Epifania
vuol dire «apparizione» e, in origine, questa festa aveva, presso gli
Orientali, lo stesso significato di quella del Natale a Roma. Era la festa del
Verbo eterno che si rivelava, rivestito di carne, all’umanità. Si veneravano,
in particolare, tre circostanze differenti di questa rivelazione storica: l’adorazione
dei Magi a Beth-lechem, la conversione dell’acqua in vino alle nozze di Cana ed
il battesimo di Gesù nel Giordano.
Presso gli Orientali, la
scena del Giordano, quando lo Spirito Santo, sotto la forma di una colomba,
copriva della sua ombra il Salvatore che l’Eterno Padre, dall’alto del cielo,
proclamò suo Figlio diletto, è la più saliente. Dall’epoca di san Giovanni, la
gnosi eretica attribuiva a questa scena un’importanza capitale per la sua
cristologia, sostenendo che soltanto allora la divinità si era unita all’umanità
di Gesù, per separarsene nuovamente al momento della sua crocifissione. Questo
battesimo era dunque la vera nascita divina di Gesù e, per questa ragione, gli
gnostici la celebravano con ogni pompa possibile. Contro questa dottrina, san
Giovanni scrisse la sua prima lettera: hic (Gesù Cristo) venit per aquam et sanguinem, non in aqua solum, sed in aqua et sanguine (1 Gv 5, 6), vale
a dire Gesù ha vinto il mondo in qualità di Salvatore e di Figlio di Dio, non
soltanto nelle acque del Giordano, ma fin dalla sua incarnazione, in cui prese
il corpo e sangue umani. È probabile che i cattolici, sull’esempio dell’Evangelista,
abbiano voluto così, dalla prim’ora, opporre all’epifania gnostica del
battesimo, quella della nascita temporale a Beth-lechem, in modo che questa
festa avesse un senso molto più complesso, volendone ricomprendere anche le
date evangeliche del battesimo e delle nozze di Cana, relegandole tuttavia in
secondo piano, come altrettante rivelazioni solenni ed autentiche della
divinità di Gesù. A Roma, in un ambiente più molto positivo ed estraneo all’esaltazione
mistica degli Orientali, la festa storica della Natività di Gesù acquistò
tuttavia una tale popolarità, che ancor’oggi è dominante in tutta la liturgia
di questo periodo. Si ebbe, è vero, qualche incertezza quanto alla data ed uno
sdoppiamento ne seguì. La solennità del 6 gennaio fu tardata, sulle rive del
Tevere, di due settimane, in favore esclusivamente del Natale, ma l’antica
teofania rimase al suo posto, sebbene impoverita nella sua concezione, poiché
il presepio di Beth-lechem, come per attrazione, diede maggior risalto all’adorazione
dei Magi, a spese del significato originario del battesimo nel Giordano.
È probabile che, nel III
sec., Roma seguisse ancora fedelmente la tradizione orientale primitiva,
amministrando per questa ragione il battesimo solenne il giorno della Teofania.
In effetti, Ippolito fece un sermone ai neofiti εἰς τὰ ἅγια Θεοφάνεια, «nella santa Teofania»
(Ippolito Romano, Sermo in
sancta Theophania, in PG 10, col. 851B-862A), precisamente come nel più
antico calendario copto, in cui la festa di questo giorno è chiamata dies baptismi sanctificati. All’epoca in cui viveva san Gregorio di
Nazianzio, i Greci l’intitolarono come «solennità delle sante luci» – In Sancta Lumina
– intendendo che il battesimo è l’illuminazione soprannaturale dell’anima (Cfr.
San Gregorio Nazianzeno, Oratio in Sancta Lumina, Oratio XXXIX, in PG 36, col. 335A-360A, ora in Id., Discorso 39 Sulle Luci, in Id., Omelie sulla Natività (Discorsi
38-40)2, introduzione, trad. e note di Claudio Moreschini (a cura di), Roma 1998, pp. 63-86. Il
discorso in questione fu pronunciato nell’Epifania del 381 d.C.).
Il terzo ricordo annesso
alla solennità di oggi è il primo miracolo compiuto dal Salvatore alle nozze di
Cana. Esso è annoverato tra le teofanie cristologiche, giacché i prodigi narrati
nei Vangeli forniscono la prova esteriore della divinità di Gesù. San Paolino
di Nola (San Paolino da Nola, Poemata, Poema XXVII,
De S. Felice Natal. Carmen IX, vv. 45-50, in PL 61
(ed. 1847), col. 649B, ora in Id.,
I Carmi, con introduzione, traduzione, note e indici, di Andrea Ruggiero (a cura di), Roma 1990,
p. 380) e san Massimo di Torino (San Massimo
di Torino, Homilia
XXIII, De Epiphania Domini VII, in PL 57, col.
271B-276B, ora in Id., Sermoni
101 e 102, Seguito sul medesimo giorno [della santa Epifania] e Seguito
sullo stesso argomento, in Id.,
Sermoni, trad. di Gabriele
Banterle (a cura di) e con introduzione e note di Sara Petri (a cura di), Roma 1991, pp.
395-399, nonchè in Id., Sermoni
liturgici, con introduzione, traduzione e note di Milena Mariani Puerari (a cura di), pp. 345-351) rivelano il
triplice aspetto della festa dell’Epifania, in termini completamente analoghi a
quelli che adopera la Chiesa romana nella splendida antifona dell’ufficio dell’aurora.
Hodie cælesti Sponso
juncta est ecclesia, – nozze mistiche
simboleggiate da quelle di Cana – quoniam in Jordane lavit Christus ejus crimina - battesimo-lavacro dei
peccati - currunt
cum muneribus magi ad regales nuptias - adorazione del divino Neonato - et ex aqua facto vino
lætantur convivæ – miracolo di Cana.
Quello che sorprende è che questi elementi
primitivi della solennità orientale della Teofania si ritrovano, compenetrati
più o meno tra loro a Roma nella stessa festa del 25 dicembre: ciò è così vero
che, come abbiamo ricordato alla messa della Notte Santa, il papa Liberio, nel
discorso che pronunciò in San Pietro, il giorno di Natale, quando Marcellina, sorella
di sant’Ambrogio, ricevette dalle sue mani il velo delle vergini, le disse, tra
l’altro: «O figlia mia, tu hai desiderato un’eccellente unione. Vedi quale
folla di popolo è accorsa al Natale del tuo Sposo, e nessuno se ne torna
senza essere saziato. È Lui, in effetti, che, invitato alle nozze, cambiò l’acqua
in vino, e, con cinque pani e due pesci, nutrì nel deserto quattromila uomini».
San Leone Magno ha dovuto predicare nella basilica vaticana i suoi
otto sermoni in Epiphaniae
solemnitate, che costituiscono
la prima testimonianza esplicita della celebrazione dell’Epifania a Roma (Pierre Jounel, Le
Culte des Saints dans les Basiliques du Latran et du Vatican au douzième siècle,
École Française de Rome, Palais Farnèse, 1977, p. 212).
La scelta della basilica di San Pietro per la
Stazione s’ispira allo stesso concetto del giorno di Natale. A Roma, le grandi
solennità, salvo quelle del battesimo pasquale, troppo prolungate, si celebrano
presso il Pastor Ecclesiæ, la cui la basilica è l’ovile del gregge
romano. Fino al XIII sec., gli Ordines Romani prescrivevano che, dopo la
messa, il papa, cinto della tiara, ritornasse a cavallo al Laterano (Cfr. Ordo Romanus XI, § 27, in PL 78, col. 1036A).
Più tardi, però, i Pontefici preferirono
rimanere al Vaticano sino ai Secondi Vespri, ai quali assistevano con il
piviale scarlatto e la mitria dorata (Cfr. Ordo
Romanus XII, cap. IV. Quod dominus papa ire
debeat in Epiphania ad Sactum Petrum, § 9, ivi, 1068A; Ordo Romanus XIV, cap. LXXVII. In Epiphania, ivi, col. 1195B). L’uso che voleva che
il papa stesso celebrasse oggi la messa stazionale, ci è attestata sino alla
fine del XIV sec. nell’Ordo del
vescovo Pietro Amelio di Senigallia, che fa un’eccezione soltanto per il caso
in cui un’infermità del Pontefice, o il rigore del freddo, glielo impedivano («Hanc etiam Missam antistites Urbis celebrare consueverunt, et de
communi cursu semper faciunt, nisi infirmitate aut nimio frigore detenti»: Ordo Romanus XV, cap. XVIII. De Epiphania Domini rubrica, ivi, 1282A).
Essendo l’Epifania l’ultima
festa del Temporale prima del ciclo pasquale, il Pontificale Romano (Pars III. De publicatione festorum mobilium in Epiphania Domini) fa pubblicare solennemente, in questo giorno di festa, nelle chiese
cattedtali, la data di Pasqua e delle principali feste mobili dell’anno. Questa
pubblicazione, secondo gli usi locali, può ugualmente farsi nelle chiese
principali e nelle chiese parrocchiali.
Questa
tradizione risale ai primi tempi della Chiesa. Il Patriarca d’Alessandria, in
cui si trovavano i più abili astronomi della cristianità, aveva il compito d’inviare
la data della solennità pasquale agli altri Patriarchi orientali ed al Sovrano
Pontefice, il quale ne informava i metropoliti d’Occidente. L’uso ci è
attestato almeno da san Dionisio d’Alessandria, detto il Grande, il quale nel
III sec., scriveva, con cadenza annuale, lettere in cui annunciava la data
della Pasqua (Cfr.
Eusebio di Cesarea, Ecclesiasticæ
Historiæ, lib. VII, cap. 20, in PG 20, col. 681B-682B, ora Id., Storia ecclesiastica, trad.
it. e note di Franzo Migliore e Giovanni Lo Castro (a cura di), Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea,
Libri VI-X, vol. II, Roma 20052,
p. 110).
Il Concilio
di Nicea formalizzò quest’usanza. Benché non sia fatta menzione della
fissazione della data di Pasqua nei canoni del Concilio niceno che ci sono
stati conservati, si sa che la questione fu dibattuta e definita dal concilio
grazie a tre testi: una lettera dell’imperatore Costantino (Costantino, Epistola Πεῖραν
λαβὼν (Cum ex prospero), giugno 325, in Eusebio di Cesarea, De
vita Beatissimi Imperatoris Constantini libri quatuor, lib. III, capp. 17-20,
in PG 20, col. 1073B-1080A, ora in Id.,
Vita di Costantino, con introduzione, trad. e note di Laura Franco (a cura di), Milano 2009,
pp. 266-273; Socrate Scolastico, Historia Ecclesiastica,
lib. I, cap. 9, in PG 67, col. 89A-94A; Teodoreto
di Cirro, Ecclesiasticæ Historiæ libri quinque, lib. 1, cap. 9,
in PG 82, 931C-938A, ora in Id., Storia
ecclesiastica, con introduzione, traduzione e note di Antonino Gallico (a cura di), Roma 2000,
pp. 93-97; Gelasio di Cizico, Actorum Concilii Nicæni Commentarius, lib. 2, cap. 36,
in PG 85, col.1139B-1340B), un lettera
sinodale per la chiesa di Alessandria (Il testo ci è riportato, in
parte, dallo storico Socrate (Socrate
Scolastico, Historia Ecclesiastica, lib. I, cap.
9, in PG 67, col. 77B-84A): «Nuntiamus præterea vobis de
concordia sanctissimi Paschæ, hoc etiam negotium, precibus vestris
adjuvantibus, feliciter confectum fuisse; cunctosque qui in Oriente sunt
fratres, qui antea cum Judæis Pascha celebrarunt, cum Romanis in posterum, et
nobiscum, et cum omnibus qui ab ultima antiquitate nobiscum Pascha peregerunt,
concorditer esse celebraturos»: ibidem, col. 81B-84A) ed una lettera di sant’Atanasio scritta nel 369 ai
vescovi dell’Africa («Illa enim ob Arianam hæresin, et ob Paschatis
solemnitatem convocata fuit; quia Syri, Cilices et qui in Mesopotamia degunt, a
nobis dissentiebant, et eodem quo Judæi tempore Pascha celebrabant»: Sant’Atanasio d’Alessandria, Epistola
Episcoporum Ægypti et Libyæ Nonaginta. Contra Arianos, ad honoratissimos in
Africa Episcopos, § 2, in PG 26, 1031C-1032C).
Nel V sec., forse nel 437, Cirillo d’Alessandria avrebbe scritto un’epistola
pasquale nella quale indicava che «il concilio ecumenico votò all’unanimità che
la chiesa di Alessandria, a causa dei suoi illustri astronomi, dovrebbe
comunicare ogni anno alla Chiesa di Roma la data di Pasqua, e Roma la comunicherebbe
alle altre Chiese» («... sanctorum totius orbis
synodi consensione decretum est ut, quoniam apud Alexandriam talis esset
reperta Ecclesia, quæ hujus scientiæ perfectione clareret, quota Kalendarum vel
Iduum, et quota luna Pascha rite debeat celebrari, per singulos annos Romanæ
Ecclesiæ litteris intimaret: unde apostolica auctoritate universalis Ecclesia
per totum orbem difinitum die Paschæ diem sine ulla disceptatione cognosceret»: Pseudo Cirillo, Epistola LXXXVII,
§ 2, in PG 77, col. 385B). Cfr. Sant’Ambrogio,
Epistola XXIII Ad dilectissimi episcopis per Æmiliam
costituitis,
§ 8, in PL 16 (ed. 1845), col. 1029A; (ed. 1880), col. 1072B, in cui il santo
vescovo di Milano detta le sue direttive per i vescovi delle aree geografiche
intorno a Milano; San Leone Magno,
Epistola CXXI, Ad Marcianum Augustum, De Paschate, in PL 54, col.
1055A-1058A, in cui il papa, in una lettera all’imperatore Marciano, risalente
al 15 giugno 453, parla della scienza degli alessandrini e della diffusione del
computo pasquale. Pascassino di Lilibeo, in una lettera a Leone Magno del 444,
ricorda come Cirillo abbia scritto sempre a Leone comunicandogli la data di
Pasqua: Pascassino di Lilibeo, Epistola Ad Leonem Papam, indicata come Epistola III, ivi, col.
606A-610A. Cfr. San Cirillo d’Alessandria,
Fragmentum Epistola Ad S. Leonem, ivi, col.
601A-606A).
Tuttavia,
non è certo che questo passo si riferisca al primo concilio di Nicea.
Molti Padri
della Chiesa dei primi secoli parlano di questo annuncio della data di Pasqua
all’epoca della festa dell’Epifania. Il IV concilio di Orléans del 541 e quello
di Auxerre del 578 ne hanno esteso l’uso in Gallia («Placuit itaque Deo propitio, ut sanctum pascha secundum laterculum Victori
ab omnibus sacerdotibus uno tempore celebretur; quæ festivitas annis singulis
epyfaniorum die in ecclesia populis nuntietur»: IV Concilio
d’Orléans, Canones, can. 1, a. 541, in Frederick Maasen (a cura di), Concilia
Ævi Merovingici (511-695), in Monumenta Germ. Hist., Legum
sectio III, t. I, Hannoveræ 1883, p. 87; «Ut omnes presbyteri ante epifania missos suos dirigant, qui eis de
principio quadragensime nuncient; et ipsa epyfania ad populum indicatur»: Concilio d’Auxerre, sotto Aunario, Canones,
can. 2, a. 578 circa, ivi, p. 179). Ben rapidamente,
i vescovi presero l’abitudine di pubblicare ogni anno, il 6 gennaio, un’epistola
festivalis, lettera pastorale nella quale erano annunciate ai fedeli le
date di Pasqua e delle feste mobili dell’anno in corso (Cfr. Sant’Atanasio di Alessandria, Lettere
festali, e Anonimo, Indice
delle lettere festali, trad., introduzione e note di Alberto Camplani (a cura di), Milano
2003, passim).
Lo rito
romano possiede, per questa pubblicazione, una formula, il c.d. “Noveritis”, assai sviluppata, che si canta
all’Epifania: alla proclamazione della data di Pasqua sono aggiunte anche
quelle della Settuagesima, del mercoledì delle Ceneri, del sinodo diocesano,
dell’Ascensione, della Pentecoste e della prima domenica dell’Avvento. Il recitativo
romano utilizza lo stesso tono dell’Exultet della Vigilia notturna pasquale, ciò conferisce un saggio della
gioia pasquale all’annuncio della data di Pasqua.
Secondo
le regole liturgiche, nel rito romano, il “Noveritis” è
cantato nella festa dell’Epifania nelle cattedrali (e per uso nelle chiese
parrocchiali), dopo il vangelo della messa più solenne del giorno. La
proclamazione ne è fatta dall’Arcidiacono o, secondo l’uso dei luoghi, dal
canonico precantore o da un altro canonico. Rivestito della cappa bianchi,
quello che è designato per questo ufficio si reca all’ambone o al leggio del
Vangelo, ornato di una stoffa di seta bianca.
Matthias Stomer, Adorazione dei Magi, XVII sec., Getty Museum, Malibu |
Szymon Czechowicz, Adorazione dei Magi, XVIII sec., Lviv Art Gallery, Lviv |
Georges Lallemand, Adorazione dei Magi, 1624 circa, Hermitage, san Pietroburgo |
Carl Clasen, Adorazione dei Magi, 1885, Cappella latina della Mangiatoia, Basilica della Natività, Betlemme |
Edward Burne Jones con William Morris e John Henry Dearle, I magi in rosso ovvero Adorazione dei Magi, 1888-94, Manchester Metropolitan University, Manchester |
Joseph Christian Leyendecker, I tre Re, 1900 |
Henry Siddons Mowbray, Adorazione dei Magi, 1915 |
Ulderico Pinfildi, I Magi, XXI sec., San Biagio dei Librai, Napoli |
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