Ben volentieri rilancio quest'interessante contributo che ci è pervenuto.
L’archetipo della
virilità
di Gaetano Masciullo
L’archetipo
della virilità è il bambino. Quello che può sembrare un paradosso, dato che il
bambino suscita idee di tenerezza, fragilità, ingenuità, cela in sé una grande
verità. Gesù nel vangelo dice che per meritare il Regno dei Cieli bisogna farsi
come bambini. Farsi, appunto,
ovverosia ritornare bambini: è quasi
una necessità per entrare nello stato di visione beatifica. È Gesù stesso, come sempre, che non solo insegna,
ma incarna la parola divina e testimonia con la vita. Ed è proprio con la sua
Incarnazione, apice della storia, che egli dà il modello: un bambino-re che
giace in una mangiatoia, secondo la tradizione apocrifa riscaldato soltanto da
un bue ed un asinello. Egli viene adorato dapprima dai pastori, poi dai Magi,
infine odiato e cercato da Erode per poter essere ucciso.
Lo psicologo Claudio
Risè, di scuola junghiana, individua anch’egli, in una sua opera (Claudio Risè, Il maschio selvatico 2, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo, 2015),
nella figura del Puer uno degli archetipi
possibili dell’essere maschio. Il bambino Gesù non parla, ma è in contatto con
la natura, attraverso la paglia del proprio giaciglio e l’alito delle bestie
che lo circondano. Chi viene ad adorarlo sono persone che, come lui, sono
rimaste in contatto con il mondo naturale per tutta la vita: i pastori e poi i
Magi, che non sono maghi, ma sacerdoti ed astronomi. Erode, invece,
rappresentante dell’uomo adulto, il senex
avversario del puer, ossia adulto ma
non maturo, vizioso, ossia “incatenato”
dalle proprie passioni, dalla paura e dalle sovrastrutture superflue della
civiltà, odia Gesù ed è disposto a far uccidere decine di bambini pur di
assicurarsi la sua morte. Il bambino è infante,
nel senso etimologico che “non parla”. La vita del bambino è dunque una vita
destinata all’esplorazione curiosa dapprima di sé stesso, poi del mondo fuori
di sé. Non una curiosità fine a sé stessa (come direbbe sant’Agostino: mera concupiscentia oculorum), ma una
curiosità per la conoscenza e, poi, per la sapienza. Il linguaggio è una
dimensione successiva alla conoscenza, non anteriore. Ma nella crescita del
bambino qualcosa intacca la sua originaria ed autentica innocenza: Erode lo
vuole morto, così come le varie sovrastrutture sociali e superflue, che invece
di essere un mezzo per l’affermazione della natura maschile ne divengono un
fine, e poi la stessa arma distruttrice. La paura avvinghia il ragazzo, e
distrugge quella sana curiosità di cui abbiamo già parlato. L’uomo si sente
schiacciato dalle prestazioni che ogni giorno deve compiere nella società,
nella vita cittadina, lontana dalla natura, a scuola, all’università, persino
nei rapporti con l’altro sesso l’ansia di “essere bravo a letto” incombe
minacciosa. Allora, ritornando a Gesù,
comprendiamo meglio il senso di quel “fatevi come bambini”. Ogni qual volta i
giudei ponevano al Signore questioni riguardanti la vita (diremmo oggi:
questioni bioetiche), egli era solito rispondere con una espressione che in
greco suona così: απ’ἀρχῆς (ap’archès), ovverosia “da principio”. Quando gli chiesero, ad
esempio, se fosse lecito il divorzio, Gesù rispose: “Da principio Dio li creò
maschio e femmina” (Matteo 19,4). E san Paolo scrive: “Dalla creazione in poi,
le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle
opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità” (Romani 1,20). La
natura delle cose è, per dirla con Aristotele, sostanza, sub – stantia, “ciò
che sta sotto”, ciò che rimane nonostante i cambiamenti. Dove vedere la
sostanza, e quindi la natura più originaria, delle cose? Quella che rimane
nonostante i costrutti sociali e le sovrastrutture create dall’homo senex? Con l’intelletto – scrive
Paolo – al principio.
Al principio c’è il progetto di Dio, ci sono le cose così
come devono essere. Anche per questo il bambino è l’archetipo della virilità:
perché è al principio della vita. Nell’introibo
della Messa il sacerdote canta: “Salirò all’altare di Dio, verso il Dio che
rende gioiosa la mia giovinezza”. Le sue parole sono le parole di tutta la
Chiesa. È la giovinezza
necessaria per salire all’altare di Dio e poterlo gustare. Ma per poter gustare
Dio bisogna essere padroni di sé stessi, sapienti, conoscitori della propria
natura: in altre parole, sapere chi siamo. “Conosci te stesso”, raccomandava il
celebre adagio socratico. Non importa l’età di chi pronuncia tali parole,
chiunque può farlo: Introibo ad altare
Dei, ad Deum qui laetificat juventutem meam. Continuare ad essere giovani,
continuare ad essere bambini per poter possedere il Regno dei Cieli.
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