venerdì 24 aprile 2015

A che serve il Battesimo? Ovvero la vera fratellanza in Cristo ed il battesimo di sangue

Due fatti di cronaca recente hanno posto l’attenzione su chi debba intendersi come “fratello della fede e figlio di Dio”.
Cominciamo dal fatto più recente.
Il 22 aprile, il vescovo di Bari si è incontrato con alcuni copti ed islamici per meditare, o pregare, per le vittime del naufragio poco al largo delle coste libiche lo scorso sabato notte (cfr. Corriere del mezzogiorno, 22.4.2015).
Il vescovo barese, parato da serioso impiegato, non è nuovo a simili iniziative, in stile media-ecumenical (v. qui).
Non è questo, però, il punto.
Non si sta facendo una questione del suo stile … . Ma del fatto che, intervistato al TG3 Regionale della Puglia, si sia spinto ad affermare che i musulmani «sono nostri fratelli e figli di Dio». In una precedente ed analoga occasione dell'ottobre scorso aveva affermato che cristiani e musulmani sono «fratelli nella fede e figli dello stesso Dio».
Ci stupisce che un vescovo ignori che la Rivelazione e cioè che la figliolanza di Dio, propriamente detta, non venga né dalla carne né dal sangue, ma sia una grazia di Dio, richiedendo che sia ricevuta il battesimo. Basta soffermarsi al celebre Prologo di Giovanni per rendersi conto di questa Verità, giacché l’Evangelista afferma «quotquot autem receperunt eum, dedit eis potestatem filios Dei fieri, his qui credunt in nomine eius» (Johan. 1, 12). Per cui, asserire che cristiani e musulmani siano figli dello stesso Dio è quantomeno temerario.
A meno che non avesse voluto intendere – in maniera infelice – che i cristiani ed i musulmani in quanto uomini e, dunque, creature, abbiamo un medesimo Creatore. Ma se era questo il senso, allora l’espressione, a nostro avviso, andava detta meglio dal Pastore barese.
Riguardo all’altra, cioè “fratelli nella fede” l’espressione anche qui è equivoca.
Pure qui non avremmo avuto nulla da obiettare se l’espressione fosse riferita non alla fede, ma volesse indicare la generica fraternità universale, che deriva direttamente dalla comune discendenza di tutti gli uomini da Adamo ed Eva.
Se così non fosse e cioè se il vescovo barese avesse voluto intendere in senso proprio l’espressione “fraternità di fede”, le cose cambiano.
Se non erriamo, i Padri della Chiesa avevano affermato che potevano definirsi fratelli nella fede solo quelli che facevano professione di fede nella stesso Dio (Triuno) e potevano recitare il “Padre nostro”.
Spiegava S. Agostino che se siamo fratelli (nella fede), «invochiamo uno stesso Dio, crediamo in uno stesso Cristo, sentiamo lo stesso Vangelo, cantiamo gli stessi salmi, rispondiamo lo stesso Amen, ascoltiamo lo stesso Alleluia e celebriamo la stessa Pasqua» (En. in Ps. 54, 16).
Aggiungeva S. Cipriano, con riferimento alla preghiera del Pater: «Il Padre Nostro è per noi una preghiera pubblica e comune e, quando preghiamo, non preghiamo per uno soltanto, ma per tutto il popolo, perché tutto il popolo è uno» (De Oratione Dominica, 8). Significativamente l'Istruzione del Sant’Offizio del 20 dicembre 1949 all'episcopato cattolico sul “movimento ecumenico” affermava: «Benché in tutte queste riunioni e conferenze si debba evitare qualsiasi communicatio in sacris, però non è proibita la recita comune del Padre Nostro, o di una preghiera approvata dalla Chiesa cattolica con cui le stesse riunioni vengono aperte e chiuse» (A.A.S., 1950, pp. 142 ss).
In effetti, il santo Dottore d’Ippona chiamava gli eretici donatisti "fratelli", perché confessavano «l'unico Cristo» e si trovavano, loro malgrado, «in un solo corpo, sotto un unico capo», facendo parte dell'unica Chiesa indivisibile, nonostante i limiti e le divisioni della Chiesa visibile. Per cui, concludeva S. Agostino, parlando dei “fratelli donatisti”, che questi «Cesseranno di essere nostri fratelli, allorché avranno cessato di dire: Padre nostro» (En. in Ps. 32, 3, 29, en. 2).
Dunque, il vescovo barese avrebbe dovuto domandarsi – se avesse inteso riferirsi ad una fratellanza nella fede – se gli appartenenti all’islam invochino Dio con la preghiera del Padre nostro. Oppure egli avrà pensato che l’islam sia una sorta di appendice eretica del Cristianesimo così com’era intesa nel Medioevo. Non a caso Dante pone nella sua Commedia la figura di Maometto tra gli scismatici, rappresentando l’islam come un’eresia del Cristianesimo. Ma si tratta di una visione ampiamente superata dalla storiografia … .
Il secondo episodio a cui vorremmo far riferimento è correlato al martirio dei cristiani etiopi di cui abbiamo già parlato alcuni giorni fa.


Si è appreso che, tra gli stessi, vi sarebbe stato un musulmano. Questi avrebbe accettato di unirsi – nella morte – con i cristiani, morendo da apostata dell’islam.
Abbiamo detto “musulmano” (ed i media buonisti hanno parlato di “giusto nell’islam”, sic!), ma in verità avremmo dovuto parlare di un vero e proprio cristiano, che, con la sua morte, ha ricevuto il suo battesimo di sangue (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1258). Infatti, questa persona sarebbe morta da “apostata dall’islam”, per i cristiani, con i cristiani, per la stessa ragione dei cristiani, a causa dei cristiani e nello stesso contesto dei cristiani. Non consta che, morendo, abbia fatto professione di fede nell’islam. Per cui, possiamo ritenere – in base alle circostanze – che egli sia morto da martire cristiano, conseguendo la corona incorruttibile, così come morirono, durante l’epoca delle persecuzioni, alcuni martiri – che oggi noi veneriamo – i quali, pagani, all’ultimo momento, si aggregavano al gruppo di cristiani votati a morire, decidendo di morire con loro, per loro e nello stesso loro contesto.
Questa è la vera fratellanza. Nella fede, per la quale la Chiesa canta: «Hæc est vera fratérnitas, quæ vicit mundi crímina: Christum secúta est, ínclita tenens regna cæléstia». Né vale affermare che il presente caso sia analogo a quello del prof. Mahmoud Al ‘Asali, poiché – in quest’ultima vicenda – proprio le circostanze non consentono di affermare che lo stesso sia stato ucciso con i cristiani, nello stesso contesto dei cristiani e quale apostata dall’islam!
Il titolo dell'articolo, che riporta la notizia, perciò suona alquanto discutibile.


È musulmano, ma sceglie di morire con i cristiani


Tra gli etiopi uccisi in Libia dall’Is c’era anche Jamal Rahman: si sarebbe offerto come ostaggio per non abbandonare un amico. Lo racconta il Pime

DOMENICO AGASSO JR

ROMA. Era anche lui tra i 28 etiopi uccisi (decapitati) dall’Isis in Libia e mostrati nell’ennesimo video dell’orrore di Al Furqan, la macchina della propaganda del califfato. È stato ucciso pure lui, Jamal Rahman, migrante, sebbene fosse di famiglia musulmana. Perché? Perché si sarebbe offerto come ostaggio per non lasciare solo un amico cristiano.
È una storia raccontata da Giorgio Bernardelli su MissionLine, rivista del Pontificio Istituto Missioni estere (Pime). A confermare la notizia «è stata una fonte del tutto insospettabile: un miliziano degli al Shabab, i fondamentalisti islamici della Somalia».
Su questa vicenda ci sono due versioni di spiegazione: una riferita da «un quotidiano on-line del Somaliland»: sostiene la «stranezza» dicendo che «si era convertito al cristianesimo durante il viaggio»; l’altra, che il Pime ritiene «molto più verosimile, raccolta sempre in ambienti jihadisti: il musulmano Jamaal “follemente” si sarebbe offerto come volontario ai jihadisti come ostaggio, per solidarietà con l’amico cristiano con cui stava compiendo il viaggio. Forse pensava che la presenza di un musulmano nel gruppo avrebbe perlomeno salvato la vita alle altre persone»; così non è avvenuto: è stato assassinato anche Jamal, «come un apostata».
La storia e la scelta di Jamal Rahman richiamano quelle di Mahmoud Al ‘Asali, il docente universitario musulmano che la scorsa estate a Mosul «si era schierato pubblicamente contro la persecuzione nei confronti dei cristiani della città». Anche lui ha pagato questo comportamento con la morte.

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