mercoledì 4 febbraio 2015

Che cosa ha detto Gesù sul divorzio. Sono possibili due interpretazioni?

Nella memoria di S. Andrea Corsini e della S. Veronica, pia donna, rilancio questo contributo chiarificatore di un altro pubblicato nei giorni scorsi da Sandro Magister sul suo blog.


Guido Reni, Beato Andrea Corsini, 1639 circa, Pinacoteca nazionale, Bologna
  

Guido Reni, Il Beato Andrea Corsini in preghiera, 1630-35, Galleria Corsini, Firenze

Che cosa ha detto Gesù sul divorzio. Le due interpretazioni


Stamane è possibile leggere su Settimo cielo di Sandro Magister [qui] la terza battuta di quello che sta diventando un dibattito di interpretazioni in ordine a : Che cosa ha detto Gesù sul divorzio. Le due interpretazioni. Si tratta di quella di Innocenzo Gargano [qui] messa a raffronto con quella di Silvio Brachetta [qui] per concludere, come fa Antonio Emanuele, a sostegno di Gargano:
[...] L’intervento di Silvio Brachetta appare invece scritto dalla prospettiva di chi interpreta il testo, mettendone in relazione le parti, nell’ipotesi che le parole usate nei testi sacri siano quelle che correttamente riproducono il significato originario nel nostro contesto culturale.Infatti, non dice nulla sulle premesse dell’intervento di Innocenzo Gargano mentre fa ampio riferimento al patrimonio della teologia e della patristica.L’interpretazione di Brachetta è quella canonica, nel senso di più autorevole al momento (nel suo blog lei giustamente cita il libro di Joseph Ratzinger su Gesù).Si tratta, secondo me, di due interventi che non sono in contrapposizione perché “non commensurabili”.Li ritengo entrambi necessari perché la fede in Gesù Cristo non è un elenco di norme o di buoni propositi ma il racconto e la condivisione della Buona Novella (e la sua profonda comprensione) fatta da un popolo (la Chiesa) nella storia.

Non penso basti sostenere, nella conclusione, che i due interventi - e dunque due diverse letture - non sono in contrapposizione perché “non commensurabili”. Una delle due letture, alla fine, va scelta. E se è vero che la fede in Gesù Cristo non è un elenco di norme e di buoni propositi, è altrettanto vero che essa rende possibile proprio l’attuazione di quelle norme, eterne ed immutabili, non con i buoni propositi ma attraverso un comportamento concreto che vi aderisce.
Sostanzialmente, mentre Silvio Brachetta riporta il discorso nell’alveo della Tradizione (e dei Padri), Innocenzo Gargano usa una sorta di scappatoia collegando misericordiosamente la prassi del ripudio concessa da Mosè (Mt 19,8) alla inclusione nel regno dei cieli dei “minimi”, che Gesù indica come “trasgressori” della legge nel discorso della montagna e non ‘esclude’ dal regno dei cieli, perché contempla soltanto la situazione di ‘minimo’ o di ‘grande’ nel regno dei cieli (Mt 5,19). Una interpretazione che non trova alcun supporto né nella Scrittura né nei Padri né nel Magistero.
Sostenere, come fa Emanuele in soccorso di Gargano, che il discorso di Gesù era commisurato alla cultura del tempo, si basa sull’esegesi nella quale assurge ad unico criterio la lettura nel contesto storico e, nel caso di specie, su una ipotesi molto particolare. Del resto è ben noto che Gesù usa sempre esempi di estrema concretezza ovviamente calati nel contesto della fede di Abramo, oltre che nella cultura e nel momento storico in cui parla. Ed è indubbio che l’identificazione corretta del contesto, se consente una migliore comprensione del testo, non può tuttavia escludere la necessaria oggettivazione dell’insegnamento che esso veicola. Escludere l’oggettivazione1, infatti, significa annichilire l’affermazione di Pietro, che è anche una profonda realtà: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,68). E, se quelle di Cristo sono parole - che rivelano principi - di vita eterna, possono rimanere invischiate in un contesto culturale qualunque esso sia? O non sono i singoli contesti che devono trovarne l’attuazione al loro interno?
Dunque l’ultimo interlocutore non fa che riconoscere piena applicazione della tradizione storicista post-conciliare che cambia ad ogni epoca, commisurata alla cultura del tempo e realizza la lettura del Vangelo sulla base di quest’ultima (come apertamente affermato da Bergoglio in questa intervista, che al pari della EG2, con tutta la sua pastorale della misericordia, non è magistero) e non viceversa, com’è giusto che sia secondo il Logos eterno che ci è stato rivelato in Cristo Signore e che oggi viene praticamente espunto.
Del resto è stato Cristo stesso a dire a chi gli obiettava:
«Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e mandarla via?». Rispose loro Gesù: «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così. Perciò io vi dico: Chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato, e ne sposa un’altra commette adulterio» (Mt 19, 7-10).


E non è proprio la “durezza del cuore” che Lui è venuto a guarire, con la Redenzione e la rigenerazione da Lui solo operata e in Lui solo possibile nella Sua Chiesa, quella vera, non nella sua scimmiottatura?
Osserva Paolo Pasqualucci, dimostrando la capziosità dell’aggancio a Mt. 5,19: 
Il passo di Mt 5, 19 è difficile. A maggior ragione occorre affidarsi all’interpretazione dei Padri, dei Dottori e del Magistero, che sul punto ha sempre avallato quanto spiegato da S. Agostino, il Crisostomo, S. Tommaso. L’interpretazione corretta è pertanto quella dello studioso Brachetta, mentre l’altra sembra mirare a trovare il cavillo per ammorbidire o aggirare l’insegnamento della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio. La difficoltà in Mt 5, 19 sembra costituita soprattutto dall’uso del termine “minimo”, in greco elachistos. Servendomi dello Zorell, ho trovato un rimando a Luca 16, 10, ove si dice: “Chi è fedele nel poco è fedele anche nel molto; e chi è infedele nel poco, è ingiusto anche nel molto”. “Poco” è sempre elachistos, tradotto con minimum e modicum (“qui fidelis est in minimo, et in maiori fidelis est; et qui in modico iniquus est, et in maiori iniquus est”). Connessione con Mt 5, 19: il “minimo” che sarà definito come tale (“minimus vocabitur”) nel Regno dei Cieli, ossia il Giorno del Giudizio, è colui che è stato “ingiusto anche nel poco”, che cioè ha violato la Legge anche nelle cose piccole e ha insegnato agli altri a fare altrettanto. Egli sarà pertanto dannato, come giustamente concludono i Padri. L’interpretazione tradizionale mi sembra valida anche da un altro punto di vista: Nostro Signore ha appena detto che è venuto a “compiere” la Legge sino al più piccolo iota e subito dopo ha aggiunto che i trasgressori del più piccolo iota e per giunta istigatori alla trasgressione, saranno accolti (da Lui) come “minimi” nel Regno dei Cieli? Via, cerchiamo di usare il retto discernimento! Nostro Signore qui in realtà ammonisce che anche chi violerà “uno solo di questi minimi precetti”, simbolicamente rappresentati dallo “iota” e dallo “apice” menzionati in Mt 5, 18, andrà in perdizione.

Maria Guarini
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1. Mettendo in campo addirittura l’interpretazione della doppia scrittura delle tavole della legge di Mosè.

2. Ricordo ancora una volta quanto affermato dallo stesso Cardinale Burke, nell’intervista concessa al settimanale cattolico spagnolo Vida Nueva, diventata famosa per l’espressione della Chiesa vista come “una barca senza timone” da molti ripresa anche fuori contesto :
Lei ha affermato che la Evangelii gaudium non è parte del Magistero. Perché?
Lo stesso Papa afferma al principio del documento che non è magisteriale, che offre solo indicazioni sulla direzione verso cui condurrà la Chiesa.
Il cattolico comune opera questa distinzione?
No. Per questo c’è bisogno di una presentazione attenta ai fedeli, spiegando loro la natura e il peso del documento. Nell’Evangelii gaudium ci sono affermazioni che esprimono il pensiero del Papa. Le riceviamo con rispetto, ma non insegnano una dottrina ufficiale.

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