompone o entri conflitto con se stesso, ma è l’immagine evangelica della
vite, dalla quale si staccano dei tralci. Qual è quel vignaiolo, il quale, per
rispettare un tralcio o un ramo semistaccato nella sua diversità dalla vite,
invece di sforzarsi di reinserirlo, se gli è possibile, nella vite, lo lascia
per conto suo come segno del pluralismo delle forme vitali della sua vigna?
Ora, proprio il Decreto
sull’ecumenismo Unitatis redintegratio del Concilio Vaticano II, nella linea
dei suddetti insegnamenti di Pio IX e del Concilio di Firenze, ricorda che “le
comunità separate hanno delle carenze” (n.3) e che “la pienezza della grazia e
della verità è stata affidata alla Chiesa cattolica” (ibid.). “I fratelli da
noi separati … non godono di quella unità, che Gesù Cristo ha voluto elargire a
tutti quelli che ha rigenerato e vivificato… Infatti, solo per mezzo della
Chiesa cattolica di Cristo, che è lo strumento generale della salvezza, si può
ottenere tutta la pienezza dei mezzi di salvezza. In realtà al solo collegio
apostolico con a capo Pietro crediamo che il Signore ha affidato tutti i beni
della nuova Alleanza, per costituire l’unico corpo di Cristo sulla terra, al
quale bisogna che siano pienamente incorporati tutti quelli che già in qualche
modo appartengono al popolo di Dio” (ibid.).
Se dunque le cose stanno così,
appare evidente la conseguenza pratica che il cattolico deve trarre, per quanto
sta in lui e con l’aiuto dello Spirito Santo: adoperarsi continuamente e in
ogni occasione favorevole, opportune et importune, con ogni diligenza, costanza
e prudenza a che i fratelli separati, la cui Chiesa o comunità non possiede la
pienezza della verità e della grazia, ma al contrario, è soggetta a carenze,
possa eliminare queste carenze, aggiungere ciò che manca, togliere ciò che è
spurio, correggere ciò che è errato, per poter giungere a quella pienezza di
grazia e di verità che solo la Chiesa cattolica possiede.
Con ciò il Concilio non fa che ricongiungersi
con la tradizionale opera che tanti Santi cattolici, pensiamo per i secoli
passati come un S. Domenico, un S. Ignazio di Loyola, un S. Pietro Canisio, un
S. Giovanni di Colonia, un S. Francesco di Sales, un S. Giosafat o un Beato
Marco d’Aviano, si sono adoperati, con grande zelo e coraggio, alcuni sino al
martirio, per condurre o ricondurre a Roma i fratelli dissidenti o anche gli
stessi eretici.
Ora, se tutto ciò è il vero
ecumenismo, così come risulta dal documento del Concilio appena esaminato, si
rimane amareggiati nel constatare come purtroppo questi saggi insegnamenti
siano spesso disattesi. Si è passati da un atteggiamento di esagerata e
sbrigativa condanna, precedente al Concilio, all’attuale clima di equivoci,
cedimenti e inganni, nel quale gli errori dei non-cattolici sono taciuti; e
magari ci si fermasse anche solo a ciò. Il fatto è che tali errori a volte
sono esaltati quasi fossero le ultime conquiste della teologia e dell’esegesi
biblica, con la conseguenza che invece di essere gli acattolici ad avvicinarsi
a Roma, sono i cattolici che cadono nella rete, perdono la fede cattolica, pur
mantenendo l’etichetta di cattolici e conservando posti d’insegnamento anche
accademico.
E purtroppo questa falsa visione
dell’ecumenismo si incontra a volte anche in certi prelati, come per esempio fu
nel Card. Carlo Maria Martini, il quale sostiene che la nuova
evangelizzazione promossa dal Beato Giovanni Paolo II “non è una
ricattolicizzazione, nel senso temuto da protestanti e ortodossi in Europa. Recentemente
ho partecipato all’assemblea degli ortodossi e dei protestanti europei, che si
è tenuta a Praga, e ho sentito espresso fortemente il timore che la chiesa
cattolica voglia una ricattolicizzazione, oscurando e quindi in qualche modo
contrastando la loro opera e la loro presenza in Europa” (Intervento alla
tavola rotonda del XIV convegno europeo promosso a Varese nel 1992 dalla
Fondazione Paolo VI, in Sogno un’Europa dello Spirito, Ed. Piemme
1999, p.235).
Possiamo osservare che
effettivamente la nuova evangelizzazione può e deve essere intesa, per certi
aspetti, opera comune con i fratelli separati; ma se il Concilio insegna a
chiare lettere che essi mancano di alcuni aspetti essenziali alla verità cristiana
– per esempio il primato del Sommo Pontefice o il concetto di Chiesa o i dogmi
mariani o l’indissolubilità del matrimonio –, come la nuova evangelizzazione
non dovrà anche trovare il modo di condurre quei fratelli ad una piena
accettazione del Vangelo e quindi ad una piena comunione con la Chiesa
cattolica?
Se questi fratelli temono che noi
cattolici ci proponiamo di convincerli ad accogliere i dogmi che in loro sono
assenti o negati, con la conseguente piena obbedienza a Roma, quale dovrà
essere l’atteggiamento giusto di noi cattolici? Dobbiamo rassegnarci supinamente
e per rispetto umano e forse anche una punta di relativismo o scetticismo a
questo loro vano timore o non sarà meglio forse far loro capire, con ogni mezzo
e non senza pregare il Signore, che quel timore è assolutamente irragionevole e
che non hanno nulla da perdere ma tutto da guadagnare a entrare in comunione
con Roma?
Il fatto che si tratti di
formazioni cristiane ormai con secoli di storia alle spalle, con loro
tradizioni e istituzioni, magari solide e venerande, una loro teologia, a volte
eccellente, una loro vita morale elevata, un’organizzazione ecclesiale o
comunitaria magari sapiente ed efficace e una ricca e svariata spiritualità,
non ci deve intimidire al punto da provocare in noi una specie di blocco
psicologico o un inopportuno senso reverenziale, che paralizzi ogni iniziativa
tesa a portare loro ulteriori luce, iniziativa, incitamento, sostegno, forza e
conforto nell’acquisizione e nell’esperienza del Vangelo.
È ovvio che è nostro sacro
dovere, come dice il Concilio, riconoscere tutti gli elementi di verità e di
santificazione che sono in essi presenti, ma ciò non impedisce, anzi implica la
ferma volontà, con l’aiuto del Signore di adoperarci con generosità, carità,
fermezza e prudenza, affinché quando Dio vorrà, essi
gradualmente, fiduciosamente, liberamente e gioiosamente vogliano lasciarsi
accogliere dall’abbraccio materno e universale della Chiesa cattolica, dove
soltanto c’è la pienezza della verità e della grazia, nonché la via
completa della salvezza.