Domenica
7 marzo 1965, esattamente cinquant'anni fa, Paolo VI, nella chiesa romana di Ognissanti al quartiere
Appio-Latino, celebrava, in lingua italiana, la messa vespertina (v. sul punto anche l'articolo di Rorate Caeli).
In
quella prima domenica di Quaresima, dopo circa milleseicento anni, la Messa non era più celebrata
nella lingua della Chiesa, il latino, venendo ciò a rappresentare uno dei
profili più evidenti ed emblematici di quella celebrazione di papa Montini.
Pio
XII, tuttavia, in un discorso del 1956 ai partecipanti al 1° Congresso di
liturgia pastorale, trattando della liturgia e del tempo presente, ricordava
come la Chiesa, in verità, avesse serie
ragioni per preservare, nel rito latino, l’obbligo dell’utilizzo di quell’antica
lingua (Pio XII, Allocutio Ad Emis. PP. DD. Cardinalibus Excmis PP. DD. Archiepiscopis
et Episcopis, ceterisque Antistitibus, Sacerdotibus ac Religiosis, qui
Conventui internationali de Liturgia Pastorali, Assisii habito, interfuerunt, 22 settembre 1956, in A.A.S. 48 [1956], p. 724).
La prima
ragione è correlata alla necessità di
avere una lingua sacra, distinta da quella corrente.
Non
esiste religione, antica o moderna, nella quale non si distingua ciò che è
sacro da ciò che è profano. Al contatto con l’altare o con il Sacro, pertanto, le lingue si sono pur’esse
“sacralizzate” e differenziate dagli
idiomi correnti, non essendo strettamente necessario la loro comprensione (Cfr. Godefroy
L., voce Langues liturgiques, in Dictionnaire de théologie catholique,
vol. 8, t. II, Paris 1925, coll. 2580-2591; Hanssens
G. M., voce Lingua liturgica, in Enciclopedia cattolica, vol. 7,
Città del Vaticano, 1951, coll. 1377-1382), ciò anche allo scopo di
salvaguardare il mistero delle cose sante, sottraendole alla loro “volgarizzazione”.
A tal proposito, S. Basilio di Cesarea, con ragione, sottolineava che le cose
sante, che afferiscono al Mistero, fossero sottratte al popolo per evitare che
esse stesse si volgarizzino (Cfr. Basilio
Magno, Liber De Spiritu Sancto,
XXVII, 66, in
PG 32, col. 190).
Tra
gli idiomi che si sono sacralizzati
vi è la lingua latina, che, come la definì Pio XI nel 1924, è «magnifica
caelestis doctrinae sanctissimarumque legum veste uteretur» (Pio XI, motu proprio Latinarum litterarum, De
peculiari litterarum latinarum schola in athenaeo gregoriano costituenda, 20 ottobre 1924, in A.A.S. 16
[1924], p. 417). Quest’idioma, venuto a contatto con l’altare, probabilmente
sin dal I sec. d. C. (come ipotizzato da alcuni sulla base di graffiti
pompeiani: cfr. Berry P., The
Christian Inscription at Pompeii, Edwin Mellen Press, Lewiston N.Y., 1995)
e sicuramente dal III-IV sec., è rimasto nella liturgia praticamente per ben
milleseicento anni (cfr. Lang U.M., Il latino come
lingua liturgica del rito romano, in Nuara
V. M. (a cura di), Il motu proprio
Summorum Pontificum di S.S. Benedetto XVI,
Verona 2009, pp. 73-74).
La
seconda motivazione è da ricondurre al fatto che, storicamente, la lingua latina si è imposta come
lingua sacra.
S.
Ilario di Poitiers affermava che il mistero di Dio si era rivelato
principalmente in tre lingue: l’ebraica/aramaica, la greca e la latina. Queste
lingue erano idealmente rappresentate – secondo quell’antico Padre – nel titulus crucis, cioè nell’iscrizione,
recante il motivo della condanna di Gesù e posta sopra il suo Capo (Ilario di Poitiers, Tractatus super Psalmos, Prologus,
15, in PL
9, col. 241-242).
Ed Onorio di Ratisbona (o d’Autun) poneva in rilievo come, nella liturgia,
tutte queste lingue fossero state conservate gelosamente (Onorio di Ratisbona, Gemma
Animae, I, XCII, in PL 172, col.
574). In ogni caso, tali
tre idiomi – aggiunge il celebre abate di Solesmes, dom Prosper Guéranger
– sono stati i soli di cui ci si è serviti nei primi quattro secoli del Cristianesimo
e ciò è stato sufficiente a conferire loro una particolare dignità liturgica, a
differenza delle lingue correnti. Dio avrebbe condotto la mano del governatore
romano nella scelta delle lingue che comparivano nell’iscrizione, anche per
consacrare le tre lingue, le stesse che il popolo ebraico, riunito da ogni
luogo per la festività pasquale, potesse leggere sul Titolo issato sulla testa
del Redentore (Così Guéranger P (dom), Instituions liturgiques, Paris-Bruxelles, 1883, II ed.,
t. III, pp. 57 ss.). Tale concezione apparve, in maniera chiara, il
7 luglio 1409, nella cerimonia d’incoronazione di papa (o antipapa?) Alessandro
V, durante il concilio di Pisa: in quella circostanza si cantò, raccontano gli
Atti conciliari, l’Epistola ed il Vangelo in ebraico, in greco ed in latino,
venendo così quelle lingue armonicamente riunite in un unico e solenne
contesto.
Episodi
come quello dei demoni che, comparendo a San Guthlac di Crowland (Felix di Croyland, Vita Sancti Guthlaci, 20, ora in Colgrave
B. (a cura di), Felix’s Life of Saint
Guthlac. Text, Translation and Notes, Cambridge, rist. 2007, pp. 84 s.), si
esprimevano in lingua volgare (britannico) al pari dei barbari e degli infedeli
(sul punto, v. anche Penco G., Il monachesimo fra spiritualità e cultura, Milano 1991, p. 203),
pur trovando una giustificazione nella mentalità propria della letteratura
agiografica del tempo, dimostrano come, per secoli, il latino fosse ritenuto –
insieme alle altre due lingue sacre – un idioma angelico, perfetto, idoneo a sopperire agli effetti nefasti della confusio linguarum babelica, ed in grado
«visibilmente» di far pregare tutti i figli della Chiesa all’unisono, «ad una
sola voce e con un solo cuore» (così Amata B., Il patrimonio classico e cristiano nella
scuola all’appuntamento europeo del 1993, in Amata
B. (a cura di), Cultura e lingue classiche, Roma 1993, p. 670),
«senza distinzione di razza o di cultura» (Bux N., La riforma di
Benedetto XVI. La liturgia tra innovazione e tradizione, con Prefazione di Messori V., Casale Monferrato, 2009, p. 117).
Che
il latino fosse da considerarsi lingua
sacra lo riconobbe, d’altro canto, lo stesso Paolo VI, il quale, proprio
nell’Angelus di quel lontano 7 marzo
1965, dichiarò: «Questa domenica segna una data memorabile nella storia
spirituale della Chiesa, perché la lingua parlata entra ufficialmente nel culto
liturgico … . La Chiesa
ha ritenuto doveroso questo provvedimento - il Concilio lo ha suggerito e
deliberato … È un sacrificio che la
Chiesa ha compiuto della propria lingua, il latino; lingua sacra, grave, bella, estremamente
espressiva ed elegante».
La
terza ragione si annoda alla verità dell’unicità della Chiesa di Cristo: una
lingua unica per l’unica vera Chiesa.
La
lingua latina, infatti, è stata intesa come concreto segno di quell’unità
intesa in senso triplice: nella fede, nello spazio e nel tempo (Cfr. Crescimanno C., La Riforma della Riforma liturgica, Verona 2009, p. 229). Attraverso
quell’idioma, ogni chiesa particolare, per quanto lontana geograficamente da
Roma, poteva sentirsi unita, nella comune fede, nella preghiera e nella liturgia,
a quella Prima Sede. Al contempo,
questa comunanza orante riuniva i fedeli ai fratelli che li avevano preceduti
nei secoli passati, non essendo trascurabile il sapere di pregare con le stesse
formule, con gli stessi canti e gesti con i quali hanno pregato i Santi ed i
Martiri di ogni epoca sino ai nostri giorni (ibidem).
Tale
concetto era ben chiaro, ad es., al papa San Gregorio VII. Il duca di Boemia,
Vratislao, infatti, gli aveva chiesto di estendere anche ai suoi popoli, pur’essi
slavi, la dispensa che il predecessore, Giovanni VIII, nel giugno dell’880,
aveva accordato per la Moravia
con la lettera apostolica Industriae tuae, indirizzata al Principe
Svatopluk (Giovanni VIII, Ep. Industriae tuae, a. 880, in PL 126, col. 904
ss.) (sebbene questa dispensa fosse revocata da papa Stefano V - Stefano V, Ep. Quia te zelo fidei, a. 885, in PL 129, col. 802 ss., partic. col. 803-804).
Papa Ildebrando rifiutò, spiegando che le necessità che si sono presentate agli
inizi della Chiesa, non potevano prudentemente diventare una regola per i
secoli seguenti (Gregorio VII, Ep.
Hujusmondi salutationis nostrae, a.
1079 (1080), in PL 148, col. 554 ss.). Spingendo le frontiere della lingua
latina fino alla Boemia, papa Gregorio VII faceva avanzare sino alla Polonia la
fede cristiana, «qui, restant latine, se trouvait
ainsi consacrée comme le boulevard catholique de l’Europe du côté de l’Asie»
(Così Guéranger P (dom), op. cit., p. 117).
Pio
XI, nella lettera apostolica Unigenitus
Dei del 19 marzo 1924, con la quale illustrava i criteri ai quali ispirarsi
nella formazione del clero, non a caso, asseriva, tra l’altro, che «Ecclesia
utitur [latine, ndr.] veluti ministro
et vinculo unitatis» (Pio XI,
Epist. Ap. Unigenitus Dei Filius, 19
marzo 1924, in
A.A.S. 16 [1924], p. 141).
Pio
XII, nell’enciclica Mediator Dei del
20 novembre 1947, ribadirà quest’idea affermando che «… Latinae linguae usus,
ut apud magnam Ecclesiae partem viget, perspicuum est venustumque unitatis
signum, …» (Pio XII, Litt. enc. Mediator Dei, 20 novembre 1947, ivi, 39 [1947], p. 545).
Anche Giovanni XXIII non mancò di
sottolineare il carattere “unitivo” della lingua latina anche «nel presente
momento storico, in cui, insieme con una più sentita esigenza di unità e di
intesa fra tutti i popoli, non mancano tuttavia espressioni di individualismo».
Per questo, tale idioma «può ancora oggi rendere nobile servizio all’opera di
pacificazione e di unificazione» persino «ai nuovi popoli, che si affacciano
fiduciosi alla vita internazionale», giacché non essendo legato «agli interessi
di alcuna nazione, è fonte di chiarezza e di sicurezza dottrinale, è
accessibile a quanti abbiano compiuto studi medi e superiori; e soprattutto è
veicolo di reciproca comprensione» (Giovanni
XXIII, Discorso alle rappresentanze del
Sacro Collegio della Curia romana e del Clero romano in occasione della
festività della Cattedra di San Pietro, 22 febbraio 1962, in A.A.S. 54 [1962],
pp. 167 ss., partic. pp. 174-175. Cfr. anche Sacra
Congregazione per i Seminari e gli Istituti di Studi, ord. Sacrum Latinae Linguae depositum, 22
aprile 1962, in
A.A.S. 54 [1962], pp. 339 ss., partic. p. 340).
Significativo è anche quanto afferma Giovanni Paolo II, Ep. ap. Dominicae caenae, 24 febbraio 1980,
partic. n. 10 (in A.A.S. 72 [1980], pp. 113 ss., partic. p. 135), per il quale
la lingua latina, «unius sermonis …
in universo orbe terrarum unitatem Ecclesiae significat et indole sua
dignitatis plena altum sensum Mysterii eucharistici excitavit». Papa Wojtyla
riconosce, inoltre, sempre nello stesso documento, che «Ecclesia quidem Romana
erga linguam Latinam, praestantissimum sermonem Urbis Romae antiquae, peculiari
obligatione devincitur eamque commonstret oportet, quotiescumque offertur occasio».
Una
lingua “una”, dunque, per una Chiesa “una”.
La
c.d. riforma protestante confermerà questo principio: con l’abbandono dell’unità
dell’Impero ed il nascere degli Stati nazionali, anche la lingua latina –
utilizzata nella liturgia – cedette il posto al culto protestante in lingua
nazionale.
La
quarta ragione è strettamente legata alla precedente: la necessità di una
lingua immutabile, in-temporale, priva
di dimensione diacronica, come direbbe il filosofo cattolico Romano Amerio (Amerio R., Iota unum. Studio delle variazioni della Chiesa
cattolica nel secolo XX, a cura di Radaelli
E. M., con Prefazione del card. Castrillón Hoyos D., Torino 2009, p. 548).
Tale
motivazione fu chiaramente espressa da Pio XI nella lettera apostolica Officiorum omnium del 1922, per il quale
la Chiesa ,
abbracciando nel suo seno tutte le nazioni, ed essendo destinata a durare sino
alla fine dei secoli, esige per la sua stessa natura, una lingua universale,
immutabile, non popolare, sottratta cioè all’alterazione delle lingue volgari (cfr. Pio XI, Epist. ap. Officiorum ominum sanctissimorum, 1° agosto 1922, in A.A.S. 14 [1922],
p. 452). Papa Pacelli aggiunse, sempre nella Mediator Dei, che la lingua latina è, tra l’altro, pure «remedium efficax
adversus quaslibet germanae doctrinae corruptelas» (Pio XII, Litt. enc. Mediator
Dei, cit., p. 545).
Giovanni
XXIII, riprendendo questi argomenti, sottolineò che «catholica Ecclesia, utpote
a Christo Domino condita, inter omnes humanas societates longe dignitate
praestet», per questo «profecto decet eam lingua uti non vulgari, sed
nobilitatis et maiestatis plena» (Giovanni
XXIII, Const. ap. Veterum Sapientia,
22 febbraio 1962, in
A.A.S. 54 [1962], p. 131). Nella Lettera Jucunda
laudatio del 1961, papa Roncalli, infine, non ebbe remore a proclamare il
latino quale lingua ineliminabile della liturgia, cui anche i più umili
avrebbero diritto di accedere grazie ai manuali bilingui e ad opportune
catechesi liturgiche (Id., Ep. Jucunda laudatio, Ad Hyginum Anglés Pamies, Protonotarium Apostolicum ad instar participantium
ac Pontifici Instituti Musicae Sacrae docendae praesidem, decem exactis lustris
ab eiusdem instituti ortu, 8 dicembre 1961, ivi, 53 [1961], p. 812).
Per
tutti questi motivi, il latino può – a giusto titolo – definirsi «lingua
propria della Chiesa» (Sacra
Congregazione degli Studi, Epist. Vehementer sane, ad Episc.
Universos, 1° luglio 1908,
in Ench. Cler., n. 820), perché ad essa
connaturale non in senso metafisico, bensì in senso storico per il peculiare ed
intimo rapporto che ha avuto con la religione cattolica (De Mattei R., La liturgia della Chiesa nell’epoca della secolarizzazione, Chieti
2009, pp. 17-18). In effetti, per secoli, «nell’opinione comune, il latino
faceva tutt’uno con il cattolicesimo, le lingue nazionali con il
protestantesimo» (Così ricorda Waquet
F., Le latin ou l’empire d’un signe. XVIe-XXe siècle, Paris 1998, trad. it. di Serra
A., Latino. L’impero di un segno (XVI-XX secolo), Milano 2004, p. 113).
L’Autrice non manca di osservare però che, nondimeno, il protestantesimo non fu
un mondo senza latino, atteso che persino riformatori del calibro di Lutero o
di Calvino non abbandonarono la lingua latina, ma anzi fu da essi mantenuta in
molte loro opere (ibidem, pp. 114-115).
Furono
favorevoli alla lingua popolare, in
primis, gli ortodossi. A questo riguardo non può non richiamarsi un celebre
parere del canonista bizantino Teodoro Balsamone, patriarca di Antiochia nel
XII sec., il quale, richiesto dal patriarca melchita di Alessandria d’Egitto se
ai sacerdoti armeni e siriaci dimoranti in Egitto si dovesse consentire di
utilizzare la propria lingua nella liturgia ovvero se si dovesse loro imporre
la lingua greca, Balsamone rispondeva in senso affermativo. Egli affermò essere
lecito utilizzare le lingue nazionali, conservando la fedeltà della traduzione
al testo greco (cfr. Teodoro Balsamone,
Interrogationes canonicæ S. Patriarchæ
Alexandriæ D. Marci et Responsa ad eas, in PG 138, col. 951 ss., partic. col.
957).
In
seguito, i valdesi, i catari, John Wycliff in Inghilterra, e Jan Huss in Boemia
furono a favore della lingua vernacolare.
Erasmo
da Rotterdam fu censurato dall’Università della Sorbonne di Parigi, nel 1526,
perché aveva criticato con veemenza, nelle sue Annotationes in Novum Testamentum e, segnatamente, sul Vangelo di
Matteo (Praefatio in Matthaeum), la
pratica di far pronunciare ai fedeli – nei sacri riti – delle preghiere in una
lingua che essi non comprendevano. Sostenne, infatti, essere «indecorum, vel ridiculum potius» vedere «idiotae et
mulierculœ»
pregare «cum ipsae quod sonant non intelligant» (il testo è in Guéranger P (dom), op. cit., t. III, cit., p. 160. Cfr. Godefroy L., op. cit., col. 2584-2585). I teologi parigini
giudicarono questa proposizione «impia et erronea» e che «viam praebens errori Bohemorum, qui Officium Ecclesiasticum idiomate
vulgari celebrare conati sunt» (Guéranger P (dom), loc. cit.. Cfr. anche Waquet F., op. cit.,
p. 69).
Lutero
e gli altri riformatori ripresero quest’idea, stigmatizzata, in seguito, dal
Concilio di Trento (Cfr. Concilio di Trento, Doctrina et canones de SS. Missae sacrificio, Sessio XXII, 17
settembre 1562, in Denzinger H., Enchiridion Symbolorum – definitionum et
declarationum de rebus fidei et morum 37, a cura di Hünermann P., EDB, Bologna 1996 2, nn.
1749 e 1759, pp. 726-730). Anche i giansenisti non furono da meno.
Pasquier
Quesnel fu riprovato da papa Clemente XI, con la bolla Unigenitus Dei Filius del 1713, tra l’altro, perché aveva sostenuto
che sottrarre al popolo semplice, con l’uso della lingua latina nella liturgia,
la consolazione di unire la propria voce con quella di tutta la Chiesa era da considerarsi
contrario alla prassi apostolica ed all’intenzione di Dio (Clemente XI, Const. ap. Unigenitus Dei Filius, 8 settembre 1713,
ivi, n. 2486, pp. 872-873).
Su
non diverse posizioni si trovò anche il sinodo di Pistoia, che riunì nella
città toscana i vescovi del Granducato dal 18 al 28 settembre 1786 e che era
appostato fino all’evidenza su posizioni gianseniste e febroniane. Questo
conciliabolo, infatti, convocato dal vescovo di Prato e Pistoia, Scipione de’
Ricci, su sollecitazione del Granduca illuminista Leopoldo I, allo scopo di assecondare
le riforme politico-ecclesiastiche varate nel Granducato (che dettero luogo a
quel sistema di stampo giurisdizionalistico noto come leopoldismo), auspicava «una maggiore semplicità dei riti,
esponendoli in lingua volgare e proferendoli ad alta voce», poiché l’uso
contrario – per i sinodali – costituiva una «dimenticanza» dei principi della
liturgia.
Pio VI, con la Cost. Ap. Auctorem fidei del 1794, non mancò di
biasimare questa proposizione, giudicandola, tra l’altro, «temeraria, piarum
aurium offensiva, in Ecclesiam contumeliosa, favens haereticorum in eam
conviciis» (Pio VI, Const. ap. Auctorem fidei, 28 agosto 1794, ivi,
n. 2633, pp. 934-935).
Francesco Hayez, Ritratto di Antonio Rosmini, 1853, Pinacoteca di Brera, Milano |
Dom Alcuin Reid on the 50th Anniversary of Mass in the
Vernacular
GREGORY
DIPIPPO
Once again, we are very grateful
indeed to Dom Alcuin Reid for sharing his work with our readers. He writes here
about the 50th anniversary of the first Mass celebrated by a Pope in the
vernacular, and the “implementation” of Sacrosanctum
Concilium, the Second Vatican Council’s Constitution on the Sacred liturgy.
March 7th, 1965—’An extraordinary
way of celebrating the Holy Mass’
“On March 7, 1965, Blessed Paul
VI...celebrated the first Mass in Italian in history in the parish of
Ognissanti (All Saints), Rome,” Vatican Information Services tells us. To mark
50 years since this event a Congress on Pastoral Liturgy has been held this
week—speakers included Archbishop Piero Marini—and on the anniversary itself
Pope Francis will celebrate the evening Mass in the same parish.
This anniversary, and the celebration of it, may seem a little anomalous—after all, the ‘new’ Mass came into force on the first Sunday of Advent in 1969. Why the celebrations now?
March 7th, 1965, was in fact the date on which the Instruction Inter Oecumenici – “On the Proper Implementation of the Constitution on the Sacred Liturgy,” dated September 26, 1964, came into force. It was the first significant implementation of the liturgical reform. Hence Paul VI’s words at the beginning of his homily at Oggnisanti: “Today we inaugurate the new form of liturgy in all the parishes and churches of the world.”
This anniversary, and the celebration of it, may seem a little anomalous—after all, the ‘new’ Mass came into force on the first Sunday of Advent in 1969. Why the celebrations now?
March 7th, 1965, was in fact the date on which the Instruction Inter Oecumenici – “On the Proper Implementation of the Constitution on the Sacred Liturgy,” dated September 26, 1964, came into force. It was the first significant implementation of the liturgical reform. Hence Paul VI’s words at the beginning of his homily at Oggnisanti: “Today we inaugurate the new form of liturgy in all the parishes and churches of the world.”
Inter Oecumenici is
well worth reading, particularly articles 11-19 (on liturgical formation) which
precede any discussion of ritual changes. As in Sacrosanctum Concilium itself,
sound and thorough liturgical formation at every level is regarded as an
essential prerequisite for full, conscious and actual participation in the
Sacred Liturgy.
The Instruction certainly effects
changes though, simplifying ritual salutations, omitting psalm 42 from the
beginning of Mass, introducing the prayer of the faithful, abolishing the
subdeacon holding the paten, removing the last Gospel, saying that the main
altar in a church should be constructed so that Mass “may” be celebrated facing
the people, etc. The Ordo Missae published in January 1965
incorporated the changes made by Inter Oecumenici and added
more. This is not the occasion to evaluate them, though it is worth noting that
no less than Klaus Gamber judged the 1965 Ordo Missae (there
was no 1965 Missale Romanum) to be the last form of the traditional
Roman rite, appropriately reformed according to the provisions of the Council.
Inter Oecumenici also
extended the place which may be granted to the vernacular language in the
celebration of the liturgy. The competent territorial ecclesiastical authority,
with the approval of the Holy See, was to decide how extensive this was to be.
At the beginning of 1965 the preface and Roman canon (there were no other “Eucharistic
prayers”) remained in Latin—though the Instruction notes that “it pertains
solely to the Apostolic See to concede the vernacular in other parts of the
Mass which are chanted or recited by the celebrant alone” (§ 58).
Let us return to the church of
Ognissanti on the Via Appia Nuova in Rome’s Appio-Latino quarter, and “the
first Mass in Italian in history” celebrated by Paul VI (well, given the canon
&c., mostly in Italian). To arrive at an extensive use of
the vernacular merely 459 days after the promulgation of the Constitution on
the Sacred Liturgy on December 4, 1963, was quite an accomplishment—a direct
fruit of the requests submitted by the Italian bishops to the Consilium and
of the prompt and positive responses it increasingly gave to such requests.
The leadership of the Consilium and, seemingly, most Italian bishops, regarded the maximum use of the vernacular as being of great importance, if not as indispensable, in achieving a participatory and truly pastoral liturgy. “The fundamental norm from today and in the future is to pray understanding every phrase and word, to complete [them] with our personal feelings, and to make them one with the soul of the community that sings with us in unison,” Paul VI said in his homily.
The leadership of the Consilium and, seemingly, most Italian bishops, regarded the maximum use of the vernacular as being of great importance, if not as indispensable, in achieving a participatory and truly pastoral liturgy. “The fundamental norm from today and in the future is to pray understanding every phrase and word, to complete [them] with our personal feelings, and to make them one with the soul of the community that sings with us in unison,” Paul VI said in his homily.
Indeed, reading the memoirs of
the Consilium’s Secretary, Annibale Bugnini CM, it becomes
clear that the question of arriving at a liturgy that was completely in the
vernacular was a burning quest which left the clearly nuanced provisions of the
Constitution on the Sacred Liturgy far behind (“In Masses which are celebrated
with the people, a suitable place may be allotted to their mother tongue” § 54;
see also § 36). Bugnini himself had to admit that “it cannot be denied that the
principle, approved by the Council, of using the vernaculars was given a broad
interpretation.” Indeed, he held—somewhat arrogantly—that since its
introduction “millions and hundreds of millions of the faithful...have at last
achieved worship in spirit and truth” and “can at last pray to God in their own
languages and not in meaningless sounds.” Paul VI himself asserted that March
7th, 1965, was “a great event, that shall be remembered as the beginning of a
flourishing spiritual life, as a new effort to participate in the great
dialogue between God and man.”
There is no denying that some use
of the vernacular can aid liturgical participation, particularly with readings
from Sacred Scripture, or that the Council desired this. Even Archbishop
Lefebvre, who signed the Constitution on the Sacred Liturgy, could see a real
pastoral advantage to its use in the Mass of Catechumens (what would later be
known as the “Liturgy of the Word”). However, to require that the Sacred
Liturgy be celebrated in the vernacular is an error condemned by a general
council of the Church and by Pius VI’s bull of 1794 Auctorem Fidei (Denzinger
1759, 2666).
Indeed, as the Christian East has
never forgotten, the Sacred Liturgy is not in the first place a comprehension
exercise. It is the ritual worship of Almighty God employing multivalent
symbols which thus become privileged sacramentals—sacred language included.
Certainly, penetrating the meaning of the rites and prayers is fundamental, but
this is facilitated by the work of liturgical formation (or more effectively,
by liturgical habituation over a lifetime)—no short cuts, such as the quick
rendering of the liturgy in the vernacular, are viable here. Even the
liturgical proclamation of the texts of Sacred Scripture is not simply a
didactic exercise, although certainly, the vernacular can be of immense help
with participation, as indeed in some other parts of the liturgy (such as the
prayers of the faithful). The Second Vatican Council knew this. But the
wholesale removal of Latin from the liturgy and liturgical celebrations
completely in the vernacular are contrary to what the Second Vatican Council
desired and approved.
Not eighteen months after
promulgating Sacrosanctum Concilium, Paul VI regarded this day as
marking “the beginning of a flourishing spiritual life.” It would appear in
retrospect that he was, by and large, wrong. Neither the introduction of the
vernacular or the ritual reforms that this date saw (or their successors) has
led to a “flourishing” ecclesial life in the decades since. There are many
causes for the decline we have suffered, and there are generations of Catholics
who love and hold the vernacular liturgy dear, but it remains a fact that the
modern liturgy has not filled our churches. Indeed, apart from the committed and
well-formed laity (who are few), there are numerous mute, extraneous spectators
in our churches today who are just as disengaged from the vernacular liturgy as
their forebears were from the liturgy when it was in Latin.
The issue is not fundamentally one
of language—which is why, perhaps, the celebration of 50 years since the first
Italian Mass in history is a little disingenuous. Rather, the issue is the
nature of Catholic liturgy, and of the formation in it which is necessary to
enable widespread fruitful participation in and connection with the action of
Christ in the liturgy.
Fifty years ago, instead of
prompting and processing requests for more and more vernacular, and pushing the
pope for their extension, the Consilium might have spent its
time and energy more profitably had it turned its attention to thea priori condition
for fruitful participation in the Sacred Liturgy, namely liturgical formation.
Today we may do well to turn ourselves to the same work—while not forgetting
the enormous question of the effect not only of the vernacularization of the
liturgy, but also of its radical ritual de- and re-construction at the Consilium’s hands.
The opening words of Blessed Paul
VI’s homily at Ognissanti declared: “Today’s new way of prayer, of celebrating
the Holy Mass, is extraordinary.” Indeed it was. Perhaps, though, it is now
time to look to recover the manner of Catholic liturgical prayer and life that
is truly ordinary in respect of our tradition and that is in accordance with
the wishes of the Council.
Dom Alcuin Reid is a monk of the
Monastère Saint-Benoît in the Diocese of Fréjus-Toulon, France. A well known
lecturer and writer on liturgical topics, Dom Alcuin coordinates the Sacra
Liturgia initiatives which began with the Sacra Liturgia 2013 conference in
Rome. His latest work, the T&T Clark Companion to
Liturgy: The Western Catholic Tradition, is due for publication by
Bloomsbury towards the end of 2015.
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