Le
grandi cerimonie della settimana pasquale, come gli antichi
chiamavano questo solenne settenario che stiamo per iniziare, nel
medio evo si compivano di regola presso la residenza pontificia nel classico
palazzo dei Laterani. Perciò anche la
processione degli olivi e l’odierna messa stazionale si celebrano oggi nella
veneranda basilica del Salvatore, trofeo permanente delle vittorie del
Pontificato Romano sull’idolatria, sulle eresie e su tutte le porte infernali
che da oltre diciannove secoli congiurano a danno della Chiesa e sempre sono
respinte e vinte. Non prævalebunt adversus
eam, ha
detto Gesù, e passerà il cielo e la terra prima che venga meno una
sillaba del labbro del Salvatore.
Nel
tardo Medioevo talora l’odierna stazione, a volontà del Papa, si celebrava in
Vaticano, ed allora la benedizione delle palme aveva luogo nella chiesa di
Santa Maria in Turri, che sorgeva nell’atrio della basilica.
La
benedizione delle palme ci conserva l’antico tipo delle sinassi aliturgiche, di
quelle adunanze cioè, come la recita del divin ufficio, l’istruzione dei fedeli
ecc., in cui non seguiva l’offerta del divin Sacrificio. Questo tipo di sinassi
deriva dall’uso giudaico nelle sinagoghe della diaspora, ed entrò nel rituale
cristiano sin dall’evo apostolico.
La
processione coi rami d’olivo deriva dall’uso gerosolimitano, quale ci descrive
la pellegrina Eteria verso la fine del IV sec. (cfr., per informazioni, Egeria, Diario di viaggio, n. 31, 1-2). Da principio in occidente si
tenevano i ramoscelli in mano durante la lettura del Vangelo; nelle Gallie
cominciò a darsi una speciale benedizione, non già ai rami, ma a chi prestava
tale atto d’ossequio alla parola evangelica. Si aggiunse la processione prima
della messa, che venne a conferire una pompa ed un’importanza speciale ai
ramoscelli, i quali finirono per essere alla loro volta santificati dalla
benedizione sacerdotale (Schuster,
Liber Sacramentorum,
III, p. 178).
Secondo
gli Ordines
Romani
del XIV sec., le palme erano dapprima benedette dal cardinale di San Lorenzo,
poi trasportate, dal clero, all’interno del Patriarchium, nell’oratorio di San Silvestro, dove gli
accoliti della basilica Vaticana avevano il compito di farne la distribuzione
al popolo. Quanto alla distribuzione delle palme al clero, essa era svolta dal
Pontefice in persona nella sala del triclinium
di Leone IV, dove partiva oggi la processione che si dirigeva verso la chiesa
stazionale del Salvatore.
Quando
il papa era giunto sotto il portico, si sedeva in trono e mentre le porte della
chiesa rimanevano ancora chiuse, il primicerio dei cantori ed il priore della
basilica, alla testa del loro personale di servizio, intonavano l’inno Gloria, laus, etc.
prescritto ancora oggi nel messale tradizionale. Infine, si aprivano le porte
ed il corteo faceva il suo ingresso trionfale nella basilica del Salvatore, per
cominciare, con la messa, il grande dramma della Redenzione degli uomini. Il
papa prendeva i paramenti sacri nel secretarium,
ma, per indicare la tristezza funebre che riempiva tutta la liturgia di questa
settimana, i basilicarii omettevano in questo
giorno di tendere sul capo del Pontefice la mappula tradizionale, o baldacchino, che era uno dei
segni di rispetto e di venerazione presso gli antichi.
La
lettura di san Matteo, che si svolge durante il rito della benedizione fatta in
questo giorno, racconta l’ingresso solenne di Gesù nella Città santa (21, 1-9)
ed era già indicato dalla liturgia di Gerusalemme sin dalla seconda metà del IV
sec. Secondo la profezia di Zaccaria, il Redentore sarebbe entrato nella Città
santa assiso su un asinello, per simbolizzare il carattere dolce e benigno della
sua prima apparizione messianica.
L’asina
ed il suo puledro, che secondo il Vangelo, si trovavano legati alle mura del
villaggio vicino al monte degli Ulivi, da cui furono liberati dagli apostoli e
condotti a Gesù, rappresentano il popolo dei Gentili, esiliato dalla patria di
Abramo, diseredato dal patrimonio di Israele, istupidito dall’idolatria. Agli
apostoli è affidato l’incarico di liberarlo dagli errori e condurlo al
Salvatore.
Secondo
l’uso della liturgia romana, quando si tratta di preghiere di importanza
speciale, la colletta seguente viene a preludere all’anafora consacratoria dei
rami. Essa è, dunque, parallela alla secreta, che precede il prefazio della
messa.
Questa
preghiera, di un gusto squisito e di una pietà così profonda, esplica molto
bene il simbolismo della processione che si va a svolgere e determina la
ragione per la quale si è letta la pericope dell’Esodo, in cui si parla dei
settanta palmizi. La palma si dona al vincitore e colui che esce indenne dall’Egitto
può ben meritare la gloria del trionfo.
Dopo
questa, viene l’anafora, che, secondo il suo significato originario, è oggi un
vero canto eucaristico, un inno di lode e di azione di grazia a Dio per la sua
infinita santità e la delicatezza della sua misericordia verso gli uomini.
Segue
una serie di collette di sapore assai antico e di ispirazione molto elevata, in
cui pare quasi che la Chiesa voglia sfogare tutto il suo amore verso il
Redentore. Queste differenti preghiere costituivano originariamente una serie
di collette di ricambio; oggi, al contrario, la cerimonia è divenuta molto
prolissa, poiché tutte queste diverse formule di benedizione, prefazio,
colletta, ecc., che, all’inizio, si sostituivano l’una all’altra, o piuttosto
si escludevano l’un l’altra, fanno parte integrante, nel messale prima della
riforma di Pio XII, della cerimonia della benedizione delle palme. Ne è uscita
una funzione molto pietosa, in verità, ma forse senza proporzione né armonia,
che rivela la sua tardiva introduzione nella liturgia romana.
Quindi
il sacerdote asperge i rami con l’acqua santa e li incensa.
Segue
la distribuzione delle palme o dei rami d’ulivo benedetti, durante la quale il
coro dei cantori esegue alcune antifone, ispirate ai Vangeli.
Dopo
la distribuzione, si recita la colletta.
Ha
quindi luogo la processione e sebbene oggi essa abbia un significato speciale
ed antico che richiama l’entrata trionfale di Gesù a Gerusalemme, essa è
tuttavia una vestigia dell’antica processione stazionale e domenicale, che, nel
Medioevo, nelle abbazie benedettine in particolare, precedeva regolarmente la
messa.
Durante
il percorso, il coro esegue delle antifone.
Dopo
questa, viene l’inno Gloria, laus,
etc., con la cerimonia per la quale il suddiacono batte alle porte del tempio
per farle aprire al corteo. Quanto al rito, Roma non conobbe se non molto tardi
questa cerimonia; quanto al simbolo, i due cori che si rispondono
reciprocamente, dentro e fuori del tempio, rappresentano la lode divina che fa
alternare la Chiesa trionfante e quella militante.
Dopo la processione ha
inizio la messa, che tuttavia ha un carattere tutto differente da quella della
benedizione delle palme ed è in relazione più intima con la liturgia dei giorni
precedenti. In effetti, mentre le preghiere e le antifone riportate più sopra
acclamano il Redentore come trionfatore della morte e del peccato, la messa
stazione, di ispirazione interamente romana, considera piuttosto i suoi intimi
sentimenti di profondo annientamento, di umiliazione e di dolore, in tanto che
vittima di espiazione per i peccati del mondo.
La santa liturgia di
questi giorni non separa il ricordo della passione del Salvatore da quello dei
trionfi della sua resurrezione – ed è questa la ragione del titolo antico di Hebdomada paschalis dato un tempo a questa
settimana e delle menzioni frequenti della santa resurrezione che si presentano
nella messa e nell’ufficio divino, tanto oggi che il venerdì santo. In effetti,
se il Pascha
nostrum immolatus Christus (1 Cor. 5, 7) comincia la sera del giovedì santo e si
protrae nella parasceve, ha tuttavia il suo vero compimento nel mattino della
resurrezione, allorché Colui che era mortuus propter delicta nostra, resurrexit propter iustificationem nostram (cfr. Rom. 4, 25).
Per gli antichi, il Paschale Sacramentum
comprendeva questo triplice mistero, in modo che, anche il venerdì santo, in
presenza del Legno adorabile della Croce, annunciavano già le glorie del
Salvatore resuscitato: Crucem Tuam adoramus ... et sanctam resurrectionem tuam laudamus et
glorificamus.
La colletta è d’una
squisitezza di composizione che rivela l’aureo periodo della liturgia romana.
Ecco qui spiegato tutto
il significato del sacro rito che dovrà compiersi durante questa settimana.
Gesù crocifisso è come un libro nel quale l’anima legge tutto quello che Dio
desidera da lei per divenir santa. La frase della colletta: patientiæ ipsius habere documenta perde molto in energia
quando viene tradotta in italiano. Essa significa che dobbiamo realizzare nella
nostra vita quelle lezioni di sofferenza e di espiazione che Gesù c’impartisce
dalla cattedra della croce. Viene infine la speranza della risurrezione, che la
Chiesa non vuol mai disgiunta dalle sofferenze del Golgota (Schuster, op. cit., p. 187).
La
lettura del Vangelo secondo san Matteo contiene tutto il testo della passione
del Signore (26-27), dall’ultima Cena con gli apostoli sino all’apposizione dei
sigilli al sepolcro. La scelta di questa lettura evangelica è molto antica per
Roma, poiché ci è attestata dagli Ordines
de IX sec.
Il crocifisso deve
insegnarci soprattutto tre cose: la prima, quanto grande sia stato l’amore che
tutta l’augusta Trinità ci ha portato, sino a sacrificare per noi Gesù, l’Unigenito
di Dio; in secondo luogo, che orribile cosa è il peccato, il quale non ha
potuto essere espiato se non con l’atrocissima morte del Salvatore; in terzo
luogo, quanto valga la nostra anima, che non ha potuto essere riscattata ad un
prezzo inferiore che non fosse il sangue di Gesù. San Paolo concludeva così la
meditazione sulla passione di Gesù: Empti enim estis pretio
magno; glorificate et portate Deum in corpore vestro (1 Cor. 6, 20).
Anthony van Dyck, Entrata di Gesù a Gerusalemme, 1617 circa, Indianapolis Museum of Art, Indianapolis |
Pedro Orrente, Ingresso di Gesù a Gerusalemme, 1620 circa, Hermitage, San Pietroburgo |
Jean-Hippolyte Flandrin, Ingresso di Gesù in Gerusalemme, 1842-48, Santuario di St-Germain-des-Prés, Parigi |
Jean-Léon Gérôme, Ingresso di Gesù in Gerusalemme, 1897, musée Georges-Garrett, Vesoul |
Tom Dubois, Lamb of God o Hosanna, XX sec. |
Enrique Simonet, Flevit super illam, 1892, Museo de Bellas Artes, Málaga |
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