Interessante saggio storico sulle c.d. seconde nozze in epoca antica.
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I primi cristiani non si risposavano
I primi cristiani non si risposavano
Uno
studioso gesuita sostiene che la storia, non l’apologetica, fonda la disciplina
del matrimonio
Dopo l’intervento
di Monsignor Zoghby al Concilio Vaticano II, sono stati pubblicati numerosi
libri ed articoli che cercavano di rimettere in questione la disciplina della
Chiesa cattolica in materia di divorzio e nuovo matrimonio. Molti dei loro
autori hanno cercato appoggio nelle testimonianze che restano della Chiesa
primitiva e hanno interpretato i testi in questo senso. Spesso si tratta di
teologi o di canonisti che non sono specialisti dei primi secoli cristiani e
conoscono poco le esigenze del metodo storico. Desiderosi di avere un impatto
sul pubblico, essi non sono disposti ad impelagarsi in discussioni che non
possono che appesantire il libro e scoraggiare i lettori: fissano pertanto in
maniera oracolare il senso di ciascun passaggio senza impegnarsi negli studi
necessari. Il risultato, di conseguenza, non soddisfa lo storico, che non può
che deplorare l’influenza che tali saggi esercitano sul grande pubblico,
attirando vane speranze. Se egli decide di formulare delle precisazioni, non
può affatto sperare che arriveranno ad essere note a questo stesso pubblico,
anzitutto perché le sue spiegazioni non piaceranno più di tanto e, soprattutto,
in quanto esse non saranno lette, esigendo troppo sforzo da parte del lettore
medio e anche degli autori in questione, che non ne tengono quasi in nessun
conto. Proiettando sullo storico il desiderio di provare una tesi mediante la
storia, corroborati in questo dalle moderne filosofie del “sospetto”, tali
autori vedono in lui solo un apologista, non capendo che non si possa volere
altro se non la dimostrazione di una tesi e che la ricerca storica esige lo
sforzo di non partire dal proprio punto di vista e dalle proprie concezioni.
Essi sembrano ritenere, in
effetti, che ogni studio che porti a risultati conformi all’ortodossia non può
che essere apologetico. Questo aggettivo presuppone che lo storico non abbia
fatto il proprio dovere, che era non di provare una tesi ma di rilevare il
senso reale dei fatti storici. Sarebbero degli storici “oggettivi” solo coloro
le cui conclusioni contraddicono l’ortodossia. Ma, se allora non sono degli
apologisti, non potrebbero essere dei contro-apologisti, il che è lo stesso,
supponendo anch’essi una tesi preconcetta? Tendere a mantenere una tesi
considerata come trasmessa dalla tradizione o volere ad ogni costo rispondere a
bisogni contemporanei, non sono, forse, agli occhi dello storico, due
atteggiamenti ugualmente sospetti? Sembra esserci una certa contraddizione
nell’affermare, da una parte, la sua soggettività e nel manifestare,
dall’altra, l’intenzione di adattarsi all’attualità.
Inoltre, la storia si fa solo con
documenti esistenti e che si spiegano il più possibile gli uni con gli altri, e
non a partire da ipotesi non provate. Si può ben supporre che testimonianze in
senso contrario siano scomparse o che pratiche opposte non abbiano lasciato
tracce scritte. Ma tutto ciò non conta per lo storico, in quanto egli può
studiare solo ciò che è conservato per evitare di cadere nell’immaginario e
nell’arbitrario. Si può anche pensare che tutti i cristiani dell’epoca non
siano stati dei santi nel loro comportamento matrimoniale, che alcuni si siano
sposati dopo aver divorziato e anche che ciò sia stato accettato da alcuni
vescovi: la testimonianza di Origene lo dimostra. Ma una cosa è supporlo o
constatarlo, e altra cosa è determinare in quale misura la Chiesa , per bocca o per il
calamo dei suoi Pastori, dei Padri o dei Concili i cui scritti o canoni non
sono pervenuti, accettasse, tollerasse o riprovasse la loro condotta. Si
tratta, per lo storico, di due questioni differenti che non vanno confuse.
In una prima parte esamineremo uno
ad uno i principi di interpretazione diverse volte invocati, per trovare
l’autorizzazione a seconde nozze dopo il divorzio in testi che non lo dicono
esplicitamente. Una seconda parte indicherà diversi metodi che impediscono allo
storico di considerare seriamente molti di questi lavori.
Il ruolo dello storico è quello di
interpretare i passaggi che studia. Ma tale interpretazione deve scaturire dal
testo stesso o da un confronto con altri testi dello stesso autore o dello
stesso periodo. La sua interpretazione non deve essere proiettata dal di fuori,
stabilita a priori a partire dalle sue idee o da quelle del suo tempo. A
maggior ragione non deve essere in contraddizione con i dati storici. Ad
esempio, è un grave errore contro la storia interrogare uno scrittore su una
problematica a lui posteriore e chiedergli di risolvere problemi che egli non
si è posto: in seguito a simili errori di metodo spesso è stato possibile
accusare ingiustamente dei teologici antichi, e tra i più grandi, di aver
professato eresie che erano a loro posteriori, poiché alcune formule da loro
ingenuamente impiegate avevano ricevuto successivamente un senso eretico,
mentre la loro opera, esaminata nel suo insieme, mostra che essi non erano
affatto tentati da questa devia- zione dottrinale. Quanto diciamo della
problematica deve intendersi anche dell’ermeneutica: come possiamo interpretare
correttamente dei testi di Origene senza conoscere le regole fondamentali della
sua esegesi allegorica e del suo comporta- mento di fronte alla Scrittura, così
come risultano dalla sua pratica e dalla teoria che a più riprese ne ha fatto?
Si tratta pertanto di far uscire
la teoria dai testi e non di piegarli ad una teoria imposta dal di fuori: i
principi di interpretazione devono essere giudicati a partire dai testi, alla
luce di criteri storici. Troppo spesso, in effetti, tali principi sono
presentati come un’evidenza di buon senso: in altri termini, essi riproducono
le concezioni di coloro che le impiegano e quest’ultime non concordano
necessariamente con quelle dell’epoca alla quale sono state applicate. Oppure
derivano da un’idea troppo sommaria del periodo di cui si tratta, e che ha il
sapore di uno slogan. Evidentemente non c’è bisogno di provarle, sono dei
principi indiscutibili! L’ermeneutica rischia allora di diventare l’arte di
trarre da un testo il contrario di ciò che dice.
I cristiani non potevano fare ciò
che il diritto civile non contemplava: si tratta del più importante di questi
principi. Si presenta sotto forme diverse, alcune delle quali saranno studiate
separatamente. Per essere più chiari: “I cristiani non potevano ammettere una
separazione che non permettesse nuove nozze, in quanto una tale istituzione era
sconosciuta al diritto romano”. Di conseguenza, ogni qualvolta i Padri parlano
di separazione per adulterio senza menzionare la possibilità di seconde nozze,
la sottintendono certamente. E la loro concezione dell’adulterio doveva essere
quella che era per i Romani, differente per l’uomo e per la donna: ritorneremo
più avanti su questo secondo punto.
Questo principio è in disaccordo
con i dati storici? Dobbiamo sicuramente rispondere di no. Riguardo ai punti
sui quali verte la nostra attenzione i Padri si oppongono molto spesso alle
disposizioni del diritto romano: per quel che riguarda divorzio e nuove nozze,
possiamo vedere proteste simili in Giustino, Atenagora, Gregorio di Nazianzo,
Giovanni Crisostomo, Ambrogio, Cromazio d’Aquileia, Agostino. Allo stesso modo
Lattanzio, Gregorio di Nazianzo, Asterio di Amasea, Giovanni Crisostomo,
Teodoreto di Cirro, Zeno di Verona, Ambrogio, Girolamo e Agostino rimproverano,
spesso in termini piuttosto accesi, alla legislazione civile la disuguaglianza
di atteggiamento nei confronti dell’uno e dell’altro sesso sulla questione
dell’adulterio. Una tale constatazione doveva bastare a screditare il principio
invocato.
Peraltro il testo che domina tutta
la teologia del matrimonio per gli antichi Padri, come per il Gesù dei Vangeli,
è Gen 2,22-24: è Dio che porta la sposa allo sposo, come Eva ad Adamo, e che ne
suggella l’unione, ed è per questo che quest’ultima è indissolubile. Dio
interviene nel matrimonio dei cristiani, che per questo non è più, per loro
come per i Romani, un semplice contratto bilaterale la cui rottura per mutuo
consenso non comportava alcuna difficoltà; in effetti soltanto il ripudio, che
è unilaterale, necessitava per loro di una procedura. Tale concezione cristiana
è già ben definita alla fine del II secolo con Tertulliano – Ad Uxorem
II,VIII,6 – e rivoluziona tutta l’idea esistente del matrimonio:
l’indissolubilità ne è la diretta conseguenza. Come sostenere dopo di ciò che i
cristiani non potessero avere del ripudio una nozione diversa di quella del
diritto romano?
Alla nostra
risposta vengono opposte tuttavia due obiezioni principali. Anzitutto ci si
stupisce del fatto che, se è come abbiamo appena detto, gli imperatori
cristiani avessero conservato, pur con numerose restrizioni, la possibilità di
un nuovo matrimonio. E si pretende anche, paradossalmente, che essi sarebbero
testimoni migliori del pensiero della Chiesa degli autori ecclesiastici della
loro epoca, quasi tutti, tuttavia, pastori e non puri teorici.
Ma nel IV e nel V
secolo l’Impero era popolato solo di cristiani e la legislazione imperiale,
fino al compromesso che Giustiniano, nel VI secolo, impose tanto alla Chiesa
d’Oriente quanto allo Stato, doveva disciplinare anche i pagani. Malgrado la
loro convinzione che Gen 2,24, inserito nel racconto della Creazione, riguarda
tutti gli uomini, anche i pagani, i Padri si sono in effetti occupati
unicamente delle loro pecorelle: soltanto un Concilio africano chiese che
l’indissolubilità fosse og- getto di una legge dell’Impero. Peraltro è
difficile pronunciarsi sull’autenticità dello spirito cristiano di certi
imperatori del IV e del V secolo. E’ stata anche obiettata la situazione della
donna separata, alla quale sarebbe vietato un nuovo matrimonio. Si afferma che
le sarebbe stato impossibile vivere sola, in quanto non avrebbe avuto nessuna
possibilità di lavorare e guadagnarsi la vita.
Indipendentemente da questa
affermazione, che sembra essere esagerata, questa era anche la condizione delle
vedove, di cui la Chiesa
non incoraggiava affatto un secondo matrimonio – questa affermazione in
generale non è contestata, ma piuttosto eccessivamente sottolineata – era anche
il caso delle vergini, la cui esistenza nella Chiesa del II e del III
secolo, prima dell’inizio del monachesimo, è attestata da svariati documenti.
Ma noi sappiamo che le vedove bisognose erano soccorse dalla comunità e che le
donne ripudiate erano ugualmente assistite. In effetti la Didascalia , nella
traduzione siriaca, ma anche nella rielaborazione greca delle Costituzioni
Apostoliche, scrive, a proposito delle giovani vedove, che esse non possono
essere accolte nell’ordine ecclesiastico delle vedove a causa della loro età,
ma che vengono aiutate se sono nell’indigenza: “Se ce n’è una, giovane, che è
stata poco tempo con il marito e, essendo il marito morto, o per un’altra
causa, si trova nuovamente isolata e resta così sola…”. Ogni donna priva del
sostegno di un marito e nel bisogno era pertanto a carico della comunità.
Più in generale il
principio che qui discutiamo nega al cristianesimo il diritto di avere la
benché minima originalità in rapporto alle istituzioni del tempo. Perché del
resto fermarsi a questo e limitarsi al matrimonio? E’ plausibile che, unica
nell’Impero, la Chiesa
si sia opposta al culto imperiale e abbia manifestato una tale intransigenza
nei confronti della religione ufficiale? Se essa aveva accettato gli usi romani
in materia di matrimonio, non aveva, forse, più ragione di farlo quando il
rifiuto di sacrificare comportava la tortura e la morte? Non bisognerebbe
concludere che tutto ciò che è detto dei martiri non può essere altro che
falso? Semmai il principio in questione toglie al messaggio cristiano ogni
possibilità di originalità.
Henri Crouzel S.I. (1918-2003), è stato docente di Patristica all’Istituto cattolico di Tolosa e all’Università Gregoriana di Roma
Fonte: Il Foglio, 16.10.2014
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