Nella memoria liturgica di S. Brigida di Svezia, posto volentieri quest’interessante
articolo del prof. De Mattei. Del tema affrontato dall'esimio docente, comunque, aveva parlato qualche giorno fa anche Sandro Magister, nell'articolo Seconde nozze a Venezia per "La Civiltà Cattolica", ripreso ed approfondito in un articolo sul blog "Settimo Cielo", sempre dello stesso giornalista, “La Civiltà Cattolica” va a nozze col Concilio di Trento. Ma tra gli storici volano schiaffi.
L'articolo del prof. De Mattei è stato tradotto e rilanciato pure in lingua inglese dal blog Rorate coeli, col titolo SYNOD AND TRUTH - or, How a Holy See Journal Created a Historical Deception on Trent to Favor Kasper.
L'articolo del prof. De Mattei è stato tradotto e rilanciato pure in lingua inglese dal blog Rorate coeli, col titolo SYNOD AND TRUTH - or, How a Holy See Journal Created a Historical Deception on Trent to Favor Kasper.
Tommaso Manzuoli, S. Brigida di Svezia, York Museums Trust, York
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Le avventure dell’anatema che impedisce la chiesa del divorzio. Una puntuta
risposta al gesuita causidico
Lo strappo nella morale tradizionale non ha basi storiche e teologiche. I gesuiti
cercano le radici nella chiesa orientale, ma non va bene nemmeno il divorzio
greco
di Roberto de Mattei
Il Sinodo che si è aperto non entrerà
nella storia per i suoi documenti ma per il significato che viene attribuito
all’evento: quello di uno “strappo” nella morale tradizionale, riassunto dalla
formula del primato della prassi pastorale sulla dottrina.
La tesi viene suffragata da interventi
storici e teologici deliberatamente fuorvianti, come l’articolo del gesuita
Giancarlo Pani apparso, alla vigilia del Sinodo, sulla “ Civiltà Cattolica”,
con il titolo Matrimonio e seconde nozze al Concilio di Trento (Quaderno n. 3943 del 4 ottobre 2014). In
questo saggio l’autore rievoca la storia di «uno dei decreti più innovativi del Concilio di Trento: quello sul
matrimonio, detto “Tametsi”», affermando che nel canone settimo del
documento, la Chiesa, mentre condanna la dottrina di Lutero e dei riformatori,
«lascia
impregiudicate le tradizioni dei greci che, nel caso specifico, tollerano le
nuove nozze».
I Padri conciliari avrebbero infatti
addolcito il testo, evitando di portare anatema contro la prassi vigente in
alcune colonie veneziane dove si ammetteva la possibilità di divorzio e di
nuove nozze in caso di adulterio, secondo il costume invalso nella chiesa
scismatica greca.
Padre Pani, che giustifica questa
prassi, scrive che anche al cristiano «poteva accadere di fallire nel proprio matrimonio e di passare a
una nuova unione; questo peccato, come ogni peccato, non era escluso dalla
misericordia di Dio, e la Chiesa aveva e rivendicava il potere di assolverlo.
Si trattava proprio dell’applicazione della misericordia e della condiscendenza
pastorale, che tiene conto della fragilità e peccaminosità dell’uomo. Tale
misericordia è rimasta nella tradizione orientale sotto il nome di oikonomia:
pur riconoscendo l’indissolubilità del matrimonio proclamata dal Signore, in
quanto icona dell’unione di Cristo con la Chiesa, sua sposa, la prassi
pastorale viene incontro ai problemi degli sposi che vivono situazioni
matrimoniali irrecuperabili. Dopo un discernimento da parte del vescovo e dopo
una penitenza, si possono riconciliare i fedeli, dichiarare valide le nuove
nozze e riammetterli alla comunione».
Questa è per padre Pani, la lezione di
misericordia che proviene dal Concilio di Trento. «Oggi -
conclude - appare singolare che al Concilio in cui si afferma l’indissolubilità del matrimonio
non si condannino le nuove nozze per i cattolici della tradizione orientale. Eppure
questa è la storia: una pagina di misericordia evangelica per quei cristiani
che vivono con sofferenza un rapporto coniugale fallito che non si può più
ricomporre; ma anche una vicenda storica che ha palesi implicazioni ecumeniche».
Ma qual è la verità dei
fatti? Il Concilio di Trento fu convocato, come è noto, per far
fronte al protestantesimo. Lutero e Calvino avevano negato o svuotato del loro
significato i sacramenti della Chiesa, tra cui il matrimonio. Il Concilio volle
dunque ribadire solennemente, anche su questo punto, la retta dottrina. L’11
novembre 1563, nella sessione XXIV, fu promulgato un decreto sul Sacramento del
matrimonio che comprendeva dodici canoni. Il testo del settimo è il seguente: «Se qualcuno dirà che la Chiesa
sbaglia quando ha insegnato e insegna che, secondo la dottrina del Vangelo e
degli apostoli, il vincolo del matrimonio non può essere sciolto per
l’adulterio di uno dei coniugi; e che nessuno dei due, nemmeno l’innocente, che
non ha dato motivo all’adulterio, può contrarre un altro matrimonio, vivente
l’altro coniuge; e che commette adulterio il marito che, cacciata l’adultera,
ne sposi un’altra, e la moglie che, cacciato l’adultero, ne sposi un altro, sia
anatema».
Gli ambasciatori della Repubblica di
Venezia avevano chiesto e ottenuto dai Padri conciliari che il canone, pur ribadendo
l’indissolubilità del matrimonio, evitasse di scomunicare esplicitamente chi
diceva che il matrimonio si può sciogliere per l’adulterio dell’altro coniuge.
La richiesta nasceva dalla preoccupazione
di non creare divisioni nelle isole greche soggette alla Serenissima , dove
molti cristiani seguivano i riti orientali pur essendo guidati da vescovi
latini. Il significato di questo canone, nella sua formulazione finale,
tuttavia non ammette alcun dubbio. Esso costituisce una definizione dogmatica
dell’indissolubilità del matrimonio.
In quel momento il nemico da combattere
erano i protestanti e non i greci e il Concilio anatemizza le affermazioni dei
protestanti che negavano l’indissolubilità intrinseca del matrimonio. Il fatto
che non si condannasse esplicitamente la prassi degli orientali non significava
in alcun modo un’accettazione del loro divorzio. Il canone tridentino, benché
direttamente anatemizzasse solo i protestanti, perché accusavano la Chiesa di
errare, condannava indirettamente anche coloro che vi opponevano sul piano del
comportamento.
A Trento, inoltre, i Padri conciliari
mostravano di credere che i greci dissolvessero il matrimonio solo in caso di
adulterio, mentre da oltre un secolo la pratica del divorzio andava dilagando.
Già prima della caduta di Costantinopoli (1453) il Sinodo patriarcale concedeva
il divorzio per cause come le seguenti: 1) seria malattia di una delle due
parti; 2) completa incompatibilità di carattere: 3) diserzione di una delle
parti per un periodo di tre anni, o anche meno; 4) delitto da parte di uno dei
coniugi seguito da sentenza comportante notevole disonore; 5) mutuo consenso in
casi speciali approvati dal Patriarca per ragioni di cui egli si dichiarava l’unico
giudice.
Il matrimonio aveva dunque perduto il
carattere di indissolubilità e si poteva sciogliere a volontà, come ancora oggi
accade. Gran parte dei casi praticati dai greci cadevano poi direttamente sotto
l’anatema del canone 5 del Concilio di Trento, che stabilisce: «Se qualcuno dirà che il vincolo
matrimoniale può essere sciolto per eresia, per incompatibilità di carattere o
per l’assenza intenzionale da parte di un coniuge, sia anatema».
Gli altri casi vi cadevano indirettamente.
Va ricordato infine che se prima della
promulgazione del decreto tridentino la prassi greca poteva essere scusata,
dopo il Concilio fu considerata grave colpa, condannata da numerosi
pronunciamenti della Chiesa. Nel 1593 papa Clemente VIII (1592-1605) emanò
un’istruzione sui riti degli italo-greci in cui stabilisce espressamente che i
vescovi non dovevano, per nessun motivo, tollerare il divorzio e che se qualcuno
era stato approvato doveva essere dichiarato nullo e invalido.
Urbano VIII (1623-1644) compilò una
professione di fede da imporsi ai membri della chiesa greca scismatica che
venivano ricevuti nella Chiesa cattolica. Questo documento contiene una
dichiarazione che, sebbene l’adulterio possa giustificare una separazione, non
rende assolutamente lecito contrarre un nuovo matrimonio. Benedetto XIV
(1740-1758), nella sua istruzione per gli italo-greci (1742), ripete, parola
per parola, il decreto di Clemente VIII. Di fronte alla rilassatezza di costumi
che si andava diffondendo in materia matrimoniale tra i polacchi, lo stesso
Benedetto XIV, con il decreto Dei miseratione del 3
novembre 1741 ordinò che in ogni diocesi venisse nominato un defensor vinculi, il cui compito doveva essere quello
di impugnare ogni mozione per decreto di nullità; e in caso che il decreto
venisse accordato, di fare appello ad un tribunale superiore.
Il principio della doppia sentenza
conforme, consacrato dal Codice di Diritto canonico del 1917, è stato recepito
nella codificazione promulgata da Giovanni Paolo II con la costituzione
apostolica Sacrae Disciplinae Leges del 25
gennaio 1983, ma oggi viene messo in discussione dal partito kasperiano.
L’articolista della “Civiltà Cattolica”
mostra di ignorare come proprio all’interno della Compagnia di Gesù, canonisti
come i padri Franz Xaver Wernz (1842-1914) e Pedro Vidal (1867-1938) e teologi
come il padre Giovanni Perrone (1794-1876), hanno già affrontato il problema
che egli ritiene inedito, dimostrando come le nozze more graeco ricadano
sotto la condanna della Chiesa. Il padre Perrone, uno dei più illustri
esponenti della scuola teologica romana nel XIX secolo, trattando “de Graecorum more ac praxi”
nella sua opera fondamentale sul matrimonio, spiega come l’errore dei greci
proviene dalla prassi e non dalla dottrina, ma non è per questo meno grave e il
Concilio Tridentino in nessun modo tollera o può tollerare (nullo modo tolerat imo nec
tolerare potest) una prassi contraria alla dottrina della Chiesa (De matrimonio cristiano,
Dessain, Leodii 1861, vol. III, pp. 359-361).
La posizione di chi nega
l’indissolubilità del matrimonio è formalmente eretica. La posizione di chi pur
accettando in tesi l’indissolubilità del matrimonio la ammette nella prassi
viene definita dal padre Perrone “prossima all’eresia”. Tale è la censura che secondo i
teologi e i canonisti più sicuri cade sulla posizione del cardinale Kasper e di
coloro che la condividono.
Fonte: Il Foglio, 7.10.2014
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