Come si è giunti al sinodo straordinario?
Ripercorriamo con Sandro Magister alcune tappe fondamentali del sinodo che è in via di conclusione, nel quale hanno avuto un ruolo significativo le tesi del card. Kasper e di mons. Forte.
* * * * * * * * * * *
La vera storia di questo sinodo.
Regista,
esecutori, aiuti
Nuovi
paradigmi su divorzio e omosessualità sono ormai di casa ai vertici della
Chiesa. Niente è stato deciso, ma papa Francesco è paziente. Un storico
americano confuta le tesi de “La Civiltà Cattolica”
di Sandro Magister
ROMA,
17 ottobre 2014 – “È tornato a soffiare lo spirito del Concilio”, ha detto il
cardinale filippino Luis Antonio G. Tagle, stella emergente nella gerarchia
mondiale oltre che storico del Vaticano II. Ed è vero. Nel sinodo che sta per
concludersi ci sono molti elementi in comune con ciò che accadde in quel grande
evento.
La
similitudine più appariscente è lo stacco tra il sinodo reale e il sinodo
virtuale veicolato dai media.
Ma
c’è una somiglianza ancor più sostanziale. Sia nel Concilio Vaticano II sia in
questo sinodo i cambi di paradigma sono il prodotto di una accurata regia. Un
protagonista del Vaticano II come don Giuseppe Dossetti – abilissimo stratega
dei quattro cardinali moderatori che erano al comando della macchina conciliare
– lo rivendicò con fierezza. Disse di “aver capovolto le sorti del Concilio”
grazie alla propria capacità di pilotare l’assemblea, appresa nella sua
precedente esperienza politica di leader del maggior partito italiano.
Anche
in questo sinodo è avvenuto così. Sia le aperture alla comunione ai divorziati
risposati – e quindi l’ammissione da parte della Chiesa delle seconde nozze –
sia l’impressionante cambio di paradigma in tema di omosessualità infilato
nella “Relatio post disceptationem” non sarebbero stati possibili senza
una serie di passi abilmente calcolati da chi aveva e ha il controllo delle
procedure.
Per
capirlo, basta ripercorrere le tappe che hanno portato a questo risultato,
anche se il provvisorio finale del sinodo – come si vedrà – non è stato pari
alle aspettative dei suoi registi.
Il
primo atto ha per protagonista papa Francesco in persona. Il 28 luglio 2013,
nella conferenza stampa sull’aereo che lo riporta a Roma dopo il suo viaggio in
Brasile, egli lancia due segnali che sull’opinione pubblica hanno un impatto
fortissimo e duraturo.
Il
primo sul trattamento degli omosessuali:
“Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, ma chi sono io per giudicarlo?”.
Il
secondo sull’ammissione delle seconde nozze:
“Una parentesi: gli ortodossi seguono la teologia dell’economia, come la chiamano, e danno una seconda possibilità [di matrimonio], lo permettono. Credo che questo problema – chiudo la parentesi – si debba studiare nella cornice della pastorale matrimoniale”.
Segue
nell’ottobre del 2013 la convocazione di un sinodo sulla famiglia, primo di una
serie di due sinodi sullo stesso tema nell’arco di un anno, con decisioni
rimandate a dopo il secondo. A segretario generale di questa sorta di sinodo
permanente e prolungato il papa nomina un neocardinale con nessuna esperienza
in proposito, ma a lui legatissimo, Lorenzo Baldisseri. Al quale affianca per l’occasione,
come segretario speciale, il vescovo e teologo Bruno Forte, già esponente di
spicco della linea teologica e pastorale che aveva avuto il suo faro nel
cardinale gesuita Carlo Maria Martini e i suoi maggiori avversari prima in
Giovanni Paolo II e poi in Benedetto XVI: una linea dichiaratamente aperta a un
cambio dell’insegnamento della Chiesa in campo sessuale.
All’indizione
del sinodo si associa il lancio di un questionario a raggio mondiale con
domande specifiche sulle questioni più controverse, comprese la comunione ai
risposati e le unioni omosessuali.
Anche
grazie a questo questionario – cui seguirà l’intenzionale pubblicazione delle
risposte da parte di alcuni episcopati di lingua tedesca – si ingenera nell’opinione
pubblica l’idea che si tratti di questioni da ritenersi già “aperte” non solo
in teoria ma anche in pratica.
Dà
prova di questa fuga in avanti, ad esempio, l’arcidiocesi di Friburgo, in
Germania, retta dal presidente della conferenza episcopale tedesca Robert
Zollitsch, che in un documento di un suo ufficio pastorale incoraggia l’accesso
alla comunione dei divorziati risposati sulla semplice base di “una decisione
di coscienza”.
Da
Roma il prefetto della congregazione per la dottrina della fede, il cardinale
Gerhard L. Müller, reagisce ripubblicando il 23 ottobre 2013 su “L’Osservatore
Romano” una sua nota già uscita quattro mesi prima in Germania che riconferma e
spiega il divieto della comunione.
A
nulla vale però il suo richiamo affinché l’arcidiocesi di Friburgo ritiri quel
documento. Anzi, sia il cardinale tedesco Reinhard Marx, sia con parole più
grossolane il cardinale honduregno Óscar Rodríguez Maradiaga criticano Müller
per la sua “pretesa” di troncare la discussione in materia. Sia Marx che
Maradiaga fanno parte del consiglio degli otto cardinali chiamati da papa
Francesco ad assisterlo nel governo della Chiesa universale. Il papa non interviene
a sostegno di Müller.
Il
20 e il 21 febbraio 2013 i cardinali si riuniscono a Roma in concistoro. Papa
Francesco chiede loro di dibattere sulla famiglia e delega a tenere la
relazione introduttiva il cardinale Walter Kasper, già battagliero sostenitore
nei primi anni Novanta di un superamento dei divieto della comunione ai
risposati, ma sconfitto, all’epoca, da Giovanni Paolo II e da Joseph Ratzinger.
Nel
concistoro, che è a porte chiuse, Kasper rilancia in pieno quelle sue tesi.
Numerosi cardinali gli si oppongono, ma Francesco lo gratifica di altissimi
elogi. In seguito, Kasper dirà di aver “concordato” col papa le sue proposte.
Inoltre,
Kasper ha dal papa il privilegio di rompere il segreto sulle cose da lui dette
nel concistoro, a differenza di tutti gli altri cardinali. Quando il 1 marzo la
sua relazione esce a sorpresa sul quotidiano italiano “Il Foglio”, la
stessa relazione è infatti già in corso di stampa presso l’editrice Queriniana.
L’eco della pubblicazione è immensa.
All’inizio
della primavera, per bilanciare l’impatto delle proposte di Kasper, la
congregazione per la dottrina della fede programma la pubblicazione su “L’Osservatore
Romano” di un intervento di segno opposto di un cardinale di primo piano. Ma
contro la pubblicazione di questo testo scatta il veto del papa.
Le
tesi di Kasper sono comunque oggetto di severe e argomentate critiche da parte
di un buon numero di cardinali, che intervengono a più riprese su diversi
organi di stampa. Alla vigilia del sinodo, cinque di questi cardinali
ripubblicano in un libro i loro interventi precedenti, col corredo di saggi di
altri studiosi e di un alto dirigente di curia, gesuita, arcivescovo, esperto
della prassi matrimoniale delle Chiese orientali. Kasper, con vasto consenso
nei media, deplora la pubblicazione del libro come un affronto mirato a colpire
il papa.
Il
5 ottobre si apre il sinodo. Contrariamente al passato, gli interventi in aula
non sono resi pubblici. Il cardinale Müller protesta contro questa censura. Ma
invano. Una prova in più, dice, che “non faccio parte della regia”.
Compongono
la centrale operativa del sinodo i segretari generale e speciale, Baldisseri e
Forte. Ma ad essi il papa affianca, scelti da lui personalmente, coloro che si
occuperanno della stesura del messaggio e della “Relatio” finali, tutti
appartenenti al partito del cambiamento, con alla testa il suo fidato
ghostwriter Víctor Manuel Fernández, arcivescovo e rettore dell’Università
Cattolica di Buenos Aires.
Che
questa sia la vera cabina di regia del sinodo diventa clamorosamente evidente
lunedì 13 ottobre, quando davanti a duecento giornalisti di tutto il mondo il
cardinale delegato che figura come l’autore formale della “Relatio post
disceptationem”, l’ungherese Péter Erdö, interrogato sui paragrafi riguardanti
omosessualità, rifiuta di rispondere e cede la parola a Forte dicendo: “Quello
che ha redatto il brano deve sapere lui cosa dire”.
Alla
richiesta di chiarire se i paragrafi sull’omosessualità possano essere
interpretati come un cambio radicale nell’insegnamento della Chiesa in materia,
ancora il cardinale Erdö risponde: “Certamente!”, marcando anche qui il suo
disaccordo.
In
effetti questi paragrafi riflettono non un orientamento espresso in aula da un
consistente numero di padri – come ci si aspetta di leggere in una “Relatio”
– ma le cose dette da non più di due individui su quasi duecento. Uno dei due è
il gesuita Antonio Spadaro, direttore de “La Civiltà Cattolica”,
nominato membro del sinodo personalmente da papa Francesco.
Martedì
14 ottobre, in conferenza stampa, il cardinale sudafricano Wilfrid Napier
denuncia con parole taglienti l’effetto della prevaricazione operata da Forte
con l’inserire nella “Relatio” quegli esplosivi paragrafi sull’omosessualità.
Essi, dice, hanno messo la Chiesa in una posizione “irredeemable”, senza
vie d’uscita. Perché ormai “il messaggio è partito: questo è ciò che dice il
sinodo, questo è ciò che dice la Chiesa. A questo punto non c’è correzione che
tenga, tutto quello che possiamo fare è solo tentare di limitare i danni”.
In
realtà, nei dieci circoli linguistici in cui i padri sinodali proseguono la
discussione, la “Relatio” va incontro a un massacro. A cominciare dal
suo linguaggio “touffu, filandreux, excessivement verbeux et donc ennuyeux”,
come denuncia impietoso il relatore ufficiale del gruppo “Gallicus B” di
lingua francese, che pur comprende due campioni di tale linguaggio – e dei suoi
contenuti altrettanto vaghi ed equivoci – come i cardinali Christoph Schönborn
e Godfried Danneels.
Ripresi
giovedì 16 ottobre i lavori in aula, il segretario generale Baldisseri, con a
fianco il papa, dà l’avviso che i rapporti dei dieci gruppi non saranno resi
pubblici. Esplode la protesta. Il cardinale australiano George Pell, fisico e
temperamento da giocatore di rugby, è il più intransigente nell’esigere la
pubblicazione dei testi. Anche il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin
si associa. Baldisseri cede. Lo stesso giorno, papa Francesco si vede costretto
a integrare il pool incaricato di scrivere la relazione finale, immettendovi l’arcivescovo
di Melbourne Denis J. Hart e soprattutto il combattivo cardinale sudafricano
Napier.
Il
quale, però, aveva visto giusto. Perché qualunque sia lo sbocco di questo
sinodo programmaticamente privo di una conclusione, l’effetto voluto dai suoi
registi è in buona misura raggiunto.
Sull’omosessualità
come sul divorzio e le seconde nozze, infatti, il nuovo verbo riformatore
comunque immesso nel circuito mondiale dei media vale più del favore
effettivamente raccolto tra i padri sinodali dalle proposte di Kasper o di
Spadaro.
La
partita potrà durare a lungo. Ma papa Francesco è paziente. Nella “Evangelii
gaudium” ha scritto che “il tempo è superiore allo spazio”.
*
Nel
pilotare il sinodo verso l’ammissione alla comunione dei divorziati risposati
si è mostrata particolarmente intraprendente “La Civiltà Cattolica”, con la
pubblicazione di un articolo secondo cui già il Concilio di Trento avrebbe
aperto un varco in questa direzione:
“La
Civiltà Cattolica” è diretta dal gesuita Antonio Spadaro ed è ogni volta
stampata con il previo esame e l’approvazione delle massime autorità vaticane,
in questo caso è facile immaginare con il personale “placet” del papa, con cui
padre Spadaro intrattiene un rapporto strettissimo e confidenziale.
Ma
quanto è fondata, storicamente, la tesi che fa del Concilio di Trento un
antesignano delle “aperture” del pontificato di Jorge Mario Bergoglio in
materia di divorzio?
Ecco
qui di seguito una confutazione dell’articolo de “La Civiltà Cattolica”. L’autore
è professore di teologia morale nel St. John Vianney Theological Seminar di
Denver, Stati Uniti, e ha studiato in profondità gli atti del Concilio di
Trento in materia di matrimonio.
__________
DAMNATIO MEMORIÆ?
di E. Christian Brugger
Il
padre gesuita Giancarlo Pani, docente di storia del cristianesimo presso l’Università
di Roma “La Sapienza”, ha recentemente pubblicato un saggio su “La Civiltà
Cattolica” del titolo “Matrimonio e ‘seconde nozze’ al Concilio di Trento”. In
essa egli difende la pratica matrimoniale greca di “oikonomia” secondo
la quale i matrimoni falliti possono essere sciolti e i coniugi hanno il
permesso di risposarsi, o più spesso avere i loro “nuovi matrimoni dichiarati
validi” dalla Chiesa “dopo un periodo di penitenza”. Egli si augura palesemente
che questa “tradizione tollerante” possa fare strada anche nella Chiesa
cattolica.
A
conforto di tale aspirazione, egli rivendica nientemeno che l’autorità del
Concilio di Trento, che ritiene abbia implicitamente sancito la pratica greca
del divorzio nei suoi “canones de sacramento matrimonii”.
La
sua tesi ha due difetti. Il primo e più serio qui semplicemente lo accenno. Nel
suo saggio, egli non solo assume ma addirittura afferma più volte che questa
forma di divorzio e di nuovo matrimonio non è in conflitto con la dottrina dell’indissolubilità,
senza fornire nessun argomento a sostegno. L’affermazione è stata confutata da
Germain Grisez, John Finnis e William E. May vent’anni fa nella loro risposta
critica ai vescovi tedeschi Walter Kasper, Karl Lehmann e Oskar Saier, che
avevano proposto una soluzione per permettere ai cattolici divorziati e
risposati in Germania di accedere all’eucaristia.
Il
secondo problema riguarda l’interpretazione di Pani del canone 7 di Trento sull’indissolubilità.
Egli segue la fortunata interpretazione del gesuita fiammingo Piet Fransen
(1913-1983), la cui ricostruzione, anche se ampiamente accolta, è gravemente
difettosa (1). L’articolo di Pani riassume abbastanza gli eventi dell’agosto
del 1563, per cui non è necessario ripeterli qui. Ma c’è una storia più ampia
che esige delle osservazioni.
Anche
se la Chiesa ortodossa orientale – scrive Pani – “ha affermato e riconosciuto
rigorosamente l’indissolubilità del matrimonio”, tuttavia ha consentito il
divorzio e le seconde nozze in alcuni casi. I padri e i teologi a Trento
sapevano dell’antico “ritus” (costume) dell’Oriente e l’hanno
rispettato. Molti padri conciliari avevano dubbi circa la “clausola d’eccezione”
nel Vangelo di Matteo (“tranne nei casi di porneia”). Essi dubitavano
che la rivelazione divina escludesse assolutamente un nuovo matrimonio in caso
di adulterio. Dato il dubbio, decisero di “parlare chiaramente sulla
indissolubilità del matrimonio, ma anche di dire che tale dottrina non può
essere considerata come una parte costitutiva della [divina] rivelazione”. I
loro dubbi hanno raggiunto il punto culminante nell’agosto del 1563 con il
famoso intervento della delegazione veneziana, che ha esortato i padri
conciliari, per il bene delle pratiche di divorzio dei Greci in terre
cattoliche, a non condannare direttamente il divorzio e il nuovo matrimonio in
caso di adulterio. La petizione ha avuto successo e alla fine il Concilio ha
approvato una formulazione indiretta del canone 7. Questo ovviamente perché la
grande maggioranza dei padri conciliari hanno preferito lasciare aperta la
questione della legittimità delle pratiche greche di divorzio.
Pani
lamenta che questa “pagina” nell’insegnamento di Trento sul matrimonio “sembra
essere stata dimenticata dalla storia”. Ma come può essere stata dimenticata
quando Walter Kasper (2), Charles Curran (3), Michael Lawler (4), Kenneth Himes
(5), James Coriden (6), Theodore Mackin S.J. (7), Victor J. Pospishil (8),
Francis A. Sullivan SJ (9), Karl Lehmann (10), e Piet Fransen S.J. (solo per
citarne alcuni) l’hanno ripetuta continuamente nel corso degli ultimi cinquant’anni?
In realtà questa ricostruzione risale al XVII secolo. Il teologo antiromano
Paolo Sarpi e il giansenista Jean Launoy (12) hanno sostenuto che il Concilio
intendeva lasciare aperta la questione se a volte fosse legittimo risposarsi
dopo il divorzio (13).
Pani
incolpa i segretari e i cronisti del Concilio per il loro “silenzio eloquente”
su questa storia. Ma un’interpretazione alternativa del loro silenzio mi sembra
più ovvia e corretta: la ricostruzione di Pani è una creazione postconciliare.
Questo non vuol dire che gli eventi che egli cita, in particolare l’intervento
di Venezia, non abbiano avuto luogo. Certo che hanno avuto luogo. Ma non vi è
alcuna base storica per la sua affermazione secondo cui il Concilio – e con
questo intendo la stragrande maggioranza dei vescovi votanti – avrebbe letto il
canone 7 come se lasciasse curi le pratiche di divorzio dei Greci. Molti
studiosi prima della metà del XX secolo hanno sostenuto che Trento intendeva
definire l’assoluta indissolubilità [del matrimonio] come una verità “de fide”,
per esempio Domenico Palmieri (14) e Giovanni Perrone (15), l’illustre autore e
redattore del francese “Dictionnaire de Théologie Catholique” Alfred
Vacant (16) e il teologo dogmatico George Hayward Joyce, S.J. (17). Più di
recente la stessa tesi è stato difesa dal futuro papa Joseph Ratzinger (18) e
dai teologi morali Germain Grisez e Peter Ryan, S.J. (19).
Per
dimostrare a fondo la falsità dell’interpretazione di Pani-Fransen occorrerebbe
un trattato della lunghezza di un libro. Ma molte cose si possono dire per
dimostrare che essa è discutibile. Per capire le vere intenzioni dei padri a
Trento, non dobbiamo guardare subito, come fa Pani, l’intervento della
delegazione veneziana. Dobbiamo guardare per prima cosa il consenso solido come
roccia dei padri e dei teologi in ogni precedente discussione sul matrimonio,
dal 1547 fino all’agosto del 1563.
Quando
il canone 6 (che divenne il canone 7) fu presentato ai padri il 20 luglio del
1563, dopo aver subito diverse riscritture fu formulato così:
“Se
qualcuno dirà che a causa dell’adulterio di un coniuge il matrimonio può essere
sciolto, e che è lecito per entrambi, o almeno per il coniuge innocente che non
ha dato nessun motivo per l’adulterio, di risposarsi, e che non è un adultero
colui che licenzia una adultera e ne sposa un’altra, né è un’adultera colei che
licenzia un adultero e ne sposa un altro: sia anatema” (20).
Non
vi è nulla di straordinario in questa formulazione, in quanto il suo contenuto
è più o meno lo stesso del contenuto delle proposizioni precedentemente
condannate (numeri 3-5), proposte al Concilio da Angelo Massarelli, il
segretario generale, nell’aprile del 1547 (21). Questa formulazione condanna in
forma diretta le proposizioni che il matrimonio può essere sciolto a causa di
adulterio; che non è mai lecito per i coniugi adulteri di risposarsi; e che il
coniuge che ripudia un coniuge adultero e si risposa non è colpevole di
adulterio.
Fin
dalle prime discussioni di Trento questo è stato il consenso dei padri
conciliari. Per quanto riguarda le “auctoritates”, i prelati hanno fatto
riferimento a Nostro Signore e a san Paolo, ai Canoni Apostolici, a Girolamo,
Ambrogio, Agostino, Crisostomo, Origene, Ilario, ai papi Innocenzo I, Leone I,
Alessandro III e ai Concili di Milevi, Elvira, Costanza, Firenze e Lateranense
IV, tra altri. Quando pensatori cattolici del XVI secolo come Erasmo e
Catarinus hanno suggerito che la dottrina dell’assoluta indissolubilità debba
essere annacquata, le loro proposte sono state condannate dalle facoltà di
teologia delle università di Colonia, Lovanio e Parigi. La conclusione di
Agostino che la clausola d’eccezione in Matteo va letta in conformità con gli
insegnamenti più restrittivi che si trovano in Luca 16, Marco 10 e Romani 7,
1-3 era accettata da quasi tutti. “Separazione di letto, non di legame”, era il
motto del momento.
Pani
menziona il significativo dubbio contro l’indissolubilità assoluta [del
matrimonio] esposto dal vescovo di Segovia il 14 agosto del 1563, come fa ogni
altro autore che segue questa interpretazione (22). Ma egli non menziona che
dall’inizio delle discussioni sul matrimonio una maggioranza rilevante e coesa
ha affermato, contro il punto di vista segoviano, il motto agostiniano “letto,
non legame”, senza eccezioni. Alcuni nomi dovrebbero essere sufficienti a
dimostrare questo: il presidente del concilio e legato pontificio cardinale
Cervinus; gli arcivescovi Materanus, Naxiensis, Aquensis, e Armacanus; i
vescovi Aciensis, Sibinicensis, Chironensis, Sebastensis, Motulanus,
Motonensis, Mylonensis, Feltrensis, Bononiensis, Sibinicensis, Chironensis,
Aquensis, Bituntinus, Aquinas, Mylensis, Lavellinus, Mylensis, Caprulanus,
Grossetanus, Upsalensis, Salutiarum, Caprulanus, Veronensis, Maioricensis,
Camerinensis , Thermularum, Mirapicensis e Vigorniensis.
In
una dichiarazione sommaria registrata negli Acta il 6 settembre del 1547, si
legge: “Le risposte dei padri erano varie; ma la stragrande maggioranza erano d’accordo
che l’adulterio non può sciogliere un matrimonio; che se uno sposa un’altra
persona quando il suo coniuge è ancora in vita commette adulterio; e che per
nessuna ragione possono essere separati, tranne che nel letto”. (23). Riguardo
alle “auctoritates” che si oppongono a questo punto di vista, la
maggioranza ha concordato “che la separazione deve essere intesa solo come
separazione del letto, e non del vincolo secondo l’interpretazione dei dottori
(e l’insegnamento di San Paolo in 1 Cor 7, 10ss e Romani 7, 2ss, di Marco 10,
11, di Luca 16, 18 e dello stesso Matteo 5, 32)” Infine, la maggioranza ha
concordato “che la comprensione della Scrittura dovrebbe essere secondo l’insegnamento
della Chiesa” (24).
Quando
la bozza del canone 6 fu presentata il 20 luglio del 1563, più di duecento
padri del Concilio (cardinali, arcivescovi, vescovi, abati e generali delle
congregazioni) intervennero a commentarla. Tutti sapevano che la fine dei
dibattiti sul matrimonio si avvicinava. Se ci fossero stati dubbi diffusi o
insoddisfazione tra i padri circa la destinazione della formulazione, l’inclusione
dell’anatema, o le sue implicazioni per le pratiche di divorzio dei Greci (25),
ci si sarebbe aspettato un notevole numero di “non placet” al canone. Ma solo
17 espressero disapprovazione, soprattutto a causa delle “opinioni dei Greci”.
Più dell’85 per cento dei prelati votanti erano soddisfatti per la formulazione
diretta dell’anatema che condannava le seconde nozze dopo l’adulterio, con una
larga maggioranza che approvò esplicitamente il suo contenuto (“placet”).
Tre
settimane più tardi, l’11 agosto, arrivò la proposta di Venezia di una
formulazione indiretta. Circa 136 prelati si espressero a favore della
proposta. Come si spiega questo cambiamento? Forse perché i padri conciliari
preferivano lasciare aperta la questione della legittimità delle pratiche
greche di divorzio, come Pani e altri suggeriscono? Tale conclusione deve
essere respinta. È verosimile che in meno di tre settimane la stragrande
maggioranza dei prelati votanti abbiano abbandonato l’indissolubilità assoluta
per consentire alcuni casi di divorzio e seconde nozze? Nella versione finale
del canone 7 il Concilio adottò quattro altri importanti cambiamenti che
contraddicono questa conclusione.
In
primo luogo, aggiunse la frase “iuxta evangelicam et apostolicam doctrinam” per
far capire che le successive proposizioni che condannano la negazione dell’indissolubilità
nei casi di adulterio hanno la loro origine nella rivelazione divina.
In
secondo luogo, sostituì il termine normativo “non dovrebbe ... contrattare” (“non
debere ... contrahere”) con il termine sostanziale “non può... contrattare”
(“non posse ... contrahere”) rendendo chiaro che un nuovo matrimonio
dopo il divorzio non è solo sbagliato, ma addirittura impossibile, sempre.
In
terzo luogo, per garantire che il canone riguardava in modo trasparente l’indissolubilità
del vincolo del matrimonio, adottò il termine “vinculum matrimonii” in
sostituzione di “matrimonium”.
Infine,
introdusse per la prima volta una prefazione dottrinale ai canoni sul
matrimonio. Ciò era chiaramente mirato ad istituire un quadro dottrinale all’interno
del quale i canoni devono essere letti e interpretati. L’introduzione fonda la
verità della indissolubilità sulla legge naturale (l’ordine creato), sull’ispirazione
dello Spirito Santo nel Antico Testamento e sulla volontà e l’insegnamento di
Gesù come espresso nel Nuovo Testamento. E afferma che sono condannati non solo
gli “scismatici” ma anche “i loro errori” (“eorumque errores”), cioè le
loro proposizioni erronee sulla natura del matrimonio, compresa la loro
indiscutibile negazione della indissolubilità assoluta del matrimonio.
La
spiegazione più plausibile per l’improvvisa svolta è che i padri conciliari
restavano comunque convinti che il matrimonio non può essere sciolto a causa di
un adulterio o di qualsiasi altra cosa, e che questo doveva essere insegnato
come una verità di fede. Essi si erano trovati pronti a insegnare ciò nella
forma di un anatema diretto che condannava la sua negazione. Ma l’intervento di
Venezia li aveva mesi in guardia da una possibile conseguenza di questo atto,
vale a dire il turbamento del delicato equilibrio dei rapporti tra i cristiani
greci e la gerarchia romana nelle isole del Mediterraneo.
Erano
certi che la proposizione che affermava l’indissolubilità assoluta del
matrimonio era vera e apparteneva alla rivelazione divina, e avevano l’intenzione
di insegnare entrambe le cose, ma di farlo in modo da ridurre al minimo le
conseguenze indesiderabili. Non hanno fatto ricorso a una formulazione
indiretta a motivo di dubbi circa l’interpretazione della “clausola d’eccezione”,
per la paura dello scandalo di “anatematizzare Ambrogio” o perché volessero
lasciare i Greci liberi di seguire le loro antiche usanze di divorzio. L’appello
di Venezia ha avuto successo per il motivo pastorale che una formulazione
indiretta poneva una probabilità minore di turbare le relazioni greco-romane
nei territori veneziani.
L’idea
di Pani che nella pubblicazione del canone 7 i padri intendevano soltanto
condannare Lutero e i riformatori ma lasciare fuori dalla critica le pratiche
di divorzio dei Greci è in contrasto con il giudizio motivato sulla
indissolubilità assoluta del matrimonio della stragrande maggioranza dei padri
e dei teologi del Concilio dalla primavera del 1547 alla fine dell’estate del
1563. Come Ryan e Grisez affermano: “Anche se Trento non anatematizza
[esplicitamente] la pratica della ‘oikonomia’, il canone 7 comporta che
la sua applicazione alle ‘seconde nozze’ dopo il divorzio è contraria alla fede”
(26).
La
formula ironica di Pani, “damnatio memoriae”, è davvero adatta. Ma non sono gli
atti, i segretari, i cronisti o i commentatori del Concilio che impongono il
silenzio sull’insegnamento di Trento. Si tratta piuttosto di coloro che, in
nome della “misericordia evangelica”, vogliono sostituìre una verità di fede
con una “tollerante” fantasia.
__________
NOTE
(1)
La tesi di dottorato di Fransen sul canone 7 (“De indissolubilitate
Matrimonii christiani in casu fornicationis. De canone Septimo Sessionis XXIV
Concilii Tridentini, luglio-novembre 1563”) è stata presentata alla
Gregoriana nel 1947. Nel 1950, Fransen pubblicò altri sei saggi influenti sulla
rivista “Scholastik” sull’insegnamento di Trento sul matrimonio, che sono
ristampati in una raccolta di saggi di Fransen intitolata “Ermeneutica dei
Concili e altri studi”, ed. H.E. Mertens e F. de Graeve, Leuven University
Press, 1985. Egli ha riassunto le conclusioni di questi saggi in un saggio
inglese molto letto dal titolo “Il divorzio a causa della Adulterio - Il
Concilio di Trento (1563)”, stampato in un numero speciale della rivista “Concilium”,
dal titolo “Il futuro del matrimonio come istituzione”, ed. Franz Böckle, New York, Herder and Herder, 1970, 89-100.
(2) Kasper, “Theology
of Christian Marriage”, New York, Crossroad, 1977, note 87, p. 98, also p.
62.
(3) Charles Curran, “Faithful
Dissent”, Sheed & Ward, 1986, 269, 272.
(4) Michael Lawler, “Divorce
and Remarriage in the Catholic Church: Ten Theses,” New Theology Review,
vol. 12, no. 2 (1999), 56.
(5) Kenneth Himes and
James Coriden, “The Indissolubility of Marriage: Reasons to Reconsider,”
Theological Studies, vol. 65, no. 3 (2004), 463.
(6) Ibid.
(7) Theodore Mackin, “Divorce
and Remarriage”, New York, Paulist Press, 1984, 388.
(8) Victor J. Pospishil,
“Divorce and Remarriage”, New York, Herder and Herder, 1967, 66-68.
(9) Francis Sullivan, “Creative
Fidelity: Weighing and Interpreting Documents of the Magisterium”, New
York, Paulist Press, 1996, 131-134.
(10) Karl Lehmann, “Gegenwart des
Glaubens”, Mainz, Matthias-Grünwald-Verlag, 1974, 285-286.
(11)
Paolo Sarpi (1552 -1623), “Istoria del Concilio Tridentino”, Londra,
1619; Traduzione in inglese: “History of the Council of Trent” (1676).
La sua “Istoria”, molto letta dai protestanti, è stata criticata come
orientata contro la curia romana; vedi L.F. Bungener, “History of the
Council of Trent”, New York, Harper & Brothers, 1855, xix-xx.
(12)
Jean de Launoy (1603-1678); vedi “De regia in matrimonium potestate”
(1674), par. III, art. I, cap. 5, n. 78; in “Opera”, Colonia/Ginevra, 1731,
tom. 1, cap. I, p. 855.
(13)
Bossuet scrisse di Sarpi: “Era un protestante sotto un abito religioso, che ha
recitato la messa senza credere in essa, e che rimase in una Chiesa che egli
considerava idolatra”. Vedi Bertrand L. Conway,
CSP, “Original Diaries of the Council of Trent,” The Catholic World,
vol. 98 (Oct. 1913-March 1914), 467.
(14)
Domenico Palmieri, “Tractatus de Matrimonio Cristiano”, Typographia
Polyglotta SC de Propaganda Fide, Roma, 1880, p. 142.
(15)
G. Perrone, SJ., “De Matrimonio Christiano”, vol. 3, Rome, 1861, bk. 3,
ch. 4, a. 2, p. 379-380.
(16) A. Vacant, s.v., “Divorce”,
in “Dictionnaire de théologie catholique”, 1908, vol. XII, cols. 498-505.
(17) George Hayward
Joyce, S.J., “Christian Marriage: An Historical and Doctrinal Study”,
London: Sheed and Ward, 1933, 395.
(18) In un saggio del 1972, “Zur
Frage nach der Unauflöslichkeit der Ehe: Bemerkungen zum dogmengeschichtlichen
Befund und zu seiner gegenwärtigen Bedeutung” (in Ehe und Ehescheidung:
Diskussion Unter Christen, a cura di Franz Henrich e Volker Eid, München,
Kösel, 1972, 47, 49), Ratzinger dice che egli segue Fransen sul canone 7. Nel 1986 egli dimostra
però che ha cambiato idea: “La posizione della Chiesa sull’indissolubilità del
matrimonio sacramentale e consumato... è stata infatti definita nel Concilio di
Trento, e così appartiene al patrimonio della fede “(vedi citazione in Charles
Curran, “Faithful Dissent”, Sheed & Ward, 1986, p 269).
(19) Peter F. Ryan, S.J.
and Germain Grisez, “Indissoluble Marriage: A Reply to Kenneth Himes and
James Coriden”, Theological Studies 72 (2011), 369-415.
(20) CT, IX, 640.
(21) See CT, VI, 98-99.
(22)
CT, XI, 709.
(23)
CT, VI, 434.
(24)
CT, VI, 434-435.
(25)
“Non placet, quia ferit Graecos and Ambrose” (Arcivescovo Cretensis),
CT, IX, 644.
(26)
Op. Cit., nota 180.
__________
Il
testo integrale dell’importante articolo scritto nel 1994 sulla rivista dei
domenicani inglesi “New Blackfriars” da Germain Grisez, John Finnis e
William E. May contro le tesi dei vescovi tedeschi Walter Kasper, Karl Lehmann
e Oskar Saier favorevoli ad ammettere alla comunione i divorziati risposati:
__________
Il
testo letto in sinodo a conclusione della prima settimana di discussione in
aula, con i tre esplosivi paragrafi (50-52) sull’omosessualità:
E
i rapporti dei dieci circoli linguistici che l’hanno fatto a pezzi:
__________
Per
un profilo più compiuto del segretario speciale del sinodo:
Fonte: Blog www.chiesa, 17.10.2014
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