Il vero dilemma: indissolubilità o divorzio
Questo sinodo non è
chiamato a decidere. Ma ormai l’ipotesi delle seconde nozze ha piena
cittadinanza ai vertici della Chiesa. Il commento del cardinale Camillo Ruini
di Sandro Magister
ROMA,
13 ottobre 2014 – Dopo una settimana di sinodo una cosa risulta certa: il vero
fuoco della discussione è l’ammissione o no del divorzio nel matrimonio
cattolico.
Nel
sinodo la parola divorzio è tabù. Nessuno dice di voler arrivare lì. Tutti
proclamano a gran voce che la dottrina dell’indissolubilità deve rimanere
intatta.
Quando
però si vuole dare la comunione eucaristica ai divorziati risposati è come se
di fatto, nel loro caso, il sacro vincolo coniugale originario non sussista
più. Come già le Chiese ortodosse, anche la Chiesa cattolica ammetterebbe di
fatto le seconde nozze.
È
questa infatti la via battuta dai fautori dell’innovazione: non una
irrealistica campagna per il divorzio cattolico, che solo alcuni teologi come
Andrea Grillo o Hermann Häring reclamano esplicitamente, ma la proposta di un
soccorso misericordioso a chi si vede negare la comunione perché risposatosi
civilmente dopo lo scioglimento civile del proprio matrimonio sacramentale.
La
proposta è allettante. Si presenta come medicina nei casi di sofferenza per un “diritto”
sacramentale negato. Non importa che tali casi siano numericamente pochissimi.
Bastano per far da leva a un cambiamento i cui effetti si prevedono enormemente
più grandi.
La
sociologia religiosa avrebbe molto da dire in proposito. Fino alla metà del
Novecento, nelle parrocchie cattoliche, il divieto della comunione a chi era in
una posizione matrimoniale irregolare non poneva problemi, perché restava praticamente
invisibile. Anche dove la frequenza alla messa era alta, infatti, quelli che si
comunicavano ogni domenica erano pochi. La comunione frequente era solo di chi
si accostava frequentemente anche alla confessione. La riprova era il doppio
precetto che la Chiesa rivolgeva alla gran massa dei fedeli: di confessarsi “una
volta l’anno” e di comunicarsi “almeno a Pasqua”.
Il
non accedere alla comunione non era quindi uno stigma visibile di punizione o
di emarginazione. Il motivo principale che tratteneva la gran parte dei fedeli
dalla comunione frequente era l’altissimo rispetto per l’eucaristia, alla quale
si doveva accedere solo dopo adeguata preparazione, e sempre con timore e tremore.
Tutto
cambia negli anni del Concilio Vaticano II e del dopoconcilio. In breve la
confessione va a picco mentre la comunione diventa un fenomeno di massa. Tutti
o quasi vi accedono, sempre. Perché nel frattempo cambia l’idea corrente del
sacramento eucaristico. La presenza reale del corpo e del sangue di Gesù nel pane
e nel vino consacrati decade a presenza simbolica. La comunione diventa come il
bacio di pace, un segno di amicizia, di condivisione, di fraternità, “della
serie: tutti vanno avanti, allora lo faccio anch’io”, come disse papa Benedetto
XVI, che tentò di ripristinare il senso autentico dell’eucaristia tra l’altro
facendo inginocchiare i fedeli a cui dava l’ostia in bocca.
In
un simile contesto, era inevitabile che il divieto di comunicarsi fosse assunto
tra i divorziati risposati come la negazione pubblica di un “diritto” di tutti
al sacramento. La rivendicazione era ed è di pochi, perché la gran parte dei divorziati
risposati è lontana dalla pratica religiosa, mentre tra i praticanti non
mancano quelli che comprendono e rispettano la disciplina della Chiesa. Ma su
questa tipologia ristrettissima di casi si è impostata, dagli anni Novanta e
principalmente in alcune diocesi di lingua tedesca, una campagna per il
cambiamento della disciplina della Chiesa cattolica in materia di matrimonio,
che ha raggiunto l’acme nel pontificato di papa Francesco, col suo palese
consenso.
Il
concentrarsi del sinodo sulla questione dei divorziati risposati rischia
inoltre di far perdere di vista situazioni molto più macroscopiche di crisi del
matrimonio cattolico.
Poco
prima del sinodo, ad esempio, è uscito nelle librerie italiane un reportage
sull’azione pastorale impostata dall’allora cardinale Jorge Mario Bergoglio
nelle periferie di Buenos Aires:
P.
De Robertis, Le pecore di Bergoglio. Le periferie di Buenos Aires svelano chi è Francesco, Editrice Missionaria Italiana, Bologna, 2014.
Da
lì si apprende che la gran parte delle coppie, nella misura dell’80-85 per
cento, non è sposata ma semplicemente convive, mentre tra gli sposati “la
maggioranza dei matrimoni sono invalidi, perché la gente si sposa immatura”, ma
neppure ci prova poi a farne accertare la nullità dai tribunali diocesani.
Sono
i “curas villeros”, i preti inviati da Bergoglio nelle periferie, a fornire
questi dati e a specificare con fierezza che si dà comunque la comunione a
tutti, “senza alzare barricate”.
Le
periferie di Buenos Aires non sono un caso isolato, nell’America latina. E
danno prova non di un successo ma semmai di un’assenza o di un fallimento della
pastorale matrimoniale. In altri continenti il matrimonio cristiano è alle
prese con sfide non meno gravi, dalla poligamia agli accoppiamenti forzati,
dalle teorie del “gender” ai “matrimoni” omosessuali.
Di
fronte a una sfida siffatta, questo sinodo e il successivo decideranno se la
risposta adeguata sarà quella di aprire un varco al divorzio oppure di
restituire al matrimonio cattolico indissolubile tutta la sua forza e bellezza
alternativa, rivoluzionaria.
Quello
che segue è l’intervento nella discussione non di un padre sinodale, ma di un
cardinale di Santa Romana Chiesa che ha ritenuto doveroso non tacere.
__________
Il
Vangelo della famiglia nell’Occidente secolarizzato
di
Camillo Ruini
Quella
cellula fondamentale della società che è la famiglia sta attraversando un
periodo di straordinariamente rapida evoluzione.
Ormai
appaiono ovvi i rapporti prematrimoniali e pressoché normali i divorzi, molto
spesso come conseguenza della rottura della fedeltà coniugale. Ci allontaniamo
così dalla fisionomia tradizionale della famiglia, nei paesi e nelle civiltà segnati
dal cristianesimo.
Negli
ultimi decenni poi, almeno in Occidente, siamo entrati in territori inesplorati.
Si sono fatta strada, infatti, le idee del “gender” e dei “matrimoni
omosessuali”.
Alla
radice di tutto ciò vi è il primato, e quasi l’assolutizzazione, della libertà
individuale e del sentimento personale. Perciò il legame familiare deve essere
plasmabile a piacere e comunque non impegnativo, fino a scomparire o ad essere
praticamente irrilevante.
Nella
medesima logica questo legame deve essere accessibile a ogni tipo di coppia,
sulla base della rivendicazione di una totale uguaglianza che non accetta le
differenze, soprattutto quelle riconducibili a una volontà esterna, sia essa
umana (le leggi civili) o divina (la legge naturale).
Rimane
forte e diffuso, tuttavia, il desiderio di avere una famiglia e possibilmente
una famiglia stabile: desiderio che si traduce nella realtà di tante famiglie “normali”
e anche di numerose famiglie autenticamente cristiane. Queste ultime sono certo
una minoranza, ma consistente e assai motivata.
La
sensazione che la famiglia propriamente intesa stia scomparendo è dunque in
buona parte frutto della distanza tra il mondo reale e il mondo virtuale
costruito dai mezzi di comunicazione, sebbene non si debba dimenticare che questo
mondo virtuale influisce potentemente sui comportamenti reali.
A
uno sguardo sereno ed equilibrato appaiono quindi poco fondati, riguardo alla
famiglia e al suo futuro, il pessimismo unilaterale e la rassegnazione. Vale
piuttosto anche per la pastorale della famiglia l’atteggiamento del Concilio
Vaticano II verso i tempi nuovi, atteggiamento che possiamo riassumere nel
binomio accoglienza e riorientamento verso Cristo salvatore.
In
concreto, nella “Gaudium et spes”, nn. 47-52, abbiamo riguardo al matrimonio e
alla famiglia un nuovo approccio, assai più personalistico ma senza rotture con
la concezione tradizionale. Poi le catechesi sull’amore umano di san Giovanni
Paolo II e l’esortazione apostolica “Familiaris consortio” hanno costituito un
grande approfondimento, che apre prospettive nuove e affronta molti dei problemi
attuali. Sebbene queste catechesi non potessero misurarsi esplicitamente con
gli sviluppi più recenti e più radicali, come la teoria del “gender” e il
matrimonio tra persone dello stesso sesso, hanno tuttavia già posto, in buona
misura, le basi per affrontarli.
Indubbiamente
la pratica pastorale non sempre è stata all’altezza di questi insegnamenti – e
del resto non può mai esserlo compiutamente –, ma si è mossa nella loro linea
con importanti risultati: sono anche suo frutto, infatti, le nostre giovani
famiglie cristiane.
*
Ora,
con papa Francesco, abbiamo due sinodi riguardo alle sfide pastorali sulla
famiglia nel contesto della nuova evangelizzazione, dopo il concistoro del
febbraio scorso che è già entrato nell’argomento: una tappa ulteriore in questo
cammino di accoglienza e riorientamento che tutta la Chiesa è chiamata a
percorrere con fiducia.
L’ottica
dei due sinodi deve essere chiaramente universale e nessuna area geografica o
culturale può pretendere che i sinodi si concentrino solo sui propri problemi.
Ciò
premesso, per l’Occidente le questioni più rilevanti sembrano essere quelle più
radicali sorte negli ultimi decenni. Esse spingono a ripensare e rimotivare,
alla luce del Vangelo della famiglia, il significato e il valore del matrimonio
come alleanza di vita tra l’uomo e la donna, orientata al bene di entrambi e
alla generazione ed educazione dei figli e dotata di una decisiva rilevanza
anche sociale e pubblica.
Qui
la fede cristiana deve mostrare una vera creatività culturale, che i sinodi non
possono produrre automaticamente ma possono stimolare, nei credenti e in quanti
si rendono conto che è in gioco una fondamentale dimensione umana.
*
Continuano
però ad interpellarci e sembrano diventare sempre più acute anche altre
questioni, già ripetutamente affrontate dal magistero. Tra queste quella dei
divorziati risposati.
La
“Familiaris consortio”, n. 84, ha già indicato l’atteggiamento da assumere: non
abbandonare coloro che si trovano in questa situazione, ma al contrario averne
speciale cura, impegnandosi a mettere a loro disposizione i mezzi di salvezza
della Chiesa. Aiutarli quindi a non considerarsi affatto separati dalla Chiesa
e a partecipare invece alla sua vita. Discernere bene, inoltre, le situazioni,
specialmente quelle dei coniugi abbandonati ingiustamente rispetto a quelle di
chi ha invece colpevolmente distrutto il proprio matrimonio.
La
medesima “Familiaris consortio” ribadisce però la prassi della Chiesa, “fondata
sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati
risposati”. La ragione fondamentale è che “il loro stato e la loro condizione
di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la
Chiesa che è significata e attuata dall’Eucaristia”.
Non
è dunque in questione una loro colpa personale ma lo stato in cui
oggettivamente si trovano. Perciò l’uomo e la donna che per seri motivi, come
ad esempio l’educazione dei figli, non possono soddisfare l’obbligo della
separazione, per ricevere l’assoluzione sacramentale e accostarsi all’Eucaristia
devono assumere “l’impegno di vivere in piena castità, cioè di astenersi dagli
atti propri dei coniugi”.
Si
tratta indubbiamente di un impegno molto difficile, che di fatto viene assunto
da pochissime coppie, mentre sono purtroppo sempre più numerosi i divorziati
risposati.
Si
stanno cercando quindi, da tempo, altre soluzioni. Una di esse, pur mantenendo
ferma l’indissolubilità del matrimonio rato e consumato, ritiene di poter
consentire ai divorziati risposati di ricevere l’assoluzione sacramentale e di
accostarsi all’Eucaristia, a precise condizioni ma senza doversi astenere dagli
atti propri dei coniugi. Si tratterebbe di una seconda tavola di salvezza, offerta
in base al criterio della “epicheia” per unire alla verità la misericordia.
Questa
via non sembra però percorribile, principalmente perché implica un esercizio
della sessualità extraconiugale, dato il perdurare del primo matrimonio, rato e
consumato. In altre parole, il vincolo coniugale originario continuerebbe ad
esistere ma nel comportamento dei fedeli e nella vita liturgica si potrebbe procedere
come se esso non esistesse. Siamo quindi di fronte a una questione di coerenza
tra la prassi e la dottrina, e non soltanto a un problema disciplinare.
Quanto
alla “epicheia” e alla “aequitas” canonica, esse sono criteri molto importanti
nell’ambito delle norme umane e puramente ecclesiali, ma non possono essere
applicate alle norme di diritto divino, sulle quali la Chiesa non ha alcun
potere discrezionale.
A
sostegno dell’ipotesi predetta si possono certamente addurre soluzioni
pastorali analoghe a quelle proposte da alcuni Padri della Chiesa ed entrate in
qualche misura anche nella prassi, ma esse non ottennero mai il consenso dei Padri
e non furono in alcun modo dottrina o disciplina comune della Chiesa (cfr. la
lettera della congregazione per la dottrina della fede ai vescovi della Chiesa
cattolica circa la recezione della comunione eucaristica da parte di fedeli
divorziati risposati, 14 novembre 1994, n. 4). Nella nostra epoca, quando, per
l’introduzione del matrimonio civile e del divorzio, il problema si è posto nei
termini attuali, esiste invece, a partire dall’enciclica “Casti connubii” di
Pio XI, una chiara e costante posizione comune del magistero, che va in senso
contrario e che non appare modificabile.
*
Si
può obiettare che il Concilio Vaticano II, senza violare la tradizione
dogmatica, ha proceduto a nuovi sviluppi su questioni, come quella della
libertà religiosa, sulle quali esistevano encicliche e decisioni del Sant’Ufficio
che sembravano precluderli.
Ma
il paragone non convince perché sul diritto alla libertà religiosa si è
prodotto un autentico approfondimento concettuale, riconducendo questo diritto
alla persona come tale e alla sua intrinseca dignità, e non alla verità
astrattamente concepita, come si faceva in precedenza.
La
soluzione proposta sui divorziati risposati non si basa invece su un simile
approfondimento. I problemi della famiglia e del matrimonio incidono inoltre
sul vissuto quotidiano delle persone in maniera incomparabilmente più grande e
concreta rispetto a quelli della fondazione della libertà religiosa, il cui
esercizio nei paesi di tradizione cristiana già prima del Vaticano II era
comunque in larga misura assicurato.
Dobbiamo
quindi essere molto prudenti nel modificare, riguardo al matrimonio e alla
famiglia, le posizioni che il magistero propone da gran tempo e in maniera
tanto autorevole: in caso contrario sarebbero assai pesanti le conseguenze
sulla credibilità della Chiesa.
Ciò
non significa che ogni possibilità di sviluppo sia preclusa. Una strada che
appare percorribile è quella della revisione dei processi di nullità del
matrimonio: si tratta infatti di norme di diritto ecclesiale, e non divino.
Va
quindi esaminata la possibilità di sostituire il processo giudiziale con una procedura
amministrativa e pastorale, rivolta essenzialmente a chiarire la situazione
della coppia davanti a Dio e alla Chiesa. È molto importante però che qualsiasi
cambiamento di procedura non diventi un pretesto per concedere in maniera
surrettizia quelli che in realtà sarebbero divorzi: un’ipocrisia di questo
genere sarebbe un gravissimo danno per tutta la Chiesa.
*
Una
questione che va al di là degli aspetti procedurali è quella del rapporto tra
la fede di coloro che si sposano e il sacramento del matrimonio.
La
“Familiaris consortio”, n. 68, mette giustamente l’accento sui motivi che
inducono a ritenere che chi chiede il matrimonio canonico abbia fede, sia pure
in grado debole e da riscoprire, rafforzare e far maturare. Sottolinea inoltre
che delle ragioni sociali possono lecitamente entrare nella richiesta di questa
forma di matrimonio. È sufficiente pertanto che i fidanzati “almeno
implicitamente acconsentano a ciò che la Chiesa intende fare quando celebra il
matrimonio”.
Voler
stabilire ulteriori criteri di ammissione alla celebrazione, che riguardino il
grado di fede dei nubendi, comporterebbe invece gravi rischi, a cominciare da
quello di pronunciare giudizi infondati e discriminatori.
Di
fatto, però, sono purtroppo molti oggi i battezzati che non hanno mai creduto o
non credono più in Dio. Si pone dunque la questione se essi possano validamente
contrarre un matrimonio sacramentale.
Su
questo punto rimane di valore fondamentale l’introduzione del cardinale
Ratzinger al volumetto “Sulla pastorale dei divorziati risposati” pubblicato
nel 1998 dalla congregazione per la dottrina della fede.
Ratzinger
(Introduzione, III, 4, pp. 27-28) ritiene che si debba chiarire “se veramente
ogni matrimonio tra due battezzati è ‘ipso facto’ un matrimonio sacramentale”.
Il Codice di diritto canonico lo afferma (can. 1055 § 2) ma, come osserva
Ratzinger, il Codice stesso dice che ciò vale per un valido contratto matrimoniale,
e in questo caso è precisamente la validità a essere in questione. Ratzinger
aggiunge: “All’essenza del sacramento appartiene la fede; resta da chiarire la
questione giuridica circa quale evidenza di ‘non fede’ abbia come conseguenza
che un sacramento non si realizzi”.
Sembra
pertanto accertato che, se veramente non c’è fede, non c’è nemmeno il
sacramento del matrimonio.
Riguardo
alla fede implicita la tradizione scolastica, con riferimento a Ebrei 11, 6 (“chi
si avvicina a Dio deve credere che egli esiste e che ricompensa coloro che lo
cercano”), richiede almeno la fede in Dio rimuneratore e salvatore.
Mi
sembra però che questa tradizione vada aggiornata alla luce dell’insegnamento
del Vaticano II, in base al quale possono giungere alla salvezza che richiede
la fede anche “tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente
la grazia”, compresi coloro che si ritengono atei o comunque non sono giunti a
una conoscenza esplicita di Dio (cfr. “Gaudium et spes”, 22; “Lumen gentium”,
16).
Ad
ogni modo questo insegnamento del Concilio non implica affatto un automatismo
della salvezza e uno svuotamento della necessità della fede: mette invece l’accento
non su un astratto riconoscimento intellettuale di Dio bensì su una, per quanto
implicita, adesione a lui come scelta fondamentale della nostra vita.
Alla
luce di questo criterio, nella situazione attuale sono forse da ritenere ancora
più numerosi i battezzati che di fatto non hanno fede e che pertanto non
possono contrarre validamente il matrimonio sacramentale.
Sembra
quindi davvero opportuno e urgente impegnarsi a chiarire la questione giuridica
di quella “evidenza di non fede” che renderebbe non validi i matrimoni
sacramentali e che impedirebbe per il futuro ai battezzati non credenti di
contrarre un tale matrimonio.
Non
dobbiamo nasconderci, d’altra parte, che si apre così la via a cambiamenti
molto profondi e carichi di difficoltà, non solo per la pastorale della Chiesa
ma anche per la situazione dei battezzati non credenti.
È
chiaro infatti che essi hanno, come ogni persona, diritto al matrimonio, che
contrarrebbero in forma civile. La difficoltà maggiore non sta nel pericolo di
compromettere il rapporto tra ordinamento canonico e ordinamento civile: la
loro sinergia è già diventata infatti molto debole e problematica, per il
progressivo allontanarsi del matrimonio civile da quelli che sono i requisiti
essenziali dello stesso matrimonio naturale.
L’impegno
dei cristiani e di quanti siano consapevoli dell’importanza umana e sociale
della famiglia fondata sul matrimonio dovrebbe piuttosto essere rivolto ad
aiutare gli uomini e le donne di oggi a riscoprire il significato di quei
requisiti. Essi si fondano nell’ordine della creazione e proprio per questo
valgono per ogni tempo e possono concretizzarsi in forme adatte ai tempi più
diversi.
Vorrei
terminare richiamando l’intenzione comune che anima coloro che stanno
intervenendo nel dibattito sinodale: tenere insieme, nella pastorale della
famiglia, la verità di Dio e dell’uomo con l’amore misericordioso di Dio per
noi, che è il cuore del Vangelo.
__________
A
PROPOSITO DI INFORMAZIONE
In
occasione del sinodo in corso dal 5 al 19 ottobre la sala stampa della Santa
Sede ha creato un blog d’informazione in più lingue:
Gli interventi riportati nel blog vaticano, però, sono raccolti all’esterno dell’aula sinodale. Perché attorno a ciò che viene detto all’interno del sinodo è stata innalzata una barriera invalicabile.
Nei
sinodi precedenti non era così. Ogni giorno venivano diramati due bollettini in
varie lingue che riportavano tutti gli interventi in aula, riassunti dai loro
stessi autori.
Questa
volta, invece, sono forniti alla stampa solo i nomi degli intervenuti, mentre
sulle cose dette c’è solo il giornaliero resoconto orale di padre Federico
Lombardi, accuratamente purgato da indicazioni su chi abbia detto che cosa.
L’effetto
che si è immediatamente prodotto è uno sdoppiamento tra sinodo reale e sinodo
virtuale, quest’ultimo costruito dai media con la sistematica enfatizzazione
delle cose più gradite allo spirito del tempo. Uno sdoppiamento che era già
stato sperimentato con il Concilio Vaticano II, come ha messo a fuoco
magistralmente Benedetto XVI nell’ultimissimo suo incontro col clero di Roma, a
dimissioni già annunciate:
>
La guerra dei due Concili: il vero e il falso (15.2.2013)
Un’altra censura imposta quest’anno ai padri sinodali è il divieto di rendere pubblici di loro iniziativa i testi dei loro interventi, consegnati per iscritto, come richiesto, prima dello scorso 8 settembre.
Il
divieto è stato comunicato ai padri a voce, in apertura del sinodo, dal
segretario generale dello stesso, il cardinale Lorenzo Baldisseri. Il motivo
addotto è che, una volta consegnati, questi testi diventano di proprietà esclusiva
del sinodo.
Nei
sinodi precedenti non era così. Non solo venivano regolarmente diramate le
sintesi di ogni intervento, ma ciascun padre poteva renderne pubblico, se
voleva, il testo integrale.
Aprendo
il sinodo, papa Francesco ha chiesto ai padri sinodali di esprimersi con “parresìa”,
con franchezza e in libertà, senza il timore che “il papa pensi qualcosa di
diverso”.
Ma
questo libero confronto era proprio ciò che si era visto in atto nei mesi
precedenti, pro e soprattutto contro le proposte innovative del cardinale
Walter Kasper, che si sapevano concordate col papa.
Solo
che, curiosamente, proprio Kasper e i suoi sostenitori si erano mostrati
intolleranti alle critiche, tanto più se da parte di cardinali di primo piano
come Gerhard L. Müller, prefetto della congregazione per la dottrina della
fede.
Nel
corso del sinodo, il cardinale Müller ha chiesto che fossero resi pubblici i
testi degli interventi in aula dei padri sinodali. Ma invano.
La
blindatura informativa del sinodo non è quindi stata voluta da lui, né dagli
altri cardinali schieratisi come lui in strenua difesa dell’indissolubilità del
matrimonio cattolico.
Chi
l’ha voluta e decisa non può essere stato, in definitiva, che il papa.
Al
quale va ricondotta anche la composizione della commissione che scriverà la “Relatio
Synodi” conclusiva, con una maggioranza schiacciante di favorevoli a dare la
comunione a chi, divorziato, si è congiunto civilmente in seconde nozze:
Intanto ecco il rapporto sulla prima settimana del sinodo, letto lunedì 13 ottobre dal cardinale Péter Erdõ, relatore generale:
Fonte: www.chiesa, 13.10.2014
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