Nella memoria liturgica dei Santi Martiri Innocenti, rilancio quest'articolo pubblicato alcuni giorni fa dal prof. De Mattei. L'articolo è tradotto in inglese dall'immancabile Rorate Caeli.
Trittico antimoderno – La
principessa Elvina Pallavicini, don Francesco Putti, l’ing. Giovanni Volpe
di Roberto de Mattei
Ognuno di noi ha conosciuto nella sua
vita personaggi che, pur non godendo delle luci della ribalta, possono a pieno
titolo entrare nella storia, almeno quella minore. Di tre di questi personaggi
ricorre nel 2014 l’anniversario della morte. Dieci anni fa scomparve la
principessa Elvina Pallavicini, trent’anni addietro don Francesco Putti e
l’ingegner Giovanni Volpe. Le loro vite si sono intrecciate, di tutti sono
stato amico e insieme voglio ricordarli.
Elvina Pallavicini nacque nel 1914, a
Genova, da Giacomo dei Marchesi Medici del Vascello, e da Olga Leumann, famiglia
di imprenditori filantropi di origine elvetica. Il padre era nipote del
colonnello Giacomo Medici che, durante la Repubblica romana del 1849, animò
l’estrema difesa dei garibaldini, asserragliati nella villa Giraud, detta del
Vascello, sul Gianicolo (oggi sede del Grande Oriente d’Italia). Abbracciata la
causa monarchica, era divenuto prefetto di Palermo, deputato, e senatore,
ottenendo per le sue benemerenze patriottiche il titolo di marchese del
Vascello.
Nel 1939 Elvina sposò Guillaume de
Pierre de Bernis, marchese de Courtavel, che era stato adottato dallo zio,
Giulio Cesare Pallavicini, principe di Gallicano, assumendone il nome e il
titolo e ottenendo la cittadinanza italiana. Scoppiata la guerra, il
sottotenente Guglielmo Pallavicini si arruolò come pilota nella Regia
Aeronautica, ma il 1 agosto 1940, il Savoia Marchetti su cui, volava, in una
delle sue prime missioni contro la flotta inglese nel Mediterraneo, fu colpito
dalla contraerea nemica e si inabissò al largo delle isole Baleari. Elvina
rimase vedova a venticinque anni, con una bambina nel grembo, a cui avrebbe
dato il nome di Maria Camilla. Divenne proprietaria del Palazzo Rospigliosi
Pallavicini, sul colle del Quirinale, che molti considerano il più bel palazzo
privato d’Europa. La sua collezione, che Federico Zeri ha raccolto in un
imponente catalogo, comprende tele di Botticelli, Guido Reni, Rubens e dei
Carracci. Dopo l’occupazione tedesca di Roma, la giovane Elvina Pallavicini
fece del suo palazzo un centro della resistenza monarchica, sotto la guida del
generale Giuseppe Lanza Cordero di Montezemolo, comandante del Fronte Militare
Clandestino, poi ucciso alle Fosse Ardeatine. Il suo coraggio, spinto alla
temerarietà, le fruttò una medaglia di bronzo. Sotto questo aspetto Elvina
Pallavicini può essere paragonata a Edgardo Sogno, di cui fu amica, un altro
monarchico che sfidò il nazismo con un coraggio che raramente i partigiani
comunisti dimostrarono. Di certo non fu una principessa “nera”, né per le sue
scelte politiche, né per la tradizione liberale della sua famiglia.
Ancora giovane, Elvina Pallavicini fu
colpita da una grave forma di sclerosi che la portò ad una progressiva paralisi
delle gambe e poi delle braccia, costringendola su una sedia a rotelle, ma non
se ne lamentò mai. Il male non la piegò, ne esaltò anzi la combattività. Negli
anni Settanta, in un momento in cui l’alta borghesia portava all’estero
capitali e famiglie, considerando inevitabile l’avvento del comunismo in
Italia, Elvina lo avversò con la stessa decisione con cui aveva combattuto il
nazismo. Collaborò attivamente alla fondazione della prima televisione privata
a Roma, Tele Roma Europa, creata in chiave anticomunista da Gaetano Rebecchini,
e fece del suo palazzo un baluardo contro il compromesso storico. Ricordo di
aver tenuto proprio su questo tema a Palazzo Pallavicini, una delle mie prime
conferenze, alla vigilia delle elezioni del 1976 in cui il Pci ottenne il
miglior risultato della sua storia, fermandosi a pochi punti percentuali dalla
Dc.
Elvina Pallavicini non aveva paura di
niente e lo dimostrò quando, il 6 giugno 1977, ospitò nel suo palazzo mons. Marcel
Lefebvre, con un gesto che le costò incomprensioni e inimicizie. Nel 1976 mons.
Lefebvre era stato sospeso a divinis da Paolo VI ed era divenuto il simbolo
della resistenza tradizionalista alle derive postconciliari. Invitarlo a Roma,
in una sede prestigiosa come il palazzo Pallavicini sul Quirinale, aveva il
sapore di una sfida a Papa Montini e come tale fu intesa dalla stampa
internazionale, che accorse in massa per l’evento. La principessa subì
straordinarie pressioni per far saltare la conferenza. Il marchese Falcone
Lucifero, capo della Real Casa, fece appello ai suoi sentimenti monarchici a
nome di Umberto II. Mons. Andrea Cordero di Montezemolo la supplicò di
soprassedere, richiamandosi alla memoria del padre. Il principe Aspreno
Colonna, facendosi portavoce del patriziato romano, si dissociò dall’iniziativa
sulla prima pagina del quotidiano “Il Tempo”, allora diretto da Gianni Letta,
mentre il Gran Maestro dell’Ordine di Malta, Fra’ Angelo de Mojana, proibiva a
tutti i cavalieri di presenziare all’evento. Infine, il 5 giugno, alla vigilia
della conferenza, il cardinale Vicario Ugo Poletti, a nome della diocesi di
Roma, stigmatizzò violentemente in un comunicato stampa mons. Lefebvre e “i
suoi aberranti seguaci” per “l’offesa fatta personalmente al Papa”. Tutto fu
vano. Elvina Pallavicini non cedette di un pollice. “In casa mia – rispondeva –
credo di poter ricevere chi desidero ricevere”. La conferenza si tenne in una
sala stipata all’inverosimile. Mons. Lefebvre non fece il discorso incendiario
che i media attendevano, ma espose con tono pacato le ragioni del suo dissenso
da Roma. “Come può essere – disse – che continuando a fare ciò che ho fatto per
50 anni della mia vita, con le congratulazioni, con gli incoraggiamenti dei
Papi, e in particolare del Papa Pio XII che mi onorava della sua amicizia, che
io mi ritrovi oggi ad essere considerato quasi un nemico della Chiesa?”
Da allora il nome di Elvina Pallavicini
fu noto a tutto il mondo. La conferenza risvegliò improvvisamente la curiosità
e l’attenzione sull’esistenza di un patriziato e di una nobiltà romana, ancora
vivi e pugnaci, di cui la principessa Pallavicini era espressione e il suo
palazzo divenne una tribuna coraggiosa e anticonformista in cui, nel corso
degli anni, presero la parola personalità della cultura, della politica e
dell’arte. Nel 1993 la principessa ospitò un convegno su Nobiltà ed élites tradizionali analoghe, che “la
Repubblica” presentò come gli Stati generali della aristocrazia italiana. Negli
anni successivi, Elvina Pallavicini guidò, con il marchese Luigi Coda
Nunziante, l’associazione Noblesse et Tradition,
che raccoglieva un qualificato gruppo di aristocratici di tutto il mondo,
difensori dei valori tradizionali nella palude del relativismo contemporaneo.
Di lei apprezzavo soprattutto il senso che aveva della propria missione sociale
la fede semplice ma granitica e lo spirito categorico che la portava a rifiutare
ogni forma di compromesso.
Amante dell’arte incrementò la
straordinaria collezione del suo palazzo, assumendo nella Roma di fine
Novecento un ruolo analogo a quello che la principessa Isabel Colonna aveva
svolto negli anni Trenta. Alle sue conferenze erano sempre presenti in prima
fila numerosi cardinali, che accoglieva alla luce delle torce, come si conviene
ai principi della Chiesa. Nel 1994 Silvio Berlusconi presentò nella Sala del
Trono di Palazzo Pallavicini il movimento di Forza Italia nascente. Elvina
Pallavicini lo sostenne, ma prima di morire non nascose la sua delusione verso
la coalizione di destra tornata al governo.
Negli ultimi anni i suoi movimenti si
facevano sempre più difficili, ma continuò a ricevere sontuosamente nel suo palazzo,
assistita dalla fedele amica Elika del Drago e da impeccabili maggiordomi che
si succedevano al suo servizio. Trascorreva l’estate a Cortina d’Ampezzo, dove
morì il 29 agosto 2004, di fronte alle montagne che tanto amava.
Elvina Pallavicini ospitò per lunghi
anni nel suo ufficio di via della Consulta un’altra straordinaria personalità
che accanto a Lei merita di essere ricordata: don Francesco Maria Putti.
Chi ha conosciuto don Putti non può
dimenticarlo. Nacque nel 1909, a Sarzana, da una famiglia benestante, profondamente
cristiana. Aveva poco più di un anno quando fu colpito dalla poliomelite, con
gravi conseguenze per tutta la vita. Era un giovane particolarmente bello e
prestante e la malattia, come nel caso di Elvina Pallavicini, contribuì a
fargli comprendere il primato dei beni spirituali nella vita di un uomo.
Diplomatosi in ragioneria, alternò il lavoro all’apostolato, finché non
incontrò padre Pio da Pietrelcina, che lo diresse spiritualmente e lo
incoraggiò a farsi prete. Dopo molte traversie finalmente il 29 giugno 1956, a
47 anni, Francesco Putti fu ordinato sacerdote e celebrò la sua prima Messa a
San Giovanni Rotondo, all’altare dove celebrava quotidianamente Padre Pio. Non
poté avere una parrocchia a causa della sua infermità, ma esercitò per quasi 15
anni il ministero della confessione, ad Avellino, Salerno, Napoli. Negli anni
successivi al Vaticano II, don Putti misurò la gravità della crisi nella Chiesa
e si convinse della necessità di offrire ai confratelli sacerdoti e ai fedeli
uno strumento di informazione che li aiutasse a difendere la fede cattolica.
Dal 1975 alla morte, avvenuta il 21 dicembre 1984, la sua vita si identificò
con il quindicinale da lui fondato “SìSì NoNo”, un foglietto di poche pagine
che seminava il panico negli ambienti di Curia in cui era diffuso a tappeto,
per gli attacchi mirati contro i responsabili dell’avanzata progressista.
Su “SìSì NoNo” gli articoli non erano firmati. Si diceva, e solo
in parte era vero, che tra i collaboratori fossero illustri prelati e teologi
di orientamento tradizionale. Poco importa se a scrivere fosse un illustre
filosofo cattolico o il suo brillante assistente: ciò che contava erano le
nette affermazioni, con le quali si riproponeva il Magistero perenne della Chiesa,
e le altrettanto nette negazioni con le quali si rifiutavano le teorie
neomoderniste che circolavano nei seminari e nelle università cattoliche. Nel
primo numero di “SìSì NoNo”, il 6 gennaio 1975 il sacerdote romano scriveva:
“Il compito ingrato che la nostra pubblicazione si assume è quello di andare
controcorrente e di aiutare ad andare controcorrente, non per gusto, ma perché,
per seguire il bene, è oggi più che mai necessario andare controcorrente. La
nostra pubblicazione diffonderà idee chiare dicendo “sì” a quanto è conforme
alla Fede cattolica trasmessa dagli Apostoli (di cui è depositaria la Chiesa
docente, cioè il Papa e i vescovi a lui soggetti) e dicendo “no” senza mezzi
termini a quanto pretende di soppiantarla”.
Oggi si è duri nei rapporti umani e flessibili sui princìpi, con
conseguenze devastanti per la società. Il sacerdote romano era invece tanto
severo dal pulpito e dalle colonne del suo giornale, quanto mite e affettuoso
nei colloqui privati e nel confessionale. Solo chi gli è stato vicino sa con
quanta generosità si prodigava per la salvezza di un’anima. Eppure don Putti
era temutissimo e lo divenne ancora di più quando, nel 1981, querelò per
diffamazione l’allora direttore dell’“Osservatore Romano” Valerio Volpini e
vinse la causa. Il Tribunale condannò infatti il quotidiano della Santa Sede
per “aggressione scritta, immotivata e animosa, esercitata soltanto per ferire
la reputazione” della rivista “SìSì NoNo”.
La nascita di “SìSì NoNo”, avvenne alla fine del 1975, quando un
insigne biblista romano, mons. Francesco Spadafora, accompagnò don Putti in via
Michele Mercati a Roma, presso la sede della casa editrice Volpe, diretta
dall’ingegner Giovanni Volpe, con il quale collaboravo. Fui presente al colloquio
con cui mons. Spadafora raccomandò vivamente la pubblicazione del nuovo
periodico antimodernista. L’ing. Volpe indirizzò don Putti al suo tipografo Franco
Pedanesi, che pubblicò “SìSì NoNo” fino a quando le Discepole del Cenacolo, il
gruppo di fedeli suore che collaboravano con don Putti, non si dotò di una
propria tipografia.
La terza straordinaria personalità che voglio ricordare è proprio
Giovanni Volpe, la cui figura è scolpita nella mia memoria con caratteristiche
simili a quelle di Elvina Pallavicini e Francesco Putti. Nato nel 1906,
Giovanni Volpe, era figlio del celebre storico e accademico d’Italia Gioacchino
Volpe. Si era laureato in ingegneria e aveva creato un’impresa di costruzioni
affermatasi con successo in diversi paesi del mondo. Era divenuto ricco e, come
la principessa Pallavicini, aveva spirito di mecenate. Nel 1964 fondò a Roma la
casa editrice omonima, a cui affiancò due riviste, “La Torre” e “Intervento”, e
poi la Fondazione Gioacchino Volpe, dedicata alla memoria del padre.
Il
catalogo della casa editrice nel corso di vent’anni si arricchì di un
formidabile ventaglio di autori, conservatori, cattolici, nazionalisti. A me
sia concesso ricordare la traduzione, in lingua italiana, di opere fondamentali
per la cultura cattolica quali Luce del Medioevo di Régine Pernoud, L’eresia
del XX secolo di Jean
Madiran, La sovversione nella liturgia di Louis Salleron, La
grande eresia e L’intelligenza
in pericolo di morte di
Marcel de Corte, e molte altre.
Giovanni
Volpe era un uomo burbero, alto e imponente. Marcello Veneziani, uno dei
giovani che gli furono più vicini, ne ricorda l’impressione di signore
rinascimentale che ne ebbe quando lo incontrò per la prima volta: “mi colpì la
sua bellezza senile, priva dei segni crepuscolari dell’età grave, il suo
incedere dignitoso e gioviale, la fierezza del suo bianco onor del mento, che
rievocava suo padre, addolcita da un volto quasi rutilante ed aperto al
sorriso, la sua parola ricca e vigorosa”. Però, malgrado le soddisfazioni sul
lavoro la sua vita familiare non era stata facile e da questo nasceva una
severa tristezza nel suo sguardo. Egli non era solo un mecenate e un
organizzatore culturale, ma un grande intellettuale, appassionato di arte e di
archeologia: discuteva con gli autori dei libri che pubblicava, correggeva le
bozze e allegava a “La Torre” da lui diretta un “Quartino dell’Editore”, in cui
ogni mese interveniva sulla politica e sul costume.
Giovanni
Volpe era un uomo di destra a tutto tondo, monarchico, anticomunista, cattolico
tradizionale. Molte riunioni dell’associazione “Una Voce” per la difesa del
latino e del canto gregoriano, allora presieduta da Carlo Belli, si tenevano a
casa Volpe. Egli stesso, dopo l’esplosione del “caso Lefebvre”, fu autore nel
1976 di uno scritto su La doverosa impossibile obbedienza, in cui si esprimeva con queste chiare
parole: “Non c’è dubbio che l’obbedienza al Papa sia uno dei pilastri su cui si
fonda la Chiesa, ma si presume che a monte vi sia la Rivelazione e che il Papa,
a cui noi dobbiamo obbedienza, sia a sua volta obbediente ad essa ed alla
Tradizione multisecolare della Chiesa, non immobile ma nemmeno in evoluzione
con il mondo, con i suoi dogmi, i suoi riti, il suo costume, se è vero che Stat
Crux dum volvitur mundus” . (…) Si deve obbedienza al Papa, ma il
Papa deve obbedienza al Verbo e alla Tradizione apostolica. Si deve obbedienza
al Papa, ma spetta al Papa dare a questa obbedienza il carattere della
possibilità”.
La
Fondazione Volpe organizzava ogni mese di settembre in Romagna seminari per i
giovani, e tutte le primavere incontri internazionali che riunivano a Roma
studiosi antiprogressisti di tutto il mondo. I temi che venivano affrontati
erano Autorità e libertà, La memoria storica,L’avvenire della scuola, Il
non primato dell’economia, La tradizione nella cultura di domani,
con invitati come Erik von Kuenhelt-Leddhin, Eugen Weber, Julien Freund,
Augusto Del Noce, Marcel De Corte, Ettore Paratore, Massimo Pallottino e molti
altri.
Il
15 aprile 1986, dopo aver pronunciato sul podio le parole di conclusione
dell’ultimo convegno dedicato al tema Sì alla pace, no al pacifismo Giovanni Volpe, reclinò il capo e
morì, in piedi, come si addiceva a un combattente quale egli fu. I funerali
furono celebrati secondo il Rito romano antico da don Emanuele du Chalard de
Taveau, che sarebbe succeduto pochi mesi dopo a don Putti, come direttore di
“SìSì NoNo”. La Fondazione Volpe sopravvisse qualche anno, grazie alla moglie
di Giovanni, Elza De Smaele, donna di grande classe e intelligenza. Nel maggio
1989 la Fondazione Volpe tenne proprio a Palazzo Pallavicini, un importante
convegno revisionista sulla Rivoluzione francese, che fu il suo canto del cigno.
Augusto Del Noce presiedeva l’incontro. Credo di poter dire che nessuno ha
contribuito quanto Giovanni Volpe ad alimentare in Italia la cultura di destra,
cattolica e anticomunista, del secondo Novecento. Eppure Volpe non ricevette
dal partito di destra di allora, il Movimento Sociale, quel laticlavio di
senatore che avrebbe meritato e che non avrebbe disdegnato.
La
principessa Pallavicini, don Francesco Putti, l’ingegner Giovanni Volpe erano
considerati tre caratteri difficili. Io li ho conosciuti come persone di
carattere, tutte di un pezzo, come ormai non se ne trovano più. Uomini e donne
che credevano nella forza dei princìpi e che, per difenderli, non si ritrassero
dalla lotta. Tre figure che, al di là delle loro umane debolezze, non si
lasciarono risucchiare da quello che allora appariva il corso inesorabile degli
eventi. La memoria storica consiste anche nel non dimenticare coloro che ci
hanno preceduto lungo il cammino. Merita di essere fagocitato dall’oblio solo
chi della storia ha fatto un idolo, dimenticando l’esistenza di uomini e di
princìpi che la trascendono e la orientano.
Fonte: Il Foglio, 18.12.2014, ripreso da Corrispondenza romana,19.12.2014
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