Torniamo
sul tema Eucaristia e divorzio in vista della prossima assemblea sinodale che
si svolgerà nell’ottobre 2015.
Nella
memoria liturgica dei SS. Mario e compagni martiri e di S. Canuto IV, re e
martire, rilancio quest’articolo, pubblicato anche da sito Riscossa cristiana.
Christian Albrecht von Benzon, Martirio di Canuto IV nella chiesa di S. Albano nel 1086, 1843, Odense Bys Museer, Odense |
Chiarimento
necessario in attesa del Sinodo sulla Famiglia del 2015
di
Pierfrancesco Nardini
Se
si può comprendere un ateo che critica la posizione della Chiesa Cattolica sul
divorzio e sul divieto di accedere all’Eucarestia per i divorziati sposati con
rito civile, non si capisce assolutamente la critica sollevata da molti che si
dicono cattolici.
Partiamo
dal presupposto che se uno dice di essere cattolico sa cos’è la Fede cattolica,
conosce cioè i dettami alla base della stessa ed i principi a cui la Chiesa
deve rifarsi. Conosce quindi il Catechismo. Conosce il Magistero. Almeno
conosce i tratti fondamentali di quel che sostiene di credere.
Dato
questo presupposto, riassumiamo in breve (per quanto possibile) quel che da
sempre è la legge sul matrimonio e sull’Eucarestia.
Fondamentale
è, in primis, ricordare, e purtroppo mi rendo conto ce ne sia spesso il
bisogno, che «il matrimonio non fu istituito né restaurato dagli uomini, ma da
Dio; non dagli uomini ma da Dio, autore della natura, e da Gesù Cristo,
Redentore della medesima natura, fu presidiato di leggi e confermato e
nobilitato. Tali leggi perciò non possono andar soggette ad alcun giudizio
umano e ad alcuna contraria convenzione, nemmeno degli stessi coniugi» (Pio XI,
Casti connubii, 31.12.1930).
E
tra quelle leggi ricordate da Pio XI ce ne sono alcune in cui Cristo certifica
l’indissolubilità del matrimonio e condanna senza mezzi termini divorzio e
seconde nozze: «Fu anche detto: - Chiunque rimanda la propria moglie, le dia il
libello del divorzio. - Io invece dico a voi: - Chiunque manda via la propria
moglie, salvo il caso di fornicazione, la rende adultera, e chiunque sposa la
donna mandata via, commette adulterio» (Mt 5, 31-32); «Allora i Farisei
andarono a trovarlo, e per tentarlo gli domandarono: “È lecito mandar via la propria
moglie per qualunque motivo?”. Egli rispose: “Non avete letto che il Creatore
da principio li creò maschio e femmina e disse: - Per questo lascerà l’uomo suo
padre e sua madre e si unirà con sua moglie e i due saranno una sola carne?
Perciò essi non sono più due, ma una sola carne. Non divida dunque l’uomo quello
che Dio ha congiunto”. “Perché dunque,” gli chiesero “Mosè prescrisse di darle
il libello del ripudio e di mandarla via?”. Rispose loro. “Per la durezza del
vostro cuore Mosè vi permise di ripudiare le vostre mogli; ma da principio non
era così. Io poi vi dico che chiunque mandi via sua moglie, salvo il caso di
fornicazione, e ne sposa un’altra, commette adulterio, e chi s’ammoglia con la
donna ripudiata, diventa adultero» (Mt 19, 3-9); cfr. anche Mc 10, 2-12 e Lc
16, 18.
Impossibile
dunque continuare a cercare un modo per sostenere che non è possibile riportare
a Gesù la condanna del divorzio e delle seconde nozze e che fu la Chiesa a
inventare tutto, così sostenendo anche che la Chiesa ha manipolato a proprio
piacimento il “vero” insegnamento di Cristo.
Gesù
Cristo condanna con chiarezza e forza «il divorzio, come causa di peccati e di
dissoluzione. Egli condanna ogni degradazione dei sensi e riconduce il
matrimonio alla sua nobiltà; ridona alla donna la sua dignità, negando con
forza che ella sia oggetto di piacere o termine di ammirazioni sensuali o
sentimentali … Toglie ogni pretesto anche legale alla corruzione e alla
degradazione della donna e abolisce la legge del ripudio; vuole che la donna
sia regina e madre nella casa e non sia come un oggetto di divertimento che si
desidera e si abbandona come si vuole»[1].
Nella
Sua infinita sapienza, si rifà alle parole della Genesi (2, 24) che determina
la natura del matrimonio e chiarisce che «non si trattava di un’unione
capricciosa o accidentale di due creature, ma di un’unione intima, così piena
da formare come una sola carne, benedetta da Dio per attuare la riproduzione e
la conservazione del genere umano. L’uomo, dunque, non poteva separare ciò che
Dio ha congiunto con una legge di provvidenza e di amore che è sacra»[2].
Il
Magistero della Chiesa Cattolica, dunque, non può che essersi attenuto a quel
che il suo Fondatore ha insegnato e ha ribadito con chiarezza lungo il corso
dei secoli[3].
Da
tutto quanto riportato appare chiaro che il divorzio è da considerare una grave
offesa al sacramento del matrimonio[4], ma ancor prima alle parole stesse di
N.S. Gesù Cristo che ordinò «non divida dunque l’uomo quello che Dio ha
congiunto».
Ulteriore
e indiscutibile conseguenza di questi dettami di Cristo, almeno per uno che si
dice cattolico, è che la grave offesa procurata al sacramento del matrimonio
con il divorzio e le seconde nozze “rate e consumate” pone chi l’ha fatta nella
condizione di peccato mortale.
Il
Catechismo di San Pio X ci insegna che «il peccato mortale è una disubbidienza
alla legge di Dio in cosa grave, fatta con piena avvertenza e deliberato
consenso» (can. 143) e che la grazia di Dio perduta per il peccato mortale «si
riacquista con una buona confessione sacramentale o col dolore perfetto che libera
dai peccati, sebbene resti l’obbligo di confessarli» (can. 146).
Sempre
il Catechismo di San Pio X ci insegna che «essere in grazia di Dio significa
avere la coscienza monda da ogni peccato mortale» (can. 336).
Tutta
questa premessa è utile a riassumere alcuni punti fondamentali della dottrina
cattolica, che, ribadisco, chi si dice cattolico dovrebbe conoscere; punti
necessari anche per poter capire perché una persona che ha divorziato e poi si
è sposata con rito civile con un altro/a partner non è in grazia di Dio.
Non
è palese che, se Gesù ha condannato il divorzio, ammonendo l’uomo di non
dividere ciò che Dio ha unito, se Gesù ha chiamato adultero/a chi, ripudiati la
moglie o il marito, si congiunge con altra persona, chi contravviene ai Suoi
insegnamenti ed alle Sue prescrizioni in modo grave cade nella condizione di
peccato mortale? Possibile ci sia chi si dice cattolico e gli sembra strano
quanto ricordato?
Data
però la certezza di quanto sopra riportato, arriviamo alla centro del nostro
discorso.
Alla
base del dubbio sul divieto di accedere all’Eucarestia per i divorziati sposati
civilmente non c’è tanto la non conoscenza approfondita della dottrina sul
matrimonio, quanto (peggio) la mancata conoscenza di cosa sia l’Eucarestia. O,
forse, in alcuni casi, il non volerlo vedere. Altrimenti non si spiega.
Se,
infatti, uno sa cos’è l’Eucarestia, Chi c’è nell’Eucarestia, come fa a
sostenere che chi è in peccato mortale possa avvicinarsi a questo Sacramento?
Misteri
della vita. O, forse, semplicemente effetti della crisi della e nella Chiesa.
È
necessario un piccolo sunto.
Sempre
riportandosi al Catechismo di San Pio X, studiamo che l’Eucaristia «è il
sacramento che, sotto le apparenze del pane e del vino, contiene realmente
Corpo, Sangue, Anima e Divinità del Nostro Signor Gesù Cristo per nutrimento
delle anime» (can. 316) e che «nell’Eucaristia c’è lo stesso Gesù Cristo che è
in cielo, e che nacque in terra da Maria Vergine» (can. 322)[5]. Inoltre
sappiamo che «sotto le apparenze del pane c’è tutto Gesù Cristo, in Corpo,
Sangue, Anima e Divinità; e così sotto quelle del vino» (can. 331).
Anche
questa è una verità indiscutibile e costantemente ricordata dal Magistero della
Chiesa[6].
Per
poter fare una buona Comunione, il cattolico sa che deve essere in grazia di
Dio e che deve essere consapevole di Chi si va a ricevere[7]. Quindi che non
deve essere in peccato mortale (anche se comunque sarebbe meglio evitare anche
di avere peccati veniali) e avere certezza che ci si sta accostando a N.S. Gesù
Cristo[8].
Non
si può aver il minimo dubbio che chi si trova nella condizione che Cristo ha
avvertito di evitare, cioè aver sciolto il matrimonio ed essersi unito ad altra
persona, è in stato di peccato mortale costante, esattamente come chi convive more
uxorio, ma anche di chi intrattiene rapporti sessuali con una persona sposata
con altri. L’unione successiva al divorzio, pur avendola certificata di fronte
ad un’autorità civile, non esiste per Dio.
Chi
è in questa condizione inoltre contravviene anche all’altro elemento necessario
per la validità e utilità della Confessione: il dolore dei peccati ed il
proponimento di non commetterne più[9]. Non può essere assolto chi non abbia
questi requisiti ed allora l’unico modo che ha il divorziato sposato civilmente
di potervi accedere è quello di uscire dalla situazione di grave peccato e
viverla in continenza e secondo le regole di Dio (anche se, per motivi gravi,
come l’educazione dei figli, dovesse continuare a vivere con il partner).
A
quanto sembra, si chiede invece da parte di molti che si ammettano alla
Comunione i divorziati sposati civilmente solo con un “percorso di penitenza”
che servirebbe quasi solo a “bonificare” il secondo matrimonio.
Alla
luce di quanto appena ricordato si comprende facilmente l’impossibilità di
accogliere questa ipotesi: è in netto contrasto con il dettato divino, perché
permetterebbe a chi è in peccato grave (il periodo di “penitenza” non sarebbe
certo il sacramento della Confessione) e, soprattutto, continua ad esserlo (non
si dice che si debba essere pentiti, né che si debba lasciare la condizione di
peccato, anzi, il contrario, dopo il periodo di “penitenza” si potrà
tranquillamente continuare a vivere come se nulla fosse stato) di avvicinarsi comunque
a Cristo.
In
conclusione, alla luce della dottrina pervenutaci da Gesù, come si può
continuare a cercare un modo per avvicinare i divorziati sposati civilmente all’Eucarestia?
Come si può voler accostare chi è in peccato mortale a Cristo, senza con ciò
stravolgere e manipolare l’insegnamento del nostro Signore?
Sostenere
questi tentativi, come si diceva, vuol dire ignorare, o peggio non voler più
vedere, a Chi si vuole far questo e disinteressarsi dell’aspetto divino delle
istituzioni in oggetto, nonché del sacrilegio a cui si va incontro.
Portando
così se stessi, e chi in buona fede segue queste tesi, alla morte dell’anima:
«perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve
la propria condanna»[10].
Iniziamo
invece a dire la verità, senza la paura di dar fastidio al mondo, ricordandoci
che si è nel mondo, ma non si è del mondo. Iniziamo a fare la vera carità che è
dire la verità a chi ne è lontano. Iniziamo a ricordare che l’unico modo che
abbiamo per accostarci degnamente a Cristo, e quindi all’Eucarestia, è quello
di accedere prima al sacramento della Confessione, «sacramento istituito da
Gesù Cristo per rimettere i peccati commessi dopo il Battesimo»[11]. Che questo
prima ancora che un obbligo è un nostro interesse, perché ci permette di
salvare la nostra anima.
E
ritorniamo a spiegare che, se la Chiesa non ammette alla Comunione eucaristica
chi ha divorziato e si è unito civilmente ad altra persona, è perché «sono essi
a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione
di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la
Chiesa, significata e attuata dall’Eucaristia»[12] ed anche che «c’è un altro
peculiare motivo pastorale: se si ammettessero queste persone all’Eucaristia, i
fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della
Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio»[13].
Così
come si deve tornare a spiegare che è la riconciliazione nel sacramento della
Confessione l’unica strada possibile per il riavvicinamento all’Eucaristia e
che questa «può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il
segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una
forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del
matrimonio»[14] e quindi la continenza.
Solo
così, con chiarezza e fermezza (che non vogliono assolutamente significare
intolleranza!), si potrà imboccare la strada di un ritorno ad un credo
totalmente e realmente cattolico.
In
primis, è questo è il problema più serio, a cominciare da molti esponenti del
Clero.
Note:
[1]
Don Dolindo Ruotolo, Commento ai quattro Vangeli, Vangelo di Matteo,
Casa Mariana Editrice.
[2]
Ibid.
[3]
«…non è lecito alla donna andare sposa a un altro. E qualora si sia sposata, e
quand’anche ne sia seguita l’unione carnale, deve da lui separarsi, e essere
costretta dal rigore ecclesiastico a tornare dal primo, anche se altri pensano
diversamente e in altro modo talvolta sia stato giudicato anche da alcuni
nostri predecessori», Alessandro III, Lettera (frammenti) Verum post all’arcivescovo
di Salerno, data incerta; «Certamente quello che il Signore dice nel Vangelo,
non è lecito all’uomo ripudiare sua moglie, se non in caso di fornicazione [Mt
5,32; 19,9], è da intendersi, secondo l’interpretazione della santa Parola,
riferito a coloro il cui matrimonio è stato consumato con l’unione carnale,
senza la quale il matrimonio non può essere consumato, e dunque, se la suddetta
donna non è stata conosciuta da suo marito, le è lecito passare alla vita
religiosa», Lettera Ex publico instrumento al vescovo di Brescia, data
incerta, Concilio Lateranense III; «Se qualcuno dirà che il matrimonio non è in
senso vero e proprio uno dei sette sacramenti della legge evangelica, istituito
da Cristo, ma che è stato inventato dagli uomini nella chiesa, e non conferisce
la grazia, sia anatema”» e «Se qualcuno dirà che la chiesa sbaglia quando ha
insegnato e insegna, secondo la dottrina del Vangelo e degli apostoli, che il
vincolo del matrimonio non può essere sciolto per l’adulterio di uno dei
coniugi; che nessuno dei due, nemmeno l’innocente, che non ha dato motivo all’adulterio,
può contrarre un altro matrimonio, vivente l’altro coniuge; che commette
adulterio il marito che, cacciata l’adultera, ne sposi un’altra, e la moglie
che, cacciato l’adultero, ne sposi un altro, sia anatema», Concilio di Trento,
Sez. XXIV, Dottrina e canoni sul matrimonio, Cann. 1 e 7, 11 novembre 1563; «Se
poi la chiesa non sbagliò né sbaglia, allorché insegnò o insegna queste cose,
ed è perciò del tutto certo che il matrimonio non può essere sciolto neppure a
causa dell’adulterio, è evidente che gli altri motivi più lievi di divorzio che
si suole addurre, valgono ancor meno e sono da ritenere del tutto inconsistenti»
ed «E anzitutto, quanto all’indissolubile fermezza del patto coniugale, Cristo
medesimo vi insiste dicendo: “Ciò che Dio ha congiunto, l’uomo non separi” [Mt
19,6]; e: “Chiunque ripudia la propria moglie e ne prende un’altra commette
adulterio: e chiunque prende quella che è stata ripudiata dal marito commette
adulterio” [Lc 16,18]. In questa indissolubilità ripone appunto sant’Agostino
il bene che egli chiama del sacramento, con queste chiare parole: “Nel sacramento
poi [si fa in modo] che il matrimonio non sia sciolto e il ripudiato o la
ripudiata non si unisca ad altri, neppure a motivo della prole” [De Genesi ad
litteram, IX, 7, n. 12]» ed ancora «E se l’uomo ingiuriosamente tenta di
separarlo [ciò che Dio ha unito, ndr], il suo atto è del tutto nullo; e
resta valido perciò quanto Cristo apertamente confermò: “Chiunque rimanda la
moglie e ne sposa un’altra, è adultero e chi sposa la rimandata dal suo marito,
è adultero” [Lc 16,18]. E queste parole di Cristo riguardano qualsiasi matrimonio,
anche quello soltanto naturale e legittimo, giacché a ogni vero matrimonio
spetta quella indissolubilità, per la quale esso è sottratto, quanto alla
soluzione del vincolo, e all’arbitrio delle parti e ad ogni potestà civile»,
Pio XI, Casti connubii, 31.12.1930.
[4]
Cfr. cann. 2382 e 2385 Catechismo della Chiesa Cattolica.
[5]
Si vedano anche i cann. 325 e 327.
[6]
«Noi fermamente e senza dubbio alcuno con cuore puro crediamo, e con semplicità
con parole credenti affermiamo, che il sacrificio, cioè il pane e il vino, dopo
la consacrazione è il vero corpo e il vero sangue del Signore nostro Gesù
Cristo; nel quale noi crediamo che nulla di più da un sacerdote buono e nulla
di meno da uno cattivo è compiuto; perché si compie non per merito del
consacrante, ma per la parola del Creatore e per la forza dello Spirito Santo»,
Innocenzo III, Lettera Eius exemplo all’arcivescovo di Tarragona,
18.12.1208, Professione di fede prescritta ai valdesi; «…infatti il suo corpo e
il suo sangue sono contenuti veramente nel sacramento dell’altare, sotto la
specie del pane e del vino, poiché il pane è transustanziato nel corpo, e il
vino nel sangue per divino potere», Concilio Lateranense IV, Cap. 1,
11-30/11/1215; Nella Lettera di Clemente IV Quanto sincerius del
28.10.1267 all’arcivescovo Maurino di Narbonne, il Papa riprende l’arcivescovo,
dicendosi scandalizzato, che aveva asserito che «Gesù Cristo non è con la sua essenza
sull’altare, ma solamente come indicato sotto un segno». Clemente IV dice
chiaramente che tali affermazioni «contengono una manifesta eresia e annullano
la verità di quel sacramento»; «E in virtù delle stesse parole [di Cristo, ndr]
la sostanza del pane si trasforma in corpo di Cristo, e la sostanza del vino in
sangue. Ciò avviene però in modo tale che tutto il Cristo è contenuto sotto la
specie del pane e tutto sotto la specie del vino e, se anche questi elementi
venissero divisi in parti, in ogni parte di ostia consacrata e di vino consacrato
vi è tutto il Cristo», Concilio di Firenze, Bolla sull’unione con gli armeni Exsultate
Deo, 22.1.1439; «In primo luogo questo santo sinodo insegna e professa
apertamente e semplicemente che nel divino sacramento della santa eucaristia,
dopo la consacrazione del pane e del vino, il nostro Signore Gesù Cristo, vero
Dio e vero uomo, è contenuto veramente, realmente e sostanzialmente [can. 1],
sotto l’apparenza di quelle cose sensibili» (Cap. 1) - «È quindi verissimo che
sotto una sola specie è contenuto tanto, quanto sotto entrambe. Cristo,
infatti, è tutto e integro sotto la specie del pane e sotto qualsiasi parte di
questa specie; e similmente è tutto sotto la specie del vino e sotto ogni sua
parte» (Cap. 3) - «Poiché il Cristo, nostro redentore, ha detto che ciò che
offriva sotto la specie del pane era veramente il suo corpo, nella chiesa di
Dio vi fu sempre la convinzione, e questo santo concilio lo dichiara ora di
nuovo, che con la consacrazione del pane e del vino si opera la conversione di
tutta la sostanza del pane nella sostanza del corpo del Cristo, nostro Signore,
e di tutta la sostanza del vino nella sostanza del suo sangue. Questa
conversione, quindi, in modo conveniente e appropriato è chiamata dalla santa
chiesa cattolica transustanziazione» (Cap. 4), Concilio di Trento, Sess. XIII,
11.10.1551, Decreto sul sacramento dell’Eucaristia; «Se qualcuno negherà
che nel sacramento dell’eucaristia è contenuto veramente, realmente,
sostanzialmente il corpo e il sangue di nostro Signore Gesù Cristo, con l’anima
e la divinità, e, quindi, il Cristo tutto intero, ma dirà che esso vi è solo
come in un simbolo o una figura, o solo con la sua potenza, sia anatema» (Can.
1), Concilio di Trento, Sess. XXII, 17.9.1562, Dottrina e canoni sul sacrificio
della Messa; «Riconosco parimenti che nella messa viene offerto a Dio un vero e
proprio sacrificio di espiazione per i vivi e per i morti, e che nel santissimo
sacramento dell’eucaristia c’è veramente, realmente e sostanzialmente il corpo
e il sangue, insieme all’anima e alla divinità, del nostro Signore Gesù Cristo,
e che avviene la trasformazione di tutta la sostanza del vino e del sangue,
trasformazione che la chiesa cattolica chiama transustanziazione. Confesso che
anche sotto una delle due specie viene assunto Cristo completo e integro e il
vero sacramento», Pio IV, Bolla Iniunctum nobis, 13.11.1564, Professione
di fede tridentina; «Anche se è quanto mai conveniente che quelli che fanno
uso della comunione frequente e quotidiana siano privi di peccati veniali, per
lo meno quelli pienamente deliberati, e dall’affetto nei loro confronti, è tuttavia
sufficiente che siano senza peccati mortali, unitamente al proposito di non
peccare mai più nel futuro», S. Pio X, Decreto Sacra Tridentina Synodus,
16.12.1905, La comunione eucaristica quotidiana, punto 3; «Il sacrificio
dell’altare non è una pura e semplice commemorazione della passione e morte di
Gesù Cristo, ma è un vero e proprio sacrificio, nel quale, immolandosi
incruentemente, il sommo sacerdote da ciò che fece una volta sulla croce
offrendo al Padre tutto se stesso, vittima graditissima … Per mezzo della “transustanziazione”
del pane in corpo e del vino in sangue di Cristo, come si ha realmente presente
il suo corpo, così si ha il suo sangue; le specie eucaristiche poi, sotto le
quali è presente, simboleggiano la cruenta separazione del corpo e del sangue»,
Pio XII, Enciclica Mediator Dei, 20.11.1947; «Tale presenza si dice “reale”
non per esclusione, quasi che le altre non siano “reali”, ma per antonomasia
perché è anche corporale e sostanziale, e in forza di essa Cristo, Uomo-Dio,
tutto intero si fa presente. Malamente dunque qualcuno spiegherebbe questa
forma di presenza, immaginando il corpo di Cristo glorioso di natura “pneumatica”
onnipresente; oppure riducendola ai limiti di un simbolismo, come se questo
augustissimo sacramento in niente altro consistesse che in un segno efficace “della
spirituale presenza di Cristo e della sua intima congiunzione con i fedeli
membri del corpo mistico», Paolo VI, Enciclica Mysterium fidei,
3.9.1965.
[7]
Catechismo di San Pio X, can. 335.
[8] Ibid.,, can.
337.
[9] Ibid., can
358.
[10] San Paolo, 1 Cor 11,
29.
[11]
Catechismo di San Pio X, can. 335; vedi anche can. 373 e Concilio di Trento,
Sess. XIV, 25.11.1551, can. 6.
[12]
S. Giovanni Paolo II, Familiaris consortio, 84.
[13]
Ibid.
Nessun commento:
Posta un commento