Nella memoria di S.
Policarpo, vescovo e martire, volentieri rilancio questo contributo di Matteo
Matzuzzi.
Pulpito sbadiglio
Spiegare le Scritture, svegliare
i fedeli. Fare la predica è il lavoro più importante dei preti e nessuno lo sa
più fare. Papi in allarme
di Matteo Matzuzzi
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“Via queste omelie interminabili, noiose, delle quali non si capisce niente!”, diceva Papa Francesco ai rappresentanti del clero riuniti ad Assisi nell’ottobre del 2013 |
“Il testimone è colui che vive per primo il cammino che
propone”. (Benedetto XVI)
Il miracolo della chiesa è di sopravvivere ogni domenica
a milioni di pessime omelie”, disse una volta il cardinale Joseph Ratzinger
passando mentalmente in rassegna uno dei grandi punti dolenti della chiesa,
l’incapacità dei suoi ministri di predicare bene. Qualità rara, ben pochi sono
in grado di tenere alta l’attenzione dei fedeli spiegando, spesso per sommi
capi, i contenuti delle Scritture. E anche i migliori, a volte, incappano in
qualche défaillance. Perfino san Paolo, che gli Atti degli apostoli presentano
come il più intrepido e audace predicatore di Cristo “sino agli estremi confini
della terra”, ogni tanto la tirava troppo alla lunga, al punto che “un ragazzo
di nome Eutico, seduto alla finestra, mentre Paolo continuava a conversare
senza sosta, fu preso da un sonno profondo; sopraffatto dal sonno, cadde giù
dal terzo piano e venne raccolto morto”. Il punto è che la grande maggioranza
delle omelie pronunciate dai pulpiti o, più spesso, dagli amboni, sono perle di
rara bruttezza. Se ne rendeva perfettamente conto perfino un insigne principe
della chiesa come il cardinale Tomas Spidlik, convinto che “il motivo per cui
la chiesa ha posto il Credo dopo l’omelia è per invitarci a credere nonostante
ciò che abbiamo ascoltato”. La pensava così pure Yves Congar, che notava come
“in Francia, nonostante oltre trentamila prediche ogni domenica, c’è ancora
fede”. E’ sufficiente fare il giro di qualche parrocchia, la domenica mattina,
da nord a sud della penisola, per accorgersi dello stato desolante della predicazione.
Non è un problema nuovo, di oggi, visto che già Paolo VI,
nell’enciclica Ecclesiam suam promulgata un anno dopo
l’elezione al Soglio di Pietro, scriveva che “dobbiamo ritornare allo studio
non già dell’umana eloquenza, o della vana retorica, ma della genuina arte
della parola sacra. Dobbiamo cercare le leggi della sua semplicità, della sua
limpidezza, della sua forza e della sua autorità per vincere la naturale
imperizia nell’impiego di così alto e misterioso strumento spirituale, qual è
la parola”. E questo perché “la predicazione è il primo apostolato”.
Servirebbero preparazione e studio, invece oggi si tende a improvvisare,
ponendo sconfinata fiducia sulle proprie doti oratorie: “Quella
dell’improvvisazione è, forse, la piaga principale dell’omelia, la causa più
diffusa dei suoi fallimenti”, scrive Adriano Zanacchi, docente all’Università
per stranieri di Perugia, all’Università pontificia salesiana e alla Sapienza
nel libro “Salvare l’omelia” (Edizioni Dehoniane Bologna). C’è oggi la
tentazione, sottolinea, ad “abusare di un particolare significato del termine
‘omelia’ indicato dai dizionari”, e cioè “di parlare per immediata ispirazione
confidando indebitamente nello Spirito Santo come surrogato della dovuta
preparazione”. Un po’ come accade all’atteggiamento degli “studenti impreparati
che vanno ad accendere un cero davanti all’immagine di qualche santo nel giorno
dell’interrogazione”.
Non serve fare come il santo curato d’Ars, che passava le
notti in sacrestia meditando omelie efficaci attraverso le quali inculcare alle
duecento anime del povero villaggio francese i fondamenti del catechismo dopo
gli sconvolgimenti rivoluzionari e controrivoluzionari che avevano portato alla
chiusura di centinaia di parrocchie su tutto il territorio nazionale. A forza
di presentare le vite dei santi nella forma più semplice possibile, di parlare
di Inferno e Regno dei Cieli con parole comprensibili lontane dal dotto latinorum che
san Vianney poco e male padroneggiava, i suoi parrocchiani divennero tra i più
esperti conoscitori delle vicende bibliche, anche a decenni di distanza da
quelle severe e brevi lezioni mattutine. Certo, pur senza passare nottate
seduti al tavolo da studio, le Scritture del giorno sarebbe opportuno
conoscerle, così da non fare come quel misterioso vescovo – scrive Zanacchi –
“che nell’imminenza della celebrazione chiedeva a chi lo assisteva quali
fossero le letture del giorno”. La scarsa preparazione non è tipica solo delle
domeniche del tempo ordinario, magari estive, quelle cioè dove la partecipazione
dei fedeli è bassa e distratta e quindi il sacerdote può anche improvvisare
qualche parola sul momento. No, accade anche nelle Solennità più importanti,
compresa la Pasqua di Resurrezione, quando può capitare di sentire il sacerdote
infarcire un discorso di venticinque minuti con una serie di “dunque”, “ecco”,
“allora”, “cari fratelli e sorelle” e passare dalla constatazione che il
Cristo-è-risorto-alleluja a quanto lavorò il giovane Karol Wojtyla nella
Polonia comunista, e così pure Angelo Roncalli nei suoi difficili anni tra la
Bulgaria e la Turchia. Il trait d’union di tutto ciò? Il fatto che una
settimana dopo Pasqua ci sarebbe stata la duplice canonizzazione di Giovanni
Paolo II e Giovanni XXIII, spiegava il sacerdote in questione.
In effetti, “molte omelie improvvisate finiscono per
mancare, frequentemente, di un filo conduttore, per condurre alla
banalizzazione del discorso, alla sua superficialità e dispersività, alle frasi
fatte, alle parafrasi abborracciate delle letture appena sentite, alle
esortazioni astratte, ripetitive, all’assenza di agganci concreti e forti alla
vita dei fedeli e alla realtà in cui vivono tutti i giorni”, sottolinea ancora
Zanacchi. Del problema è ben consapevole il Papa regnante, Francesco, che
appena insediatosi in Vaticano ha rotto con la tradizione decidendo di tenere
ogni mattina, all’alba e nella cappella del residence dove ha scelto di
abitare, una messa con gruppi di invitati che possono sentire così dalla sua
voce l’omelia basata sulle letture del giorno. Parole che vengono poi riprese
dalla Radio Vaticana e dall’Osservatore Romano. Una cosa che mai era accaduta
prima. Ed è stato lui, Bergoglio, a tuonare più d’una volta contro la “brutta
predica”. Ad Assisi, incontrando il clero, le persone di vita consacrata e i
membri dei consigli pastorali, parlando del sacerdote si domandò “come può
predicare se prima non ha aperto il suo cuore, non ha ascoltato, nel silenzio,
la Parola di Dio? Via queste omelie interminabili, noiose, delle quali non si
capisce niente. Questo è per voi!”. Sempre Francesco, nell’esortazione
apostolica Evangelii Gaudium, summa programmatica del
pontificato, osservava che “la predicazione all’interno della liturgia richiede
una seria valutazione da parte dei pastori. Mi soffermerò particolarmente, e
persino con una certa meticolosità, sull’omelia e la sua preparazione, perché
molti sono i reclami in relazione a questo importante ministero e non possiamo
chiudere le orecchie”. Anche perché, il rischio è che qualche sacerdote, come
don Sergio Mercanzin, arrivi a proporre di rendere volontario l’ascolto
dell’omelia: “Si tenga alla fine della messa. Chi vuole resta”.
I vescovi italiani, già nell’immediato dopo Concilio,
mettevano nero su bianco le regole fondamentali per impostare un’omelia di successo.
Ai sacerdoti era richiesta “non la predica moraleggiante, non il fervorino
untuoso e vuoto, non il pezzo più o meno retorico d’occasione, né, tanto meno,
l’elucubrazione erudita, ma la vera omelia ex textu sacro, come si esprime il
Concilio”. Il tutto è rimasto lettera morta. Si va dai parroci che usano
l’ambone per commentare la politica quotidiana, con il date a Cesare quel che è
di Cesare e a Dio quel che è di Dio che diventa lo spunto per lanciare strali
contro la corruzione e i corrotti dei palazzi del potere, fino a quelli che
usano quei pochi minuti a disposizione per sfogarsi contro i malcapitati fedeli
andati in chiesa, imbracciando metaforicamente quei bastoni di cui tanto parla
Bergoglio quando biasima i preti che fanno dei confessionali una sorta di
stanza dove randellare il peccatore che, probabilmente, ci penserà due volte
prima di tornarci. Urgono soluzioni e dalle parti della congregazione per il
Culto divino e la disciplina dei sacramenti ci stanno lavorando. Prima idea,
resa nota a cavallo delle festività natalizie, pubblicare un “direttorio
omiletico” che ambisce a fornire a sacerdoti e seminaristi le coordinate
metodologiche e contenutistiche da metabolizzare nella fase di preparazione
dell’omelia. Il che non vuol dire recarsi all’ambone con il foglietto in mano e
leggere, magari in modo piatto e monotono, quanto si è scritto in precedenza o
si è scaricato un’ora prima da internet. Pratica, questa, a quanto pare sempre
più abituale tra i sacerdoti a ogni latitudine del globo.
Il ricettario perfetto non esiste, però qualche utile
indicazione la si può dare, ha di recente spiegato alla Radio Vaticana Sergio
Tapia-Velasco, docente alla facoltà di Comunicazione sociale presso la
Pontificia Università della Santa Croce e coordinatore del corso Ars
praedicandi. Bisogna, dice, “porsi le domande giuste per strutturare l’omelia.
Che cosa interessa veramente i fedeli? Che cosa dice veramente il testo? Che
cosa ha detto questa lettura al mio cuore? Come dice Papa Francesco, è
importante non rispondere a domande che nessuno si pone: l’inter-lectio ha
proprio lo scopo di interleggere, e capire che cosa dice il testo, che cosa
hanno bisogno di ascoltare i fedeli e cosa ha detto il testo a me stesso.
Altrimenti l’omelia risulta non autentica”. L’importante, insomma, “è di avere
una domanda di partenza e poi si può strutturare il discorso seguendo la
retorica classica, ma sempre attenti alle forme di comunicazione
contemporanea”.
Mai dimenticare, però, chiariva il Papa argentino, che
“l’omelia è la pietra di paragone per valutare la vicinanza e la capacità
d’incontro di un pastore con il suo popolo. Di fatto – aggiungeva – sappiamo
che i fedeli le danno molta importanza; ed essi, come gli stessi ministri
ordinati, molte volte soffrono, gli uni ad ascoltare e gli altri a predicare.
E’ triste che sia così. L’omelia può essere realmente un’intensa e felice
esperienza dello Spirito, un confortante incontro con la Parola, una fonte
costante di rinnovamento e di crescita”. Niente show, “l’omelia non può essere uno
spettacolo di intrattenimento, non risponde alla logica delle risorse
mediatiche, ma deve dare fervore e significato alla celebrazione”, scriveva
ancora il Pontefice nell’Evangelii Gaudium: “E’ un genere
peculiare, dal momento che si tratta di una predicazione dentro la cornice di
una celebrazione liturgica”. Proprio per questo, “deve essere breve ed evitare
di sembrare una conferenza o una lezione. Il predicatore può essere capace di
tenere vivo l’interesse della gente per un’ora, ma così la sua parola diventa
più importante della celebrazione della fede. Se l’omelia si prolunga troppo,
danneggia due caratteristiche della celebrazione liturgica: l’armonia tra le
sue parti e il suo ritmo”. La Conferenza episcopale italiana s’era messa
all’opera già nel 2012, con l’iniziativa “ProgettOmelia”, un programma
che si ripropone di insegnare l’arte della proclamazione liturgica.
Venticinque sacerdoti che si sottoporranno a lezioni studiate ad hoc e che,
soprattutto, accetteranno le valutazioni critiche degli osservatori. Scriveva
il vescovo di Alghero-Bosa, mons. Mauro Maria Morfino, che “il malessere cresce
quando l’assemblea è costretta a subire pesanti debolezze. La non logicità
obiettiva del discorso, la povertà dei contenuti reali, la deriva moralistica,
la scarsità della qualità religiosa influiscono in modo determinante”.
Qualche anno fa, della questione s’era interessato anche
il vicario della diocesi di Verona, don Mario Masina, autore di un denso
volumetto intitolato “Il manuale del predicatore”, ossia “tutto quello che un
prete dovrebbe sapere per non annoiare i suoi fedeli”. Già l’introduzione
spiega bene la portata drammatica del problema: “Domenica. In ogni chiesa,
grande o piccola, bella o brutta, di città o di campagna, terminata la
proclamazione del vangelo, la gente si siede e il prete comincia a parlare. E’
il momento dell’omelia o della predica, per dirla nel linguaggio corrente.
Nessuno si meraviglia, nessuno protesta, nessuno si ribella. A questo punto
della Messa i cristiani si aspettano alcune cose. In primo luogo di non
addormentarsi perché sottoposti a un lungo, confuso e noioso monologo; in
secondo luogo di non doversi sorbire l’ennesimo sfogo emotivo di uno che sembra
ce l’abbia col mondo intero; infine, di portarsi a casa qualcosa che arricchisca
spiritualmente la propria vita cristiana. E vi pare poco?”. Qualcuno,
aggiungeva don Masina, “rimane convinto che basti aver frequentato i corsi di
esegesi dell’antico e del nuovo testamento, con votazione di esame almeno
superiore al venti, per commentare bene le letture domenicali. Qualche altro
con meno dimestichezza di ermeneutica e dogmatica, fa affidamento
all’imposizione delle mani del giorno della propria ordinazione che, ex opere
operato, ha fatto di lui un buon predicatore. Altri, arrivati di corsa
all’ultimo momento, si affidano allo Spirito, non avendo avuto il tempo di
leggersi in anticipo nemmeno il vangelo. Altri vengono presi dal panico, perché
parlare davanti all’assemblea non è mai facile. Alcuni affrontano serenamente
il compito perché preparato con cura da tempo”.
Un contributo alla causa, ça va sans dire, lo
dovrebbero dare anche i fedeli, i cosiddetti praticanti, coloro cioè che
partecipano in modo più o meno attento alla santa messa della domenica e delle
altre feste di precetto. “Spesso manca in loro un’adeguata sensibilità
liturgica, per cui essi sono portati a ignorare il ruolo che nella celebrazione
assume l’omelia, quasi che il suo ascolto debba essere una sorta di penitenza,
una chiamata al sacrificio, anche se purtroppo, qualche volta, lo è”, nota
Adriano Zanacchi.
Forse, con una disposizione d’animo migliore e una
volontà di non essere meri soggetti supini che distrattamente guardano l’ambone
interiorizzando la metà del discorso del sacerdote, si riuscirebbe a
trasformare il fedele e distratto ascoltatore in un emulo di quei “più duri di
testa, i più ignoranti” che ebbero la fortuna di udire le parole che il
cardinale Federigo Borromeo disse all’Innominato, nel capitolo XXIV dei “Promessi
sposi” manzoniani: “A vederlo lì davanti all’altare un signore di quella
sorte, come un curato […], a pensare a un uomo tanto sapiente, che, a quel che
dicono, ha letto tutti i libri che ci sono; a pensare che sappia adattarsi a
dir quelle cose in maniera che tutti intendano […]. Anche i più duri di testa,
i più ignoranti, saprebbero ripeter le parole che diceva: sì, non ne
ripescherebbero una: ma il sentimento lo hanno qui”.