Il messianismo è essenzialmente un regno universale e glorioso inaugurato dal Cristo per la gloria di Dio e la salvezza del mondo. Su questo punto non c’è alcuna oscurità nella sacra Scrittura, che, allorquando si mostra così laconina nel descrivere il carattere particolare del Servo di Jahvé spezzato dalle nostre iniquità, è al contrario prolissa nella descrizione delle glorie dell’impero di Colui la cui fronte è cinta da mille diademi e che, sul suo mantello regale, porta scritta la sua dignità, Rex regum et Dominus dominantium (Ap. 19, 16).
Nell’Epifania, in qualità di monarca, si fa cercare dai Magi venuti dal lontano Oriente e riceve le primizie dell’adorazione dei potenti della terra.
Nella Pasqua, piega sotto i suoi piedi tutti gli imperi che gli sono avversi, curvat imperia, ed inaugura il regno messianico trionfando della morte e del demonio. È in qualità di Re e di arbitro supremo dei destini del mondo che il Cristo, senza tener conto dell’autorità civile, invia i suoi Apostoli a predicare liberamente l’Evangelium Regni nel mondo intero: Data est mihi omnis potestas in cælo et in terra. Ite ergo; docete omnes gentes, baptizantes eos.
Infine, al tempo della sua Ascensione, egli si asside definitivamente sul trono della divinità alla destra del Padre e del suo regno, che, come canta il simbolo della fede, non finirà mai, cujus regni non erit finis.
Malgrado le affermazioni così numerose e solenni della potenza regale del Cristo, contenute nella sacra Scrittura e nella divina liturgia, imperversa, da più di due secoli, nel mondo civilizzato, una funesta eresia chiamata liberismo dagli uni e laicismo dagli altri. Quest’errore è multiforme, ma consiste tutto sommato nel negare la supremazia di Dio e della Chiesa sulla società civile e sugli Stati, i quali, ufficialmente, si proclamano indipendenti da ogni altra autorità superiore: Ecclesia libera in libera patria; libera Chiesa in libero Stato. Questa celebre formula, erroneamente attribuita a Camillo Benso conte di Cavour, in realtà risale al "cattolico" liberale Charles Forbes René, conte de Montalembert, che fu amico e collaboratore di Lamennais (sebbene poi rompesse con questi) e fu ospite pure del Manzoni. Ancora oggi è possibile leggere questo motto inciso all’interno della cappella del suo castello di La-Roche-en-Breuil in un'iscrizione latina, composta da Théophile Foisset, che commemora la nascita dei liberali cattolici francesi riunitisi attorno a Mons. Félix Dupanloup, vescovo di Orléans, per una messa che segnò l'avvio di quell'esperienza (In hoc sacello, Felix, Aurelianensis episcopus, panem verbi tribuit et panem vitae christianae amicorum, pusillo gregi, qui pro Ecclesia libera in libera patria commilitare jamdudum soliti, annos vitae reliquos ibidem Deo et libertati devovendi pactum instaurare. Die Octobris XIII, A.D. M.DCCC.LXII.
Aderant Alfredus comes de Falloux, Theophilus Foisset, Augustinus Cochin, Carolus comes de Montalembert, absens quidem corpore praesens autem spiritu, Albertus princeps de Broglie).
Aderant Alfredus comes de Falloux, Theophilus Foisset, Augustinus Cochin, Carolus comes de Montalembert, absens quidem corpore praesens autem spiritu, Albertus princeps de Broglie).
Pierre-Auguste Pichon, Charles Forbes René de Montalembert, XIX sec., castello di Versailles, Versailles |
Mons. Félix Dupanloup, 1860-70, Bibliothèque nationale de France, Parigi |
In seguito fu il conte di Cavour ad utilizzare quella formula in occasione di un suo intervento al parlamento del 27 marzo 1861, che portò alla proclamazione di Roma come capitale del regno d’Italia. In quel discorso, il capo del governo piemontese avanzò l’idea di indipendenza del neo-Stato da Dio e dalla Chiesa. Eppure la storia, che è maestra di vita, dovrebbe non far dimenticare che tale convincimento era persino giunto, in epoche storiche antiche, ma anche a noi più vicine, fino al punto di rivendicare persino delle prerogative divine per lo Stato, a cui dovrebbe essere sacrificato ogni altro diritto, individuale e familiare, come era un tempo per il dio Moloch. Lo Stato era ed è per costoro la suprema espressione dell’assoluto. Contro questa pretesa si sono schierati innumerevoli uomini di buona volontà, martiri e santi come furono, ad es., molti cristeros o i martiri di Barbastro (v. anche qui) o il beato P. Miguel Pro (v. qui), che hanno versato il loro sangue per "Cristo Rey", inneggiando, mutuandone la melodia dal popolare "Noi vogliam Dio", Tú reinarás, il cui ritornello ripete "Reine Jesús por siempre/Reine su corazón,/en nuestra patria, en nuestro suelo/es de María, la nación".
È in fondo quest’errore dei tempi moderni la concretizzazione dell’antico grido dei giudei dinanzi all’Ecce Homo nel pretorio di Pilato: Nolumus hunc regnare super nos (Lc. 19, 14). Essi preferirono al Regno di Cristo quello terreno e mondano di Cesare. E cosa fece Cesare meno di quarant’anni dopo? Cinse d’assedio la Città Santa e, con la sua ferocia e tracotanza, la rase al suolo, distrusse il Tempio, abolì materialmente l’antico culto giudaico, stese l’abominio della desolazione su quel luogo, calpestato dai pagani, uccise una parte dei suoi abitanti ed un’altra parte fu deportata in schiavitù o dispersa tra le nazioni.
Proprio a Pilato, un pagano, Gesù aveva chiarito come quello del governatore non fosse altro che un piccolo, transeunte potere ed il fatto che Egli, l’Eterno, si sia degnato di stargli di fronte tenendo una lezione sul valore ed il significato dell’autentica autorità prova che la regalità rivendicata da Nostro Signore, non trae i suoi diritti da questo mondo, regnum meum non est hinc, comprende tuttavia anche questo mondo, agisce sugli uomini, su individui e nazioni e ogni elemento della natura, poiché «tutto attraverso [il Verbo] è stato fatto e senza di Lui non è stato fatto nulla di ciò che è [creato]» (Gv. 1, 3). Gesù non viene a detronizzare i sovrani della terra né a contender loro i territori sui quali esercitano il loro potere. Viene a dare, al contrario, alla società umana, l’ultima e più perfetta ordinanza, decretando nel suo Vangelo le regole supreme del vero e del giusto che devono dirigere i governanti ed i sudditi nell’esercizio dei loro doveri reciproci. Dio è il fine soprannaturale dell’uomo. Ora è il compito proprio della società civile e di quelli che la presiedono collaborare con la Chiesa ed aiutarla nel campo proprio, beninteso, all’autorità civile, affinché la Chiesa stessa possa con più facilità e sicurezza compiere la sua divina missione di illuminare, di santificare e di governare le anime, stabilendo in esse il regno del Cristo.
Questa suprema autorità della Chiesa cattolica e del Pontefice romano sugli Stati e sui loro monarchi faceva parte, nel Medioevo, del diritto internazionale dei popoli cristiani, così che parecchie volte si vide dei Papi deporre dal loro trono dei re indegni delle loro funzioni, e sciogliere i loro sudditi dal giuramento di fedeltà un tempo prestato ad essi.
Questa è l’interpretazione costantemente supportata dalla tradizione, dai Padri e dai Dottori della Chiesa, che hanno sempre considerato come eretica ogni differente ermeneutica, come quella che si è, ahimè, oggi, imposta. San Giovanni Crisostomo, ad es., affermava:
«Forse che il regno di Cristo non è di questo mondo? Certo che lo è. “Come mai allora — tu obietterai — non è?”. Non perché egli non regni anche qui, ma perché regna anche in cielo, e il suo regno non è umano, ma molto più grande e splendido. Ma se è più grande, perché lui si è fatto arrestare da quello? Perché si è consegnato spontaneamente. Veramente non tace questa verità, ma che cosa dice? “Se fossi di questo mondo, i miei servi avrebbero certo combattuto, perché io non fossi consegnato”. Con queste parole mostra la debolezza dei regni terreni, in quanto hanno bisogno del sostegno dei servi; mentre il regno dei cieli basta a se stesso, e non ha bisogno di nessuno. Prendendo occasione di qui, gli eretici affermano che egli è estraneo al Creatore. Che significa allora, quando l’Evangelista dice: “è venuto nella sua casa” (Gv 1, 1), e quando egli stesso dichiara: “essi non sono del mondo, come io non sono del mondo” (Gv 17, 14)? Cosi dice anche che il suo regno non è di questo mondo, non per privare il mondo della sua provvidenza e della sua alta sovranità, ma per far capire, come ho già osservato, che il suo regno non è umano né effimero» (San Giovanni Crisostomo, Homilia LXXXIII, § 4, in Id., Homiliæ in Joannem, in PG 59, col. 453B).
Sostenere il contrario significherebbe d’altronde dubitare dell’onestà del Salvatore, a cui «ogni potere [...] è stato dato in cielo ed in terra» (Mt 28, 18).
Non si tratta, d’altronde, di confondere i due poteri, di sovrapporre in maniera caotica la sfera spirituale a quella temporale; ma da una opportuna distinzione non si deve, per assurdo, far seguire una completa scissione o rottura, tanto da mettere i rappresentanti di un’istituzione contro quelli dell’altra. Ogni separazione, in questo campo, porta all’aberrazione, la gravità della quale si può facilmente riscontrare nella società contemporanea. Del resto, la società civile sta a Dio ed alla religione come il corpo sta all’anima. Privando il corpo dell’anima, lo stesso è morto. Analogamente, privando la società e lo Stato di Dio e della religione, essi inevitabilmente sono destinati a morire, divenendo autentici corpi morti.
Molte date furono proposte all’inizio per questa festa dai liturgisti: la domenica nell’ottava dell’Epifania, dell’Ascensione, l’ottava del Sacro Cuore, ma è parso preferibile di non fondere questa festa con alcune altre già esistenti, per darle, al contrario, un carattere tutto particolare ed un posto speciale nel Messale. Finalmente si assegnò alla nuova solennità, come già ricordato da noi, la domenica che precede la festa di Ognissanti, per metterla in relazione con l’ufficio del 1° Novembre, con l’idea che informa questa celebrazione collettiva di tutti i santi nella quale veneriamo la Gerusalemme celeste e la nobile corte del Re di gloria. È ben giusto, quindi, che la liturgia, quasi al termine del suo ciclo delle domeniche dopo la Pentecoste, che esprimono i travagli e le lotte della vita del tempo, prima di dirigere i suoi sguardi verso i differenti cori che ornano l’ecclesia primitivorum e la città del cielo, presenti la sua adorazione a Colui che è la fine e la causa di una sì grande gloria ed a cui tutti i santi offrono la loro corona ed intonano il gioioso Alleluja.
Questa è la ragione profonda per la quale, nell’ufficio di Ognissanti, il primo responsorio del Mattutino ci mostra il trono dell’Onnipotente e lo strascico della sua veste, che riempie, in segno di santificazione, tutto il Tempio: Vidi Dominum sedentem super solium excelsum et elevatum ... et ea quæ sub ipso erant replebant templum.
Questa è la ragione profonda per la quale, nell’ufficio di Ognissanti, il primo responsorio del Mattutino ci mostra il trono dell’Onnipotente e lo strascico della sua veste, che riempie, in segno di santificazione, tutto il Tempio: Vidi Dominum sedentem super solium excelsum et elevatum ... et ea quæ sub ipso erant replebant templum.
Purtroppo quest’alto significato è stato mutato da Paolo VI, il quale, non potendo eliminare la festa introdotta da Pio XI, ha inteso “depotenziarla”, assegnandole, in sostanza, solo un significato puramente escatologico, portandola al termine dell’anno liturgico, alla sua ultima domenica. Si ha chiara percezione quest’impostazione di fondo, tra l’altro, laddove si esaminino le tre orazioni del messale di Paolo VI e le si confrontino con quelle anteriori. Nel messale del 1970, infatti, benché si riprendano i testi anteriori, nondimeno vi sono significativi cambiamenti nella colletta, in cui non si chiede più la «sottomissione delle genti al soavissimo impero» di Cristo Re, ma che «ogni creatura, libera dalla schiavitù del peccato, ti serva e ti lodi senza fine». Il mutamento di significato è sostanziale e denota la volontà del legislatore liturgico post-conciliare di confinare l’impero di Cristo solo al tempo escatologico, escludendo la signoria di Gesù sul tempo, sulla storia e su tutti gli uomini e le società umane.
Ma per quanto possa agire l’uomo, il Cristo non può essere spodestato. Se non può regnare con il suo amore e la sua misericordia a causa dell’opposizione umana, Egli regnerà con la sua temibile giustizia. Il Divino Redentore stesso, d’altronde, l’assicurò alla sua eletta discepola, santa Margherita Maria Alacoque, la cui memoria liturgica è stata celebrata alcuni giorni fa. Ella, abbattuta dalle difficoltà e dalle diffidenze che la circondavano, ebbe questo consolante incoraggiamento da Gesù stesso: «Ne crains rien, je régnerai malgré mes ennemis et tous ceux qui s’y voudront opposer!». «Ce qui me consolait beaucoup», aggiungeva la santa nella sua autobiografia, «puisque je ne désirais que de le voir régner. Je lui remis donc le soin [de] défendre sa cause et ce pendant que je souffrirais en silence» (Santa Margherita M. Alacoque, Autobiographie écrite par elle-même, § 95, in François Léon Gauthey, Vie et œuvres de la bienheureuse Marguerite-Marie Alacoque3, t. II, Paris 1915, p. 104. Cfr. anche Ibidem., t. I, pp. 218-219; Louis-Victor-Emile Bougaud, Histoire de la bienheureuse Marguerite-Marie et des origines de la Dévotion ai Cœur de Jésus6, Paris 1882, p. 339). Il medesimo pensiero, la nostra Santa lo esprimerà più volte nelle sue lettere alle consorelle ed al Padre Jean Croiset, nonché nelle sue preghiere (cfr. Santa Margherita M. Alacoque, Lettre LXV, A la mère De Saumaise, à Dijon, 1687, in François Léon Gauthey, op. cit., p. 355; Id., Lettre LXXXVIII, A la mère De Saumaise, à Dijon, 6 juin 1688, ivi, p. 402; Id., Lettre XCVII, A la mère De Saumaise, à Dijon, Fin de février 1689, ivi, p. 426; Id., Lettre C, A la mère De Saumaise, à Dijon, Après la fête du sacré Cœur, juin 1689, ivi, p. 434; Id., Lettre CVI, A Sœur F. M. De La Barge, à Moulins, De notre monastère de Paray, ce 21 août 1689, ivi, p. 454; Id., Lettre CVI, A Sœur Jeanne-Madeleine Joly, à Dijon, 28 août 1689, ivi, p. 462; Id., Lettre CXI, A la mère De Saumaise, à Dijon, 3 novembre 1689, ivi, pp. 473-474; Id., Lettre CXVIII, A Sœur Jeanne-Madeleine Joly, à Dijon, 10 avril 1690, ivi, p. 484; Id., Lettre CXXXI, 2e Lettre Au R. P. Jean Croiset, Ce 10me août 1689, ivi, pp. 526 e 533; Id., Lettre CXXXII, Au R. P. Jean Croiset, Ce 15 septembre 1689, ivi, p. 544; Id., Lettre CXXXIX, Au R. P. Jean Croiset, Du 21 août 1690, ivi, p. 616; Id., Petit livret Tout dédié à rendre hommage au Sacré Cœur de Notre-Seigneur Jésus-Christ, cap. XXIX, Pacte avec le sacré Cœur de Jésus, ivi, p. 814).
La festa odierna, dunque, vuole ricordare ai fedeli l’idea del Cristo-pontefice e Re, che riconquista – mediante la Croce – e rende al Padre il regno della creazione, allontanatosi da Lui a causa del peccato, affinché Dio sia eternamente tutto in tutti. Per questo lo stendardo del Gran Re è la Croce: Dicite in nationibus: regnavit a ligno Deus; poiché il regno di Cristo è obbedienza, umiltà e sacrificio.
Ciò spiega la feroce opposizione, specie in questi ultimi anni, di coloro che, invocando un malinteso significato di laicità, non sopportano anche solo la vista di questo vessillo regale, chiedendo a più riprese che venga rimosso da ogni luogo pubblico, preferendo addirittura al suo posto che siano messe gigantografie di autorità umane, del Cesare di turno … .
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