Nell'Ottava di Ognissanti e nella memoria dei Santi Quattro Coronati, ben volentieri rilancio sul blog quest'interessante contributo del giornalista Alessandro Gnocchi.
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Il
custode dei doni
Tradizionalista ma non estraneo al mondo, come pure certi
di noi vorrebbero essere. In tempi di macerie e bastonate, questo serve
di Alessandro Gnocchi
Parliamo
del tradizionalista, un po’ come settant’anni fa Leo Longanesi diceva “Parliamo
dell’elefante”. I vizi intellettuali non sono mutati e l’Italia a cavallo tra
fascismo e antifascismo, che era comunque un po’ cattolica, apostolica e romana,
assomiglia tremendamente alla chiesa di oggi, che è comunque sempre un po’
italiana. Allora, Longanesi metteva alla gogna i tic e le ipocrisie di una
classe intellettuale che preferiva esibirsi in esotiche disquisizioni, amava
“parlare dell’elefante” invece che dello sfacelo in cui era vittima e
carnefice. Allo stesso modo, nella chiesa d’oggi, fanno bella mostra coloro che
preferiscono “parlare del tradizionalista” invece che prendere atto
dell’allegro clima da autodemolizione in cui, come usa dire, cantano e portano
la croce.
Si
fa presto a dire “tradizionalista” con la stessa levità del Duclos
longanesiano. “Signori, parliamo dell’elefante” diceva l’ineffabile signore “è
la sola bestia di una certa importanza di cui si possa parlare, in questi
tempi, senza pericolo”. Ma il tradizionalista, a conoscerlo davvero, non è una
bestia di cui si possa parlare ricorrendo ai servigi della banalità. Non è
quello vituperato nei sermoni e nei tischreden di Santa Marta, non è quello
degli imbonitori di rassegne stampa a onde medie, non è quello dei cultori di
sociologia appesi all’attimo fuggente di un magistero in perenne evoluzione,
non è quello dei vescovi che emanano poveri decreti di scomunica contro i
fedeli che osano frequentare la buona messa di una volta. Non è tutto questo e
non è tanto altro ancora.
Il
tradizionalista non è ciò che sembra. È misteriosa e inalienabile intimità con
ciò che non ha più, è riparo per i legami tra cielo e terra ai tempi dell’oblìo
decretato dalle voglie mondane penetrate nel tempio: è la sua stessa povertà,
la sua stessa solitudine che si fanno luogo della carne e dell’anima dove è
possibile incontrare grandezza o miseria, salvezza o perdizione. Lo scoglio su
cui può salvarsi o fare naufragio è l’evangelico vivere nel mondo senza essere del
mondo. La tentazione di ritirarsi altrove salvando una purezza terrena che non
esiste è una sirena tremenda e vince con troppa facilità. Così certi
tradizionalisti preferiscono vivere in un mondo in bianco e nero quando persino
il colore è quasi passato di moda. Finiscono per coltivare un giardino nel
quale gli altri, i moderni, non possono neanche guardare e, se anche lo
facessero, non potrebbero godere dei tesori che vi crescono. Lo sdegno per una
suor Cristina che imita Madonna (la cantante) dice poco o nulla se non si
comprende dove e come nasce il fenomeno. Vivere nel mondo significa correre il
rischio del contagio sapendo che l’antidoto sta nel non appartenergli. O si è
contemporanei del proprio tempo pur combattendolo, o si diventa guardiani di un
museo in cui il passato cessa di vivere e di essere tradizione poiché gli si
sottrae il cuore.
Il
destino del tradizionalista è in bilico come quello delle chiese che Proust
proteggeva dalla rapacità laica dello stato in un articolo che il 16
agosto 1904 il Figaro titolava “La morte delle cattedrali”: “Ebbene, meglio
devastare una chiesa che dissacrarla. Finché vi si celebra la Messa, per
mutilata che sia essa conserva ancora la sua vita. Dal giorno in cui viene
dissacrata è morta, e se anche sia protetta come monumento storico di
celebrazioni scandalose, non è più che un museo. (…) Quando il sacrificio della
carne e del sangue del Cristo, il sacrificio della Messa, non sarà più
celebrato nelle chiese, non vi sarà in esse più vita”.
D’altra
parte, bisogna riconoscere che la sirena di ritrarsi altrove è tanto più
ammaliante in quanto ora è la chiesa stessa a essere dissacrata dai tradimenti
dei suoi figli e dei suoi pastori. Il custode della tradizione oggi vive nel
dramma dei primi versi del Salmo 11, “Salvum me fac, Dómine, quóniam deficit
sanctus, quóniam diminúte sunt veritátes a filiis hóminum”, si misura con il
momento in cui non vi sono più santi, la sincerità è venuta meno tra i figli
degli uomini e chi dovrebbe custodire la castità del vero, parla con “lábia dolósa”.
È
questa la radice della grande tentazione: porre la domanda del salmista a Dio
rispondendo però da se stessi con le proprie parole. Il frangente che
costituisce il tradizionalista come tale, la consapevolezza di essere ciò che
ha perso, è anche quello in cui deve decidere se amare ancora una chiesa divenuta
matrigna e infida oppure perdersi nel rimpianto zelante e amaro di quando era
madre e maestra. Questo sans-papiers de l’Eglise, non può sottrarsi alla
scelta impostagli dal tempo in cui vive: tenere per sé il tesoro che custodisce
nella sacca o riportarlo tra le navate, sotto gli archi, davanti all’altare da cui
è stato cacciato. Se ha carità, dividerà con i fratelli il seme che ha saputo
salvare. Se non ne ha, lo conserverà per se stesso, finendo irrimediabilmente
per modellare quel tesoro a propria immagine e somiglianza e renderlo sterile.
Chi
gli rimprovera di mutare i pani in pietre, di farsi duro di cuore,
intellettualista, legalista ne ha poca pratica e lo scambia colpevolmente con
la sua caricatura. Lo stregone che lancia sui suoi seguaci i precetti come
fossero pietre non ha nulla a che fare con il custode della tradizione, ha ben
altra origine. Lo testimoniano quei cattolici progressivi, liberi e disinibiti
già negli anni Ottanta, che al momento di divorziare, vivevano come momento più
drammatico “quello in cui dovevamo dirlo al padre”: quel “padre” duro e
inflessibile era David Maria Turoldo, il profeta dei tempi nuovi e di una
chiesa nuova, che aveva trovato proprio nel sostegno al divorzio la chiave per
predicare la sua religione al mondo. La morale e la misericordia, senza la
verità, diventano sempre moralismo e violenza.
Nulla
di più lontano dal reverendo Bournisien, oggi ridotto a vecchio arnese
tradizionalista, il sacerdote che porta i sacramenti a madame Bovary sul letto
di morte. “Il prete” racconta Flaubert “si sollevò per prendere il crocefisso.
Allora ella allungò il collo come un assetato e, premendo le labbra al corpo
dell’Uomo-Dio, con le poche forze che le restavano vi depose il più grande
bacio d’amore che mai avesse dato. Poi il prete recitò il Miserere e
l’Indulgentiam, immerse il pollice della mano destra nell’olio e cominciò
l’unzione. Prima sugli occhi che avevano bramato tutte le ricchezze terrene;
poi sulle nari tanto avide di tiepida brezza e di profumi amorosi; poi sulla
bocca che si era schiusa alla menzogna, che aveva avuto gemiti d’orgoglio e
gridi di lussuria; poi sulle mani che avevano conosciuto la delizia dei
contatti soavi, e infine sulla pianta dei piedi, così rapidi, un giorno, nel correre
all’appagamento dei desideri e che ormai non avrebbero più camminato. Il prete si
asciugò le dita, gettò nel fuoco i batuffoli d’ovatta intrisi d’olio e tornò a
sedere presso la moribonda per dirle che ora ella doveva congiungere le proprie
sofferenze con quelle di Gesù e abbandonarsi alla Misericordia divina”.
Questa
sequenza di segni, così celesti e così concreti, “ad oculos, ad aures, ad
nares, ad os compressis labiis, ad manus, ad pedes” avrebbe efficacia anche se
l’uomo non ci mettesse il cuore, perché sgorgano da quello di Dio. Ed è tragico
che vengano imputati come prova di aridità a carico chi continua a tenerli
vivi, quasi che la condiscendenza alle derive mondane possa essere più
meritoria agli occhi del Signore. Non c’è nulla, sulla terra, che valga quanto
la forma e la materia di un sacramento per santificare e letificare la vita e
la morte degli uomini: “Ora Emma non era più così pallida e aveva sul volto
un’espressione di serenità, quasi che il sacramento l’avesse guarita”. Proust,
padre letterario degli atei devoti, era incantato dalla levità di queste righe.
E fu forse lo splendore liturgico che vi riluceva a fargli serbare come ricordo
tra i più amati un Rosario portatogli dalla Terra Santa, tanto da chiedere più
volte alla governante di porglielo tra le mani in punto di morte. Ma, pur
essendo custode di tale splendore e tale grandezza, il tradizionalista può
cadere nel troppo umano e persino nel solo umano. Che non consiste nell’esibire
una dottrina e una pastorale a cui ha sottratto il cuore, ma nel tenerle solo
per sé, quasi fosse l’avanguardia di una rivoluzione al contrario e non,
invece, soldato sotto gli stendardi del contrario della rivoluzione.
Tale
tentazione è frutto dell’applicazione di categorie politiche al Corpo Mistico
di Cristo: l’unico luogo di questo mondo in cui non hanno efficacia e sono
destinate a fallire. La prova del Concilio Vaticano II, consegnato dal
modernismo a una visione politicizzata, ha condotto certi tradizionalisti a
cadere nel grande inganno rivoluzionario finendo in due finti opposti. Da un
lato, si sostiene che un Concilio non può sbagliare e dunque, dal momento che
alcuni documenti del Vaticano II suscitano difficoltà, il Papa che li ha
promulgati e i successori che li hanno accettati hanno perso quanto meno
“formalmente” la suprema autorità: sono Papi solo “materialmente”. Dall’altro,
si dice che un Concilio non può sbagliare, dunque il Vaticano II non ha
sbagliato, dunque non solo è un vero Concilio ma è il metro per giudicare tutto
il Magistero precedente. Se per i primi il Vaticano II è tutto da buttare a
prescindere, per i secondi è tutto da accettare a prescindere. Ma si tratta
della stessa posizione che viene semplicemente capovolta.
Gli
uni e gli altri, hanno perduto di vista il cristallino “Magnopere curandum est
ut id teneatur quod ubique, quod semper, quod ab omnibus creditum est”
distillato da san Vincenzo di Lerino nel suo “Commonitorium”: “Bisogna soprattutto
preoccuparsi perché sia conservato ciò che in ogni luogo, sempre e da tutti è
stato creduto”. Il tradizionalista si perde quando sottrae la conservazione e
la trasmissione della fede all’esercizio della carità e la consegna in ostaggio
alla propria intelligenza, al proprio ego. Cosicché, l’eccessiva raffinatezza
della cervice teologica, a forza di rendere acuti i ragionamenti, finisce per
trasformarli in ottusi e incapaci di parlare al prossimo. Sia che viri verso il
neoconservatorismo, sia che viri verso il sedevacantismo, il risultato è un
tradizionalismo afasico, al limite dell’autismo, che si compiace della purezza
propria e, forse ancor di più, dell’impurezza altrui. Sul piano pastorale, ne
discende una degenerazione clericale: il sopruso e la condanna senza capacità
di porgere perdono. Sul piano dottrinale, ne deriva il peccato d’orgoglio: alla
condanna senza capacità di porgere la verità.
Ma
sarebbe troppo semplice, troppo politico, applicare la teoria degli opposti
estremismi al mondo tradizionale nel tentativo di salvare un centro buono e
puro. L’ipertrofia della cervice è un virus tremendo che ama diffondersi
ovunque vi sia attenzione alla ragione e alla dottrina e, nella fase di
incubazione, si accontenta di poco. Gli basta che il ventricolo cerebrale del
cattolico prenda a pulsare anche solo un po’ più forte e un po’ più in fretta
di quello caritatevole. Allora il tradizionalista, che giustamente e
cattolicamente prova orrore al cospetto dell’ospedale da campo dove ogni male
viene curato con il corazón, rischia di dimenticare che gli uomini sono anime
dentro a dei corpi. Perde di vista il senso con cui san Pio X ammoniva che “i
veri amici del popolo non sono né rivoluzionari, né novatori, ma
tradizionalisti”.
E
non è nell’incedere liturgico, nei paramenti pregiati, nelle suppellettili
preziose che il tradizionalista trova ostacolo nel farsi amico del popolo. Chi
sorride o si scandalizza della devozione a tanto splendore, non sa che quelle
liturgie, quei paramenti, quelle suppellettili possono diventare la salvezza di
Emma Bovary e della vecchina perennemente inginocchiata a dire il rosario, che
possono accompagnare un re all’incoronazione o un sacerdote davanti al plotone
d’esecuzione dei rivoluzionari spagnoli e messicani. La grandi opere di
assistenza e di mutuo soccorso sono nate nel cuore della chiesa ai tempi in cui
il Santissimo passava sotto magnificenti baldacchini tra le folle
inginocchiate. Il tradizionalista è amico del popolo proprio perché si fa
tutt’uno con quell’incedere liturgico, quei paramenti pregiati, quelle
suppellettili preziose, le offre a Dio e quindi non chiede nulla in cambio agli
uomini.
Così
può curarsi dei corpi senza dimenticare che racchiudono delle anime. Come Santa
Teresa di Gesù Bambino, anima felice di essere forma di un corpo malato. Un
giorno, durante la malattia che la accompagnò alla morte, la piccola Teresa
ebbe in dono dalle consorelle una rosa. Invece che deporla in un vaso, la
sfogliò sul Crocifisso con pietà e amore, quasi a lenire le piaghe di Cristo.
“Nel mese di settembre” disse accompagnando il suo gesto “la piccola Teresa
sfoglia ancora una rosa di primavera”. E poi “En éffeuillant pour Toi la
rose printanière, je voudrais essuyer tes pleurs!”. Sfogliando per Te la rosa
primaverile, vorrei asciugarti le lacrime”. E, siccome i petali cascavano per
terra e rischiavano di andare persi, ormai morente si affrettò a invitare le
consorelle a non sprecare tanta bellezza: “Raccoglieteli sorelline mie, vi saranno
utili per fare dei piaceri più tardi, non ne perdete nessuno…”. Era il
settembre 1897. Nel settembre 1910, uno di quei petali guarì il vecchio
Ferdinand Aubry da un cancro alla lingua.
Il
tradizionalista ha tra le mani petali come questi e, se non vuole perdere se
stesso, deve perennemente fare memoria che non sono suoi. Solo così potrà
trovare un luogo, anche piccolo, in una di quelle scene sacre che ammaliarono
Proust, dalle vetrate delle cattedrali in procinto di essere dissacrate dallo
stato francese. Immagini così cattoliche da accogliere tutti: “Non soltanto la
regina e il principe (…). O voi tutti, dalle vostre vetrate di Chartres, di
Tours, di Bourges, di Sens, di Auxerre, di Troyes, di Clermont Ferrand, di
Tolosa, bottai, pellai, speziali, pellegrini, bifolchi, armaioli, tessitori,
tagliapietre, beccai, panierai, scarpari, cambiamonete, o voi, grande
democrazia silenziosa, fedeli ostinati ad ascoltare l’uffizio, non smateriati
ma più belli che ai giorni della vostra vita, nella gloria di cielo e di sangue
della preziosa vetrata, non udrete più la Messa che vi eravate assicurata dando
per l’edificazione della chiesa i vostri più limpidi scudi”. Il limpido scudo
con cui il tradizionalista può assicurarsi un luogo tra questi fratelli è
lucente di dottrina e liturgia, ma ha da ardere di carità.
Fonte: Il Foglio, 6.11.2014
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