Pubblichiamo qui di seguito, in due parti, in formato ridotto e senza note, un nostro studio, pubblicato alcuni anni fa, sulla questione - per l'approssimarsi della Pasqua - se sia lecito per un cristiano rievocare e partecipare ad un pasto di Pesach.
* * * * * * *
Sommario: 1. Premessa. - 2. Aspetti biblici. - 3. Il pensiero
di S. Tommaso. 4. Le determinazioni del Magistero. – 5. La fede in Cristo è
necessaria alla salvezza? – 6. Può essere ammessa una partecipazione per
ragioni “pastorali” o “ecumeniche”?. Conclusioni.
1. In questi
ultimi tempi, a causa di una malintesa ricerca delle radici cristiane ovvero
del diffondersi di quello che il Venerabile Pio XII chiamava insano «archeologismo
liturgico»(Cfr. Pio XII,
Lett. enc. Mediator Dei, 20 novembre 1947) o anche di un
altrettanto malinteso spirito ecumenista, si è diffuso in molte comunità
cattoliche, guidate talora da liturgisti progressisti o da cattolici à
la page, l’uso di “celebrare” (si fa per dire) riti pasquali alla maniera
ebraica, secondo la ritualità di quella confessione religiosa. Per questo, per
un cattolico sembra logico domandarsi se la partecipazione attiva ovvero la
cooperazione a questo rito e ad altri similari (come, ad es., la circoncisione
o la festa di purim, ecc.), pure d’altre fedi (come ad es., il
ramadan islamico), sia lecita da un punto di vista morale-teologico e canonico.
La risposta che deve
darsi a quest’interrogativo è negativa, nel senso che non è lecito per un
cattolico prendere parte attiva ovvero cooperare a questi riti, pena la commissione
di un peccato (d’apostasia).
Quanto ai riti
rivolti ad idoli, sembra indubbio che abbia valore precettivo ancor oggi quanto
statuisce l’Apostolo delle Genti, che comandava di astenersi dal prendere parte
a sacrifici ad idoli e persino dal consumare le carni offerte in quelle
oblazioni, quantomeno per evitare gli scandali per i più deboli (Cfr. 1
Cor 8, 1 ss.).
Paolo, infatti, si
appellava al buon giudizio dei suoi lettori: prendere parte ad un pasto
sacrificale pagano era (ed è) incompatibile con l’essere cristiano (Cfr. 2
Cor 11, 2). Il banchetto sacro stabilisce una «comunione» con la divinità. Ciò
valeva anche per il culto ebraico: chi si cibava della vittima sacrificata
entrava in comunione con Dio (rappresentato dall’altare). Ancor più ciò avviene
nell’Eucaristia: mangiando il pane spezzato (Cfr. At 2,
42) e bevendo del calice sul quale è stata pronunciata la
benedizione (Cfr. Mc 14, 22 ss. e parr.), il credente comunica al corpo e
al sangue di Cristo (Cfr. 1 Cor 11, 17-34). La
comunione all’unico pane che è Cristo opera a sua volta l’unità dei
credenti (Cfr. 1 Cor 12, 12-27). In un certo senso
qualcosa di simile accadeva nei sacrifici offerti alle divinità pagane: anche
se all’idolo non corrispondeva nella realtà alcun essere divino (Cfr. 1 Cor 8, 4) e benché cibarsi degli idolotiti
fosse per sé cosa indifferente (vv. 23 ss.), dal
momento che gli dèi delle genti sono demoni (Cfr.
Dt 32, 17; Sal 95[96], 5; Is 65, 11), chi partecipava al banchetto sacrificale
del culto pagano entrava in relazione con le potenze malvagie (non certo nel
senso di vera «comunione», giacché si sottometteva alla loro tirannia e al loro
influsso). Dunque, S. Paolo ammoniva, a ragion veduta, i cristiani di Corinto: «non
potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demoni» (1 Cor. 10,
21).
2. Più complessa è la
questione circa la legittimità della partecipazione attiva o la cooperazione ai
riti ebraici, come la Pasqua. È lecito?
Il presidente Obama - che dovrebbe essere cristiano (sebbene non cattolico) - partecipa nel 2010 ad un rito di Pesach alla Casa Bianca. Negli anni successivi ha rinnovato il rito. |
La risposta è, pure
in tal caso, indubbiamente negativa. Non è lecito celebrare un rito - per i
cristiani - ormai abolito e privo d’utilità spirituale (anzi, spiritualmente
dannoso, pure qualora fosse compiuto per “amicizia” o per “rievocazione” o per
finalità latu sensu “culturali”). La ragione di ciò è che questi,
laddove compiuti, sebbene senza riporre in essi alcuna speranza di salvezza,
manifestano una fede contraria a quella di Cristo. In altre parole quel rito
(ed altri analoghi) al quale s’intendesse partecipare implica necessariamente,
attraverso le parole ed i gesti, e dimostrano una credenza che è diametralmente
opposta a quella professata nella fede cristiana: logico corollario è che
s’incorre nell’apostasia.
La fede giudaica, in
effetti, nega a Gesù il ruolo di Messia ed unico Salvatore. Per gli ebrei, il
Messia-salvatore sarebbe ancora da venire.
Se questa è la
credenza ebraica, appare chiaro che se quel rito pasquale, per i
cristiani, è stato sostituito con la celebrazione eucaristica,
che, mistericamente ed in forma incruenta, rinnova il sacrificio della Croce,
dove il Figlio di Dio, vero agnello pasquale, fu immolato per la nostra
salvezza, ne deriva che il celebrare il rito ebraico significa affermare, in
segno, che quel sacrificio della Croce non sia mai avvenuto o sia privo di
valore redentivo. È un anti-segno della fede cristiana, giacché tutti i cibi
consumati nel seder pasquale ebraico assumono valore rituale e
cultuale contrari alla fede professata in Cristo. Così, ad es., le uova sode
esprimono il dolore per la distruzione del Tempio di Gerusalemme da parte di
Tito nel 70 d.C.; distruzione già vaticinata da Gesù (cfr.
Mt 23, 38; 24, 2; Mc 13, 2) e segno inequivocabile della riprovazione, da
parte di Dio, del popolo giudaico per la propria incredula condotta.
Non solo. Va aggiunto
che, nella tradizione rabbinica successiva alla distruzione del Tempio, la
celebrazione memoriale di Pesach ha assunto dei precisi
connotati anti-cristiani e superstiziosi (cfr. A. Toaff, Pasque di sangue – Ebrei
d’Europa e omicidi rituali, Bologna, 2007, p. 149; p. 153 nell’edizione del
2008). Così, ad es., il vino nel Seder pasquale (lett. ordine,
cioè il rigido rituale pasquale ebraico) viene a simboleggiare il sangue
dell’agnello pasquale e della circoncisione: non a caso il Talmud palestinese
associa i quattro bicchieri di vino, che devono essere bevuti obbligatoriamente
durante il rito, ai quattro verbi legati al liberazione d'Israele di cui al cap. XII del libro dell'Esodo. Ancora, il charoset,
cioè la conserva di frutta impastata col vino, che doveva ricordare
nell’aspetto l’argilla e la malta, usate dagli ebrei costretti ai lavori forzati
durante la cattività in terra egizia, assume il significato di «memoriale del
sangue» (ibidem, p. 141; p. 145 nell’edizione
del 2008). Nella lettura tradizionale dell’Haggadah (cioè il
racconto liturgico delle storie di Pesach e su Pesach),
che viene compiuta ad alta voce, inoltre, le maledizioni nei confronti degli
egiziani si trasformano, in talune tradizioni ebraiche, in invettive contro le
nazioni ed i nemici odiati d’Israele, con esplicito riferimento ai cristiani.
Sempre in quelle tradizioni, l’aspersione sulla mensa del vino, surrogato
simbolico del sangue dei persecutori d’Israele, contemporanea alla recitazione
delle piaghe d’Egitto, si richiama alla punizione crudele che sarebbe venuta
dalla «spada vendicatrice» di Dio pure per i nazareni (cioè
per i seguaci di Gesù di Nazaret) (ibidem, pp. 166-167; pp. 170-171
nell’edizione del 2008. L’A., per la verità, ha cura di precisare che il rito
del vino e delle maledizioni è (o era) pratica delle comunità tedesche ashkenazite,
mentre è sconosciuto presso gli ebrei di origine iberica, cioè i sefarditi,
gli italiani e gli orientali).
Elena Flerova, Seder, XIX sec. |
Pur volendosi
“purificare” il rito pasquale ebraico da queste incrostazioni rabbiniche,
va notato, in ogni caso, che quella pasqua (ebraica) così come gli altri riti
giudaici, a ben vedere, prefiguravano e manifestavano la fede in un Messia
(Cristo) venturo e nel suo sacrificio redentivo (v. Gv 8, 56). Leone
XIII notava, in proposito: «Già molto tempo prima che Cristo nascesse, i
sacrifici usati nell’Antico Testamento preannunciavano il sacrificio compiuto
sulla croce» (così Leone XIII, Lett. enc. Caritatis studium ai
vescovi della Scozia, 25 luglio 1898, in Acta Leonis XIII, 18
(1898-99), pp. 110 ss.). Erano, come diceva S. Paolo, «ombra delle cose future» (Col 2, 17), perché essi, spiegava S. Agostino, «allora
significavano ciò che si sarebbe rivelato e che noi recepiamo come già rivelato
affinché, tolta l’ombra, fruiamo della loro pura luce» (S. Agostino d’Ippona, Trattato
contro i giudei, 2, 3). In senso più ampio, per il santo vescovo d’Ippona,
«di quegli uomini [cioè del popolo d’Israele dell’Antico Testamento, ndr.]
fu profetica non solo la lingua, ma anche la vita, e che l’intero regno del
popolo ebraico fu in qualche modo un grande profeta, in quanto profetizzò
qualcuno di grande. … [B]isogna cercare la profezia di Cristo che stava per
venire e della Chiesa non solo in ciò che dicevano, ma anche in ciò che
facevano; riguardo invece agli altri e ai componenti di quel popolo presi
nell’insieme, essa va cercata nei fatti che per volere di Dio accadevano fra
loro o rispetto a loro. Tutte quelle cose, infatti, come dice l’Apostolo, avvennero
come figure per noi (1 Cor 10, 6)» (Id., Contra
Faustum Manichaeum Libri Triginta Tres, XXII, 24).
Pertanto, per i
cristiani, ripetere gli antichi gesti rituali sopra ricordati (o anche
suggerire di ripeterli) significherebbe apostatare, ovvero non
proclamare più la verità che Cristo è venuto ed ha abolito, nel suo sacrificio
redentivo della Croce, i sacrifici antichi. È una negazione della redenzione e
del ruolo di Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo. Persino l’allora card. Joseph Ratzinger, nel suo libro Fede,
verità, tolleranza. Il Cristianesimo e le religioni nel mondo (trad. it. (a
cura di) G. Colombi, Siena,
2003), p. 163, spiegava che «il culto antico non è più in vigore, è stato
abrogato con l’offerta di sé che Gesù ha fatto a Dio e agli uomini».
Per questo, un
cristiano non può partecipare a simili riti: ciò sarebbe un vero e proprio «controsegno». La
Divina Rivelazione, non a caso, a tal proposito, insegna: «parlando di un nuovo
patto, [Cristo] ha reso antico quello di prima: e ciò che si è fatto antico ed
è invecchiato, è vicino a scomparire» (Eb 8, 13). In effetti, scomparirà con la
distruzione del Tempio!
L’ultima Pasqua
mosaica (legittima) fu celebrata da Gesù la sera di quel giorno, vigilia della Parasceve
(il Giovedì Santo). L’indomani, infatti,
avremmo avuto il Vero Agnello, che toglie i peccati dal mondo, immolato sulla
Croce, Gesù stesso.
Tutto nella Scrittura
converge verso questo.
Domenichino, S. Giovanni Battista indica il Cristo quale Agnello di Dio, 1623, Basilica di S. Andrea della Valle, Roma |
Indicativo è che, non a caso, S. Giovanni Battista,
intravedendo Gesù sulle rive del Giordano, lo additasse quale «Agnello di
Dio» (Gv 1, 29. Cfr. 1 Pt 1, 19).
Ciò lo disse alla presenza d’alcuni suoi discepoli, tra cui Giovanni di Zebedeo
(l’evangelista) ed Andrea, i quali, uomini alla ricerca sincera di Dio,
decisero da quel momento, udendo le parole del Battista, dopo un giorno passato
in colloquio con Gesù (cfr. Gv 1, 37-39), di seguirlo.
Anzi andarono dai rispettivi fratelli, Giacomo (il maggiore) e Simon Pietro,
annunciando entusiasti «Abbiamo trovato il Messia» (cfr.
Gv 1, 41).
Jean Jouvenet, Adorazione dell’Agnello mistico, 1680 circa, Musée eucharistique du Hiéron, Paray-le-Monial |
L’espressione «Agnello
di Dio», ripetuta in ogni Messa in quell’Ecce Agnus Dei, rimanda
direttamente alla Pasqua, perché? Isaia, nei suoi vaticini sul “Servo di Jahvé”,
preannunciava che il Messia sarebbe stato «come agnello condotto al macello,
come pecora muta di fronte ai suoi tosatori» (Is 53, 7) ed
invocava: «Manda, o Signore, l’Agnello dominatore della terra» (Is 16, 1).
Ancor prima, vi era
stato Mosè: quando gli Ebrei dovettero uscire dal Paese d’Egitto (simbolo della
morte, della schiavitù, del peccato) per raggiungere la
Terra promessa (simbolo del regno di Dio, della vita eterna), attraverso
il Mar Rosso (simbolo del battesimo nella Passione di Cristo), nutrendosi della
manna (simbolo dell’Eucaristia) ed abbeverandosi all’acqua dalla roccia
(simbolo del Sangue di Cristo, vera bevanda), Dio chiese al suo servo Mosè, per
evitare l’ultima piaga, l’ultimo castigo divino, che dava la morte ai primogeniti
– giacché la morte (spirituale e fisica) è il salario del peccato (Rm 6, 23; 1 Cor 15, 56) –, che gli ebrei immolassero
gli agnelli maschi e ponessero il loro sangue sugli stipiti delle porte in
segno di croce o di tau e ne mangiassero le carni
arrostite (Es 12, 3-10.21-27. Cfr. anche Ez 9,
3-4). Perciò, quando Giovanni indicò in Gesù l’Agnello di Dio, la cui
espressione in aramaico è la stessa di Servo di Dio, tutti i
presenti capirono che era Lui quell’agnello misterioso prefigurato dall’Esodo.
Francisco de Zurbarán, Agnus Dei, 1635-40, museo del Prado, Madrid |
Lattanzio scriveva a
tal proposito: «Quando i primogeniti degli egiziani in una notte perirono, i
soli ebrei restarono incolumi nel segno del sangue. Non perché il sangue di un
animale avesse in se tanta virtù, da dare la salute agli uomini, ma perché era
immagine delle cose future. L’agnello candido e senza macchia era infatti
Cristo, innocente, giusto e santo, il quale immolato dai giudei, è divenuto
salute a quanti segnano la loro fronte col segno del sangue, col segno della
croce, strumento del suo martirio» (Lattanzio, Divinarum
Institutionum libri septem, lib. IV, c. 26, in PL, 6, col.
530B-531A). Un insigne teologo, l’abate benedettino Ruperto di Deutz
(1075-1129), nella prima metà del XII sec., esclamava: «L’agnello, che in
figura di te (o Gesù) fu ucciso in Egitto, redense nel suo
sangue quel popolo ... o meglio, tu, o Signore, agnello dominatore, lo
redimesti con redenzione figurativa, mediante l’immolazione dell’agnello; tu
che ora hai redento noi a Dio, da te stesso nel tuo proprio sangue, ed in modo
che il tuo sangue, sparso per noi, preso dal sacramento del battesimo,
s’imprima in forma dì croce sulle nostre fronti» (Abate Ruperto, In
Apocalypsim Joannis Apostoli Commentariorum libri XII, 1, IV, c. 5, in PL 169,
col. 933).
Per questo motivo già
s’intravede, in filigrana, nelle parole del Battista, il mistero di Gesù
Crocifisso e Risorto, che l’evangelista Giovanni, nell’Apocalisse, presenterà
costantemente come l’Agnello sgozzato (immolato in sacrificio per noi), ma
ritto in piedi (in quanto risorto), che domina la storia ed il creato, quale Re
dei re e Signore dei signori (Cfr. Ap 5, 7-13; 14,
1; 17, 14).
Non desta alcuna
meraviglia, pertanto, se S. Francesco, non perché “animalista” ante
litteram, si commuovesse quando vedeva gli agnelli, bensì perché vi
scorgeva in essi un’immagine di Gesù, il suo Redentore (cfr.
sul punto G. Vignelli, San
Francesco antimoderno. Difesa del Serafico dalle falsificazioni progressiste,
Verona, 2009, pp. 52-53).
Per questo – come ricorda S. Bonaventura nella sua Legenda
Major - non esitava a riscattarli, con il dono del suo mantello, al fine di
impedirne la vendita e l’uccisione, in quanto quelle bestiole condotte al
macello gli rammentavano Gesù condotto sul Golgota (FF 1145-1147, 1149). Arrivò
persino a presentarsi - dopo aver acquistato un agnello destinato al macello -
al vescovo di Osimo, nella Marca di Ancona (FF
456-457)! Analogo affetto nutrirono – per la stessa ragione del Santo di Assisi
– pure altri Santi come S. Francesco di Paola per l’agnello Martino o Martinello,
che richiamò alla vita dopo che dei muratori lo avevano divorato gettandone le
ossa e la pelle nella fornace per la calce.
Scuola di Pietr Paul
Rubens, S. Francesco d’Assisi con un agnello, 1635, Musée des Beaux-Arts, Strasburgo |
S. Francesco di Paola e Martinello |
Lo stesso dicasi anche per S. Camillo
de Lellis, che aveva un agnello chiamato pur esso Martino.
Pascha nostrum immolatus est
Christus, esclamava S. Paolo (1 Cor 5, 7). La nostra Pasqua è
Cristo immolato. È quanto la Chiesa cattolica, nella sua liturgia,
canta, durante la veglia pasquale, nel Preconio o Solenne
annuncio di Pasqua o inno dell’Exsultet: «Haec sunt
enim festa paschalia, in quibus verus ille Agnus occiditur, cuius sanguine
postes fidelium consecrantur»; «Questa è la vera Pasqua, in cui è
ucciso il vero Agnello, che con il suo sangue consacra le case
dei fedeli».
Calcara dove S. Camillo risucitò l'agnello Martino, Bucchianico |
È finita per
sempre la Pasqua dell’Antico Testamento, dopo il Sacrificio di
Cristo; quell’agnello non ha più senso, in quanto l’Agnello vero è presente dal
Venerdì Santo ed è Gesù. «Prendete e mangiate tutti, … prendete e bevetene tutti
…»: questa è la nostra Pasqua che è offerta sugli altari ogni giorno (cfr.
Rm 3, 23-25; Eb 10, 9-10).
Per bocca, pertanto,
del vescovo e martire S. Ignazio d’Antiochia, la venerabile Tradizione
afferma lapidariamente: «Gettate via il cattivo fermento, vecchio e inacidito,
e trasformatevi nel nuovo che è Gesù Cristo» e che «è assurdo confessare Gesù
Cristo e vivere da Giudei» (S.
Ignazio d’Antiochia, Lettera ai cristiani di Magnesia, cap.
10, 1).
3. Dopo aver
riflettuto sul significato biblico-teologico per un cristiano della Pasqua ebraica e sui motivi per i quali i cristiani non debbano celebrare o partecipare alla festa giudaica, non si può far a meno di riportarci a S. Tommaso, il maggiore dei
teologi della Chiesa.
Questi, nella
sua Summa Theologica, nel trattato “Sulla legge”,
s’interroga «se le cerimonie dell’antica legge siano cessate con la venuta di
Cristo».
Si pone
quest’interrogativo, giacché sembrerebbe, secondo la Scrittura, che i
precetti legali divini siano eterni (cfr. Bar 4, 1). L’Angelico Dottore,
da fine teologo qual era, puntualizza innanzitutto che «tutti i precetti
cerimoniali della legge antica sono ordinati al culto di Dio».
Chiarisce, quindi,
che: «nello stato dei beati non ci sarà niente di figurativo in ciò che
riguarda il culto divino, ma soltanto “azione di grazia e voce di lode” (Is.
51, 3). Perciò, a proposito della città dei beati, si dice nell’Apocalisse (21,
22): “Non vidi alcun tempio in essa perché il Signore Dio, l’Onnipotente e
l’Agnello sono il suo tempio”. Dunque per lo stesso motivo, dovettero
cessare le cerimonie del primo stato [cioè quelle dell’Antico
Testamento, ndr.], attraverso le quali veniva prefigurato sia il
secondo sia il terzo stato [secondo stato = venuta di Cristo, mentre
il terzo stato è la condizione di beati post mortem, ndr.],
con la venuta del secondo stato; e si dovettero introdurre
altre cerimonie che fossero appropriate allo stato del culto divino di quel tempo,
nel quale i beni celesti rimangono futuri, ma i benefici di Dio attraverso i
quali siamo introdotti ai beni celesti, sono già presenti» (S. Tommaso d’Aquino, Summa
Theologica, Iª-IIae, q. 103, a. 3, co.).
S. Tommaso riprende l’episodio
evangelico, verificatosi il Venerdì Santo, dello squarcio del velo del
Tempio (Mt 27, 51; Mc 15, 38; Lc 23, 45. Cfr. anche S. Leone Magno, Sermo 61, De
Passione Domini, X, cap. 5), che rappresentò in modo visibile che l’Antica
Alleanza era cessata con la Passione e Morte di Gesù. Quello fu il segno
tangibile che Dio uscì dalla sua dimora, conservata nel Sancta Sanctorum del
Tempio. Con la dipartita di Dio, l’Antica Legge ed i relativi precetti legali
cessarono, divenendo non già fonte di grazia, ma di dannazione eterna.
Spiega l’Aquinate:
«il mistero della redenzione del genere umano giunse a compimento nella passione
di Cristo; infatti il Signore disse allora: “Tutto è compiuto” (Gv. 19,
30). Ecco perché da allora dovevano cessare tutte le norme legali, essendo
ormai presente la verità il cui compimento esse annunziavano. E di ciò si ebbe
un segno nella passione di Cristo, quando il velo del tempio si squarciò (Mt.
27, 51). Quindi prima della passione di Cristo, quando lui li predicava e
faceva miracoli, erano in vigore insieme la legge e il Vangelo, poiché il
mistero di Cristo era già iniziato, ma non ancora compiuto. E per questo il
Signore, prima della sua passione, comandò al lebbroso di osservare le
cerimonie legali» (S. Tommaso
d’Aquino, Summa Theologica, Iª-IIae, q. 103, a. 3,
ad 2).
Nell’articolo
successivo, S. Tommaso s’interroga su una questione di capitale importanza: se
cioè, dopo la Passione di Cristo, le cerimonie legali si possano
osservare senza incorrere in un peccato mortale. È il caso proprio dei giudei moderni
che, increduli, considerano ancora validi i precetti veterotestamentari,
ma anche di quei sedicenti cattolici detti giudaicizzati, che,
per un frainteso “spirito di fratellanza”, si adeguano anch’essi a celebrare
quei riti.
Subito, il padre dei
teologi precisa che «di contro vi è quello che dice l’Apostolo nella Lettera
ai Galati (5, 2): “Se vi farete circonciderete, Cristo non vi gioverà
a nulla” [questione assai dibattuta nel primo Concilio di Gerusalemme, ndr.].
Ma niente esclude dal frutto di Cristo, se non il peccato mortale. Dunque
essere circoncisi e osservare altre cerimonie, dopo la passione di Cristo è
peccato mortale» (ibidem, a. 4, s.c.).
Se già ciò non fosse
eloquente, S. Tommaso puntualizza ancora che «tutte le cerimonie sono modalità
di professare la fede, nella quale consiste il culto interiore di Dio» (ibidem,
co.).
Aggiunge che
« … le cerimonie della legge antica indicavano il Cristo che
doveva ancora nascere e patire. I nostri sacramenti invece indicano il Cristo
già nato e immolato. Perciò, come peccherebbe mortalmente chi ora, professando
la sua fede, dicesse che Cristo deve nascere, cosa che gli antichi in maniera
pia e veritiera dicevano, allo stesso modo anche peccherebbe mortalmente, colui
che ora osservasse le cerimonie che gli antichi osservavano con pietà e con
fede» (ibidem).
Il Doctor
Angelicus è chiarissimo: pecca mortalmente chiunque, oggi,
professando la fede di Cristo, osservasse le cerimonie antiche. E ciò a
prescindere dalle sue intenzioni: la cerimonia, il rito, infatti, costituisce
di per sé professione di una fede. Il compimento di un rito – di là dalle
intenzioni – manifesta una fede in un Cristo venturo, quando, invece, Egli
è già venuto; rappresenta un atto d’apostasia e, quindi, un peccato mortale
contro la fede.
A ragione, per tale
motivo, scriveva Tertulliano nel De idolatria: «Lo Spirito Santo
condanna i giorni festivi dei giudei: è detto: (Is 1, 13-15) l’anima mia ha in
odio i vostri Sabati, la ricorrenza del novilunio e le cerimonie in uso presso
di voi; e d’altra parte noi a cui sono estranei i Sabati giudaici, i noviluni e
i giorni festivi, pure una volta cari a Dio, frequenteremo poi i Saturnali, le
feste alle Calende di Gennaio, all’inizio dell’inverno e le Matronali?» (Tertulliano, De
idolatria, XIV).
Aggiungeva, sebbene
alludendo ai pagani (ma il discorso può essere esteso agli ebrei): «per
quanto i pagani conoscano queste nostre feste, non si unirebbero con noi né
nelle Domeniche né nella Pentecoste: essi temerebbero di essere scambiati per
cristiani e noi invece non temiamo d’esser presi per pagani» (ibidem).
Ciò che dice è ovvio:
la partecipazione attiva a riti pagani o anche ebraici implica la
partecipazione pure alla loro incredulità, così come ricordava S. Paolo.
Anzi, quella allusa
dall’apologeta cristiano può dirsi sia la “prova del nove”. Basterà chiedere ad
uno qualsiasi degli appartenenti ad un’altra fede (ad es., un ebreo o un musulmano)
di partecipare all’Eucaristia cattolica, che egli n’aborrirà solo l’idea,
giacché – giustamente – dal suo punto di vista ravviserà in tale atto –
quand’anche dettato da ragioni di cortesia o di amicizia – un chiaro segno
d’apostasia dalla propria credenza religiosa.
Dal punto di vista
cattolico, perciò, non desta meraviglia se si sia sempre rimarcato questo
profilo, perfino distinguendo nettamente le festività in giorni diversi. Così,
a titolo esemplificativo, S. Pio I, proprio al fine di
contraddistinguere la Pasqua cristiana da quella ebraica, la portò la
domenica successiva il plenilunio di primavera (Cfr. Pius I, Epistola Omnibus ecclesiis,
Ut in Die Dominico Pascha Celebretur, del 7 aprile 146 d.C., in PG
5, col. 1119 ss.), stigmatizzando così la pratica del c.d. quartodecimanismo,
che voleva che si celebrasse la Pasqua il 14° giorno del mese
di Nisan indipendentemente dal giorno della settimana in cui
capitava e non la domenica successiva.
Qui sorge, tuttavia,
una difficoltà. I primi Apostoli, pur dopo la Pentecoste, frequentavano il
Tempio. Gli Atti attestano che «ogni giorno tutti insieme frequentavano il
Tempio» (At 2, 46). Così facendo essi si
sottoponevano ancora ai precetti della legge antica.
Per risolvere la
questione, S. Tommaso esamina il pensiero di due “colossi” della fede: S.
Girolamo e S. Agostino. Per il primo, si trattava di “simulazioni”, di finzioni
compiute al fine di non scandalizzare i giudei e favorirne la conversione.
Essi, pertanto, secondo S. Girolamo, compivano quei riti non quali prescrizioni
legali.
Diverso era il
pensiero di S. Agostino, a cui l’Aquinate aderisce, «sembrando … poco
conveniente che gli apostoli nascondessero, per paura di creare scandalo, le
cose riguardanti la verità della vita e della dottrina e che simulassero su
cose riguardanti la salvezza dei fedeli» (S.
Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, Iª-IIae,
q. 103, a. 4, ad 1).
In effetti, «in
maniera più appropriata S. Agostino distinse tre tempi. Il primo, precedente
alla passione di Cristo, in cui le cerimonie legali non erano né mortifere e né
morte. Un altro, posteriore alla divulgazione del Vangelo, in cui le
cerimonie legali sono sia mortifere sia morte. Il terzo poi è un tempo
intermedio, che va dalla passione di Cristo alla divulgazione del Vangelo, nel
quale le cerimonie legali erano morte, poiché non avevano più alcuna forza e
nessuno era tenuto ad osservarle, ma tuttavia non erano mortifere, poiché
quelli che si erano convertiti alla fede in Cristo dal giudaismo potevano
osservarle in maniera lecita, purché non riponessero in esse la loro speranza,
credendo che esse fossero necessarie alla salvezza, quasi come se senza tali
precetti, la fede in Cristo non potesse giustificare. Per quelli poi che si
convertivano dal paganesimo non c’era nessun motivo di osservarle. Ecco perché
Paolo circoncise Timoteo, che era nato da madre ebrea; mentre non volle
circoncidere Tito, che era nato da genitori pagani. Lo Spirito Santo non volle,
in tal modo, che fosse proibito subito l’osservanza delle cerimonie legali a
coloro che si convertivano dal giudaismo, come invece era proibito a coloro che
si convertivano dal paganesimo, continuare a svolgere i loro riti, in modo da mostrare
la differenza esistente tra i riti del giudaismo e quelli del paganesimo.
Infatti i riti pagani venivano ripudiati come assolutamente illeciti e sempre
proibiti da Dio; invece i riti della legge antica, istituiti da Dio per
prefigurare il Cristo, cessavano perché adempiuti nella passione di Cristo» (ibidem).
Dopo l’annuncio
evangelico, compiuto dai primi apostoli, perciò, quelle prescrizioni
legali sono morte e mortifere per i cristiani
che avessero in animo di seguirle. Pure oggi.
Puntualizza il
Dottore Angelico: «i precetti cerimoniali sono abrogati al punto da essere non
solo morti ma anche mortiferi per chi li
osserva dopo la venuta di Cristo e, soprattutto, dopo l’annunzio del Vangelo»,
in quanto «i precetti cerimoniali sono figurativi primariamente e per se stessi,
perché istituiti principalmente per rappresentare i misteri di Cristo come
futuri. Perciò la loro stessa osservanza pregiudica la verità della fede,
secondo la quale confessiamo che codesti ministeri sono già compiuti» (ibidem, q. 104, a. 3 co.).
La legge antica, come
attesta S. Paolo, è stata «pedagogo» che doveva condurre a Cristo. Ma giunto a
noi il Cristo, «non siamo più sotto un pedagogo» (Gal 3, 24-25).
Dopo Cristo (e salvo
il periodo intermedio, come segnalato), quindi, gli antichi precetti non hanno
più alcuna valenza. Dell’Antica Alleanza cosa resta?
Essenzialmente il
Decalogo, in quanto «i precetti del decalogo differiscono dagli altri precetti
della legge per il fatto che i primi furono dati al popolo da Dio stesso, gli
altri invece furono dati al popolo per mezzo di Mosè» (S. Tommaso d’Aquino, Summa
Theologica, Iª-IIae, q. 100, a. 3 co.).
Per questo, «i
precetti del decalogo contengono l’intenzione stessa del legislatore, cioè di
Dio. …. perciò dall’osservanza di essi non si può in nessun modo essere dispensati» (ibidem,
a. 8 co.).
... Continua ....
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