Nella
memoria di san Saba, archimandrita, rilancio quest’interessante contributo di
Alessandro Gnocchi.
A.
Gnocchi, In principio furono i martiri, i santi, i sacerdoti, i teologi… poi
vennero gli intellettuali
Cortigiani... |
Alessandro
Gnocchi su Il Foglio di oggi [i.e. 4.12.2014, ndr.]. Mi pare che
il succo del discorso sia: “Attenti a non confondere il partito con la Verità”!
Ora il titolo è più azzeccato...
Mi
viene in mente che in fondo il processo di decadenza - di cui cerchiamo di
individuare le cause e che oggi ci appare accelerato quasi in una fase
irreversibile - è insito nella realtà delle cose e nelle loro finitudine, fin
dalla caduta originaria. E l’Antidoto ci è stato dato. Anzi, è venuto!
L’Unico,
nei confronti dell’omologazione e della cortigianeria, nella vera libertà dei
figli di Dio. Costa, ma vale la pena e darà i suoi frutti.
Ogni
tanto si fa strada qualcosa di timidamente cattolico nelle cronache ecclesiali
di questo inizio di millennio, ma non è un bel segno se diventa una notizia. Il
parlare cattolico in casa cattolica è divenuto come il classico caso di scuola
del bambino che morde il cane con cui vengono stupiti i praticanti giornalisti
al primo giorno di redazione. Ma, per quanto arrivi anche in pagina, il bambino
che morde il cane nella nuova chiesa di Francesco è pur sempre di una cosina da
nulla, un ricamino a punto croce su una tunica lacera e rattoppata, destinato a
divenire invisibile nessuno solo qualche giorno dopo.
È
normale che vada così perché, a voler leggere i segni dei tempi nell’ermeneutica
del “chi sono io per giudicare?”, il cane che morde il bambino, la non-notizia,
sta nell’ossequioso inchinarsi al mondo. Cosicché sorprendono poco o nulla le
scuse con le quali la curia di Milano ha sconfessato sull’altare laico di “Repubblica”
un sacerdote preoccupato dall’incalzare della cultura gender o il licenziamento
del professore di religione anti-aborto. Tanto che non vengono neppure citati
in un’intera paginata di intervista sul “Corriere della Sera” alla vigilia del
discorso di Sant’Ambrogio. Riescono a scandalizzare gli atei devoti al luminoso
mistero della legge di ragione, qualche cattolico fuori moda e pochi altri
ancora.
Ma,
in questo prostrarsi della chiesa al cospetto della dittatura mondana la
notizia ci sarebbe, e pure enorme. Pare impossibile che così pochi riescano a
scorgere il relitto di una fede e di una cultura capaci di reggere la scena per
due millenni rovesciato malamente sul fondale della storia. Eppure, la chiesa
portatrice di una verità universale e libera da vocazioni minoritarie sulla cui
esistenza si interroga Giuliano Ferrara è lì, impantanata nei bassifondi del
mondo come la carcassa della “Concordia” dopo l’inchino davanti all’Isola del
Giglio.
La
chiesa postmoderna è statutariamente minoritaria perché ha scelto di esserlo
nel momento in cui ha abbracciato il secolo invece che combatterlo per la sua
redenzione. Con il Concilio Vaticano II, ha di fatto adottato per decreto i
principi e l’agenda di un pensiero avverso portando a completa maturazione l’”Umanesimo
integrale” sognato tre decenni prima da Jacques Maritain. Nel disegno del
filosofo francese approdato al patto con la modernità dopo una fase antimoderna
che lo aveva visto militare nell’Action Française di Charles Maurras c’era un
cristianesimo minoritario, piccola parte di lievito destinata a far crescere la
pasta mondana. Un disegno in evidente discontinuità con la vocazione
maggioritaria e universale di cui la chiesa cattolica era sempre stata
portatrice che suscitò qualificate resistenze. Il gesuita padre Antonio
Messineo, nell’articolo “La filosofia della storia di Maritain” pubblicato nel
1956 su “La Civiltà cattolica”, diceva: “Il continuo appello al concetto
evolutivo della storia fa sorgere spontaneamente la domanda, se la teoria del
Maritain non abbia qualche punto in contatto con lo storicismo contemporaneo.
(…) Sul piano della storia non opererebbe il Cristianesimo in quanto religione
rivelata e trascendente, non il Vangelo nella sua purità originaria di parola
divina trasmessa all’uomo, non l’ordine della grazia e delle realtà superiori
in esso contenute, ma un cristianesimo e un Vangelo vuotati del loro contenuto
soprannaturale e naturalizzati, temporalizzati. (…) Questi sarebbero, come li
chiama Maritain, riflessi evangelici sul temporale. Sul significato di questa
frase non può correre dubbio. Con essa si vuol dire che il Vangelo, nella sua
essenza di lievito divino e soprannaturale, non fermenta direttamente la
società e non entra tra i componenti della civiltà, di nessuna civiltà. Sul
piano umano, in sua vece, agisce un surrogato che si ottiene mediante la
perdita del suo carattere originario, mediante la trasformazione dei suoi
princìpi in princìpi umani, temporali e limitati, di contenuto profano”.
Il
sogno maritainiano, che solidificava gli intenti di desistenza fermentati da
lungo tempo nel corpo ecclesiale, era destinato ad avere la meglio. E ciò fece
del filosofo francese il modello dell’intellettuale cattolico, tanto che papa
Paolo VI, suo debitore nel sentimento di apertura alla modernità, lo scelse
come destinatario del messaggio agli uomini cultura e agli artisti sortito dal
Vaticano II. In tal modo, Maritain divenne la soluzione all’inedito problema
che il corpo ecclesiale si trovava ad affrontare, il rapporto con gli
intellettuali.
Ai
suoi inizi, la chiesa ha domato il mondo con il sangue dei martiri e non con l’inchiostro
degli scrittori e dei pensatori. Poi ha avuto santi, papi, monaci, sacerdoti,
teologi, filosofi, scienziati e, al tempo degli splendori della corte,
scultori, poeti, pittori, musicisti: tutti illuminati da un chiarore che
dovevano celebrare nei riflessi del loro genio o della loro santità, magari di
tutte due insieme, a maggior gloria di Dio e per la salvezza del mondo.
La
razza dell’intellettuale ha altra origine. È nata con la modernità e, anche se
poi si accasa volentieri nelle stanze del potere, in origine è fatta per le
battaglie minoritarie. La sua formazione viene fatta risalire al XVIII secolo,
con l’accendersi nel mondo dei lumi che avrebbero definitivamente travolto il
cristianesimo e la sua rilevanza sociale. Ma il primo esemplare nasce due
secoli prima dentro la chiesa con il monaco agostiniano Martino Lutero. Le sue “95
tesi” affisse nel 1517 a Wittemberg costituiscono un vero e proprio “manifesto”,
atto intellettuale per eccellenza, il primo nella storia.
Da
quel momento, la chiesa e la cultura cattolica hanno avuto in sospetto la
figura del professionista delle idee e hanno potuto reggere l’urto fino a
quando la presa sulla società non è stata minata nelle fondamenta. Meno di un
secolo fa, Georges Bernanos riteneva “l’intellettuale moderno come l’ultimo
degli imbecilli fino a quando non abbia fornito prova del contrario”. Ma la sua
irrisione, per quanto fondata, era uno degli ultimi sussulti di un mondo
destinato a soccombere. Sulla tolda di una nave che continuava a viaggiare, era
difficile percepire la gravità della tragedia incombente, tanto che toccò a un
ateo affascinato dalla forza civilizzatrice intrinseca alla chiesa cattolica
come Maurras interrogarsi su “L’avvenire dell’intelligenza”. Era il 1927 e,
apparentemente, poco lasciava presagire cosa sarebbe avvenuto nella chiesa e
nel mondo nel giro di un secolo. Ma l’ateo francese che incappò nei fulmini di
Pio XI aveva capito che uno stesso declino avrebbe accomunato cattolici e laici
se non si fossero salvati gli intellettuali dall’essenza radicale che portavano
nei geni fin dal loro nascere. “Noi parliamo dell’Intelligenza” diceva “come se
ne parla a San Pietroburgo: del mestiere, della professione, del partito dell’Intelligenza”.
E concludeva la sua analisi sostenendo che “Davanti a questo orizzonte
sinistro, l’Intelligenza nazionale deve allearsi a coloro che tentano di fare
qualche cosa di bello prima di naufragare. In nome della ragione e della
natura, conformemente alle vecchie leggi dell’universo, per la salvezza dell’ordine,
per la durata e i progressi di una civiltà minacciata, tutte le speranze sono
riposte sulla nave di una Contro-Rivoluzione”.
Ma
il processo di decadenza era ormai stato innescato con spietatezza
irreversibile, come avrebbe mostrato quarant’anni più tardi il cattolico Marce
de Corte in un saggio titolato inequivocabilmente “L’intelligenza in pericolo
di morte”. Il filosofo belga sosteneva che quando le elites del vecchio mondo
tradiscono la loro consegna sostituendola “con un’altra meno austera, più
brillante, più lusinghiera, la prima concezione vacilla. Basta qualche
incrinatura nei punti nevralgici perché l’edificio crolli, anima e corpo.
Quando l’alto clero si diverte a rinnegare Dio e a esaltare l’uomo nelle logge,
quando l’aristocrazia a va a scuola dai retori e dagli imbrattacarte, siano
pure di talento, si può dire brutalmente che siamo alla fine”.
Giunta
sul limitare del vecchio mondo, la chiesa ha preferito gettarsi nelle braccia
del nuovo e si è dovuta inventare improvvisamente una figura di intellettuale
che potesse dialogare con i novelli compagni di strada parlando la loro stessa
lingua: Maritain era il prototipo perfetto. Ma, al di là dell’innegabile valore
personale del filosofo francese, l’operazione ha dato vita a una sorta di
ossimoro, un ruolo nato direttamente dall’istituzione invece che dalla libera
necessità di maneggiare idee anche criticando l’istituzione stessa: invenzione
di un clero senza più intelligenza, in debito di fede e quindi divenuto
clericale. Accasato direttamente nelle stanze del potere senza essere passato
nella palestra dell’antagonismo, l’intellettuale cattolico ha finito per
copiare maldestramente i modelli mondani assumendone le idee, i comportamenti e
persino i tic. Gli eredi di una tradizione che ha prodotto Dante e Manzoni,
Giotto e Michelangelo, il canto gregoriano e il Palestrina si sono ridotti a
scoprire la cattolicità del cinema neorealista, delle pagine di Pasolini o
delle canzoni di De Andrè. Con l’unico mandato di assumere il Concilio Vaticano
II come esclusivo criterio di interpretazione della realtà religiosa e profana:
l’intera storia della chiesa e del mondo e la cronaca spicciola lette come
anticipazione o come compimento del Concilio, con effetti comici se non fossero
drammatici.
In
tal modo, si è andata formando un’intellighentia clericale che, in parallelo
alla corrispondenza di amorosi sensi con il mondo, tende all’emarginazione
degli intellettuali cattolici non omologati. Sorti per germinazione spontanea
senza debiti genetici nei confronti del modello laico e votati a un ruolo
minoritario sono proprio costoro a essere riconosciuti come corpi estranei da
un organismo la cui struttura di potere è in perenne cortocircuito. Votata da
sempre a combattere con l’eresia, in epoca moderna e postmoderna la chiesa si è
improvvisamente trovata al cospetto delle idee. Ma, non essendosi dotata di
intellettuali capaci di vagliare il buono e gettare il cattivo, ha finito per
assumere dal mondo le eresie valorizzandole come idee e per respingere al
proprio interno le idee disprezzandole come eresie. Per questo motivo l’intervento
critico dell’intellettuale cattolico non omologato può essere parzialmente
tollerato derubricandolo a semplice atto d’amore senza riconoscergli lo statuto
di atto dell’intelligenza. Il moto dell’intelletto è un gesto alieno nella
chiesa del cuore e del sentimento, per questo i tempi della misericordia sono
tanto spietati con il dissenso argomentato.
Eppure,
se una riconquista è possibile, può passare solo attraverso l’antagonismo di
quegli intellettuali che vedono la radice dell’insignificanza della chiesa
postmoderna nell’adesione all’assunto fondamentale della modernità: la rinuncia
al corretto rapporto con il vero e la realtà. In piena temperie illuminista,
Joseph Joubert descriveva efficacemente l’esito di tale operazione nei suoi “Pensées”:
“Le menti falsate non hanno il senso del vero, ma ne posseggono le definizioni.
Guardano in se stesse invece che guardare davanti ai loro occhi. Nelle
deliberazioni consultano le idee che si fanno delle cose e non le cose stesse”.
Ma questa è un’evidenza che la chiesa di oggi non ha neanche la forza di
sussurrare poiché si è inchinata al suo opposto. “Al limite di una tale
perversione dell’intelligenza” scrive de Corte nel suo saggio “ci si trova
davanti a una religione senza Dio, una religione in cui Cristo è riportato all’uomo,
una religione dell’uomo. Ma poiché una religione dell’uomo è inevitabilmente
una religione che erige l’uomo signore dell’universo e poiché l’azione più
efficace è quella che sottrae l’uomo alla sua natura e ne opera un rimpasto
radicale, i valori dell’azione cedono il passo ai valori della trasformazione
demiurgica dell’uomo e del mondo, ai valori di creazione di un mondo nuovo e di
autocreazione dell’uomo a opera dell’uomo. In altre parole: il solo
cristianesimo che oggi sia ‘valevole’ è il cristianesimo rivoluzionario in cui
il potere dell’uomo sul mondo, su se stesso, sugli altri si manifesta
pienamente. Tale l’abisso in cui ruzzola il clero che subordina la
contemplazione all’azione e l’azione alla volontà di potenza. In questo abisso
di iniquità non v’è il più piccolo posto per l’intelligenza”.
Tale
oscurità può essere illuminata dai lampi di quegli intellettuali che sappiano
maneggiare le idee senza manipolarle, trattandole per quel valgono, in ossequio
alla verità e non al potere, compreso quello clericale. Per fare “ritorno al
reale”, come auspicava Gustave Thibon, è necessario affidarsi a menti così
paradossali che, in questi tempi invertiti, si possono concedere l’eccentricità
di cercare il vero nella casa della verità e di buttare l’errore nella sentina
della falsità. “Di tanto in tanto” scrive G.K. Chesterton celebrando “L’uomo
comune”
“nella
storia dell’umanità, ma soprattutto in epoche inquiete come la nostra, compare
una certa classe di cose. Nel vecchio mondo si chiamavano eresie. Nel mondo
moderno si chiamano mode. Talvolta sono utili per un certo periodo, altre volte
sono invece totalmente nocive. In ogni caso si tratta sempre di una
concentrazione impropria su una verità o mezza verità. È quindi giusto
insistere sulla conoscenza di Dio, ma è eretico insistervi, come fece Calvino a
spese del suo Amore; è quindi giusto desiderare una vita semplice, ma è eretico
desiderarla a spese della bontà d’animo e delle buone maniere. L’eretico, come
il fanatico, non è un uomo che ama troppo la verità, nessun uomo può amarla
troppo. L’eretico è un uomo che ama la sua verità più della verità stessa”.
Una
verità semplice che la chiesa non è più in grado di dire al mondo poiché si è
privata di coloro che avrebbero potuto farlo con efficacia. Agli intellettuali,
magari un po’ fastidiosi quando fanno onestamente il loro mestiere, ha
preferito i paggetti che le reggessero lo strascico alle nozze con il mondo.
Con la paradossale conseguenza di aver creato tanti cortigiani che, in tempi di
populismo tanguero, rischiano di non avere più neanche la corte.
Fonte: Chiesa e postconcilio, 4.12.2014. L'articolo è stato rilanciato anche dal blog Vigiliae Alexandrinae.
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